2° CONGRESSO
Federazione dei comunisti anarchici
Cremona, 1-2 novembre 1986
RELAZIONE INTRODUTTIVA A CURA DELLA SEGRETERIA NAZIONALE
Aprire un Congresso come il nostro, ovverosia di un raggruppamento largamente minoritario e marginale nel panorama della sinistra (anche se viviamo un'epoca di forte depauperamento di una "cultura di sinistra" e di sostanziale ripiegamento della prospettive di "sovversione sociale"), aprirlo, dicevo, con uno sguardo rapido al complesso stato dell'economia e della politica internazionali, può apparire velleitario o, peggio ancora, atteggiamento rispettoso soltanto di una vuota ritualità. La sostanza è ben diversa: solo l'intuizione delle linee di evoluzione della società capitalistica, dei suoi ripensamenti, dei suoi cambiamenti di rotta, delle prospettive concrete di sviluppo che essa affronta, rende credibile una qualsiasi definizione tattica.
L'impostazione di un qualsivoglia lavoro politico al di fuori dell'ambito determinato da almeno un barlume di conoscenza del quadro di riferimento economico e sociale in cui esso viene a collocarsi, è per definizione sterile, se non controproducente; e questo a prescindere dalla consistenza delle forze che l'organizzazione riesce a mobilitare. Se non si vuole, quindi, ridurre l'intervento politico ad una pura risposta esistenziale alle pulsioni individuali o di un gruppo, se non si vuole concepire l'attività politica come puro riempitivo del tempo libero (e credo che ognuno di noi troverebbe modi sicuramente più allettanti), è necessario individuare ad essa degli obiettivi, minimi, parziali, locali, ma degli obiettivi che, in quanto tali, devono corrispondere a delle prospettive e misurare con esse la propria congruenza e con la situazione reale la propria praticabilità.
Compito prioritario, quindi, di ogni definizione di tattica o di strategia è l'individuazione e l'analisi della fase che vive il capitalismo e, sia detto per inciso, su questo tema la "minorità" della nostra organizzazione risulta molto ridimensionata: a distanza di un anno, ad esempio, la mozione approvata nel Congresso dello scorso anno non mostra i segni impietosi del tempo, ma anzi ha visto corroborati dai fatti molti elementi di analisi. E' quindi il caso di dire che i problemi che ci affliggono sono più relativi a capacità di gestione e di propaganda, che di autentiche difficoltà di proposta.
Ebbene, per tornare sul fronte dell'analisi, c'è da rilevare che i sintomi negativi sullo stato della coscienza di classe nel nostro paese ed in tutto il mondo, si sono accentuati rispetto a quelli denunciati un anno fa.
Il 1985 ha fatto segnare un record negativo assoluto nelle ore perse per scioperi ed il 1986, nonostante sia anno di contratti, evidenzia una ripresa troppo timida. Il movimento dei "giovani dell'85" ha rapidamente lasciato la scena, e non sembra (e vorrei sinceramente essere smentito) in fase di rivitalizzazione, nonostante la cura ministeriale a base di somministrazione forzata di ore di religione. Anche il movimento antinucleare, dopo la reviviscenza del dopo Cernobyl, stenta a trovare un passo costante di marcia, lasciando spazio alle iniziative pre-elettorali del PSI. Tutto tace in Inghilterra dopo la storica sconfitta dei minatori. L'islamismo avanza, tendendo a tramutare una guerra di classe in uno scontro religioso con forti venature oscurantiste. I fuochi residui del terrorismo brillano ancor più luminosi nella notte totale delle iniziative politiche, mostrando ancor più palesemente la propria sterilità disperata. I dittatori del Terzo Mondo possono essere rimossi solo dalla volontà dell'imperialismo centrale ed a volte (come nel caso di Pinochet) nemmeno da esso in tempi brevi.
Questo quadro così fosco trova riprova nell'arroganza padronale nel negare con l'accordo su questi contratti, preparati su piattaforme di puro e totale cedimento, qualsiasi volontà di trattativa al di fuori del proprio arbitrio.
Eppure, di fronte e tutto ciò, il capitalismo reaganiano, che ha finora condotto con tanta determinazione la danza internazionale, vede oggi le prime vistose crepe; crepe insanabili che preannunciano il crollo di un'impostazione economica e politica cui solo un anno fa sembrava arridere ogni successo. Quello che deve farci riflettere è che questo crollo è tutto motivato da interne difficoltà e che su di esse nulla o quasi pesa la forza dell'antagonista di classe. Vediamo di capire le cause, sia delle contraddizioni interne al capitalismo, sia dell'incapacità del movimento di classe non dico ad esprimere un'alternativa, ma almeno un progetto difensivo in grado di essere un argine allo strapotere dell'avversario.
Quello a cui stiamo assistendo, a livello di economia internazionale, è l'emergere dell'incapacità delle teorie monetariste a fungere da parametro di riferimento della politica economica. Dopo anni di dominio incontrastato e di apparenti successi, queste teorie, di stampo neoliberista, e su questo aspetto sarà opportuno tornare, come una coperta troppo corta lasciano scoperti aspetti vistosi dell'assetto dei paesi in cui con maggiore coerenza sono state applicate.
In particolare, in Gran Bretagna la disoccupazione non trova più argine, con vistosi fenomeni di frizione sociale specialmente tra le popolazioni di più recente immigrazione, e per di più le prospettive di riassorbimento svaniscono contro un evidente restringimento della base produttiva, cui non fanno più da scudo i benefici del petrolio del Mare del Nord.
Negli Stati Uniti, nonostante il massiccio (circa il 25% nell'arco di un anno), ma tardivo ridimensionamento del dollaro, il deficit della bilancia commerciale sembra non trovare limiti, anche se dati un po' più confortanti emergono dai mesi di agosto e settembre. Sono fatti importanti che non trovano inquadramento nell'ottimismo dell'establishment reaganiano. Nello specifico, il deficit commerciale statunitense mina le basi materiali della leadership internazionale, che non può trovare supporto solo sulla potenza militare e su di un'offensiva pubblicitaria, che per altro il nuovo corso sovietico tende ad incrinare vistosamente. Tra l'altro, se le commesse militari sono rimaste l'unico motore dell'economia USA (e l'insistenza sul progetto SDI ne è una riprova), a fronte della caduta del settore manifatturiero tradizionale e di quello agroalimentare, che trascina nella propria crisi il sistema bancario fondato in modo principale sul credito agricolo di una miriade di casse rurali, tale settore della difesa, pur con i vantaggi innegabili per la ricaduta di tecnologia di punta, trova limite nel deficit federale, che la riforma fiscale e la congiuntura produttiva sono ben lontane dal poter, non certo sanare, ma almeno migliorare.
Lo schizzo sopraesposto delle difficoltà dell'economia statunitense, dei suoi nodi irrisolti, delle strettoie attraverso le quali può, con molta difficoltà, trovare delle eventuali vie d'uscita, rimandano al quadro teorico su cui essa di è modellata negli ultimi anni, forzando su di esso l'intera economia internazionale, denunciando i limiti intrinseci di detto quadro. Ma se il monetarismo oggi fallisce, è necessaria una riflessione sul suo significato e sulle prospettive del suo ricambio.
Mi pare che la caratteristica essenziale del monetarismo, teoria come detto sopra neoliberista, sia quella di affidare il controllo di un sistema inevitabilmente complesso, come la struttura economica e sociale di una nazione, alla manovra di un solo parametro (la massa monetaria M1), lasciando il restante all'automatico equilibrarsi delle forze in gioco. Quest'ultimo è l'aspetto appunto neoliberista, apparentemente arcaico. In realtà questa teoria, ed è questa una riflessione cui invito tutti i compagni, corrisponde a criteri profondamente moderni ed attuali.
Tramontato il paradigma riduzionista, ovverosia l'ambizione di descrivere un sistema complesso una volta che se ne fosse compresa l'interazione elementare tra due componenti minimi e risalendo da questa al comportamento globale, paradigma che aveva segnato gli ultimi vistosi successi all'inizio del secolo, la scienza, dopo un lungo inseguimento ai "costituenti ultimi della materia", ha imboccato la strada di un ripensamento profondo di detto paradigma: soprattutto perché la corsa al microcosmo, favorita dall'utilità pratica di un'ingente ricaduta tecnologica, lasciava irrisolti ed irrisolvibili (nel panorama suddetto) problemi non rinviabili, legati a sistemi, appunto, complessi: non è un caso che la spinta in questo senso provenga e sia provenuta dalla biologia. La definizione stessa rigorosa di cosa si possa intendere per sistema complesso è tutt'altro che chiara, ma nella sostanza con questo concetto di affaccia la convinzione che il comportamento di più elementi interagenti non sia ricostruibile mattone per mattone dall'interazione a due a due di essi, ma che i meccanismi di retroazione (feedback) tra di essi comportino complicazioni non riconducibili a questo schema; e da ciò nasce l'esigenza di studiare il comportamento globalmente.
Bene, allora anche in economia e nelle scienze sociali cade negli anni '60 la fiducia nei sistemi riduzionistici (taylorismo, fordismo, teoria del valore) e si affacciano approcci globalisti. A me pare che il monetarismo sia uno di questi tentativi, che se pure è fallito, ha aperto la strada a nuovi progetti teorici dello stesso genere: in pratica, se il governo di M1 non è in grado di garantire il controllo del "sistema economia", sarò necessario individuare un nuovo p più nuovi parametri di controllo. Il perdurare del monetarismo trova giustificazione solo nell'assenza per il capitale di una teoria di ricambio, in quanto i modelli econometrici servono solo e malamente per le previsioni settoriali a breve.
Il tempo che il sistema capitalistico può darsi per trovare una soluzione di più lungo periodo è proporzionale alla tregua concessagli dal proletariato. Come suaccennato, lo stato dei movimenti è tutt'altro che brillante. Eppure fatti significativi continuano a prodursi.
A livello internazionale basti citare l'attenzione per i problemi della pace e del disarmo, cui gli USA non possono cedere per i motivi visti, mentre vi inclinano giocoforza i nuovi dirigenti del Cremino, che necessitano di uno spostamento di risorse verso i settori civili per garantire le riforme annunciate da Gorbaciov, tutte mirate ad un neoefficientismo.
A livello nazionale, nonostante il clima di stanchezza in cui si è svolta la stagione dei Congressi sindacali, la nascita di una "corrente di classe" dentro la CGIL, Democrazia Consiliare, pur con gli equivoci inevitabili connaturati alla sua formazione, è senza ombra di dubbio un fatto nuovo e rilevante, che può rispondere, o sarebbe meglio dire potrebbe rispondere, all'insoddisfazione dilagante a livello di classe: ne sono una riprova tangibile e concreta i risultati ottenuti dalla piattaforma alternativa presentata dai compagni metalmeccanici, novità assoluta nella storia sindacale del nostro paese nel dopoguerra: circa un quarto dei lavoratori che hanno risposto al referendum ha rifiutato i contenuti della piattaforma presentata dalle Confederazioni, esprimendosi a favore di quella alternativa; il terzo di astensioni più che qualunquismo, evidenzia un disagio ancora più profondo; la piattaforma confederale è stata bocciata nella maggioranza delle grosse aziende /esclusa la FIAT, che ormai fa storia sindacale a sé).
Il problema è che gli ultimi anni ci hanno abituato ad assistere a continue esplosioni isolate di antagonismo sociale di massa, isolate per collocazione geografica, dislocazione sociale e cadenza temporale. E' sufficiente, per semplificare, il ricordo del vuoto in cui si è collocato lo sciopero duro e perdente dei controllori di volo degli Stati Uniti, all'inizio del decennio e del primo mandato di Reagan, e confrontarlo con la generalizzazione sociale e culturale che un quindicennio prima aveva conosciuto, nello stesso paese, il movimento di rifiuto di presentazione per la guerra del Vietnam.
Quello che manca è un vasto substrato di "cultura sovversiva", che renda legittimo, come lo era stato fino alla metà degli anni '70, e non deviante ed anomalo, il comportamento di classe antagonista. E' questo il riflesso più negativo ed inquietante di una polverizzazione degli atteggiamenti di classe in una miriade di prospettive individuali, frutto del ricatto occupazionale, della compressione salariale generalizzata e della caduta di prospettiva della lotta collettiva.
Se c'è un'eredità pesante che il riformismo e la sua gestione lasciano nel movimento operaio italiano, è proprio quella di aver agevolato il progetto capitalistico di frantumazione degli interessi di classe, accettando prima la riduzione del potere d'acquisto dei salari e scatenando, poi, la fuga verso le soluzioni personali e non collettive, con la politica della professionalità e con l'alternativa del doppio lavoro. Quest'ultimo, poi, occultando possibilità occupazionali, ha teso ad aumentare la disoccupazione e con essa il ricatto sul posto di lavoro e quindi, in un circolo vizioso, la tenuta stessa della lotta e della coscienza di classe.
E' necessario, quindi, ribadire un fatto, palmare solo alcuni anni fa, ma che l'aggressione culturale dei valori padronali ha reso quasi un'eresia: la lotta per un salario più alto non è corporativa, non vuol dire tutelare la parte forte del proletariato, i "garantiti", a scapito degli altri, la sua attenuazione non comporta uno spostamento di risorse verso gli investimenti e quindi verso nuovi posti di lavoro. Se il salario non è sufficiente, il lavoratore è costretto al doppio lavoro, agli straordinari, che non a caso sono enormemente cresciuti dopo la drastica riduzione a seguito delle lotte degli anni '60 e '70, e con ciò veramente si limitano le possibilità occupazionali.
Istruttiva a questo proposito è la seguente tabella tratta dal "Il Sole 24 ore", a.112, n°257 del 30.X.1986, p.11:
I maggiori profitti, è ormai accertato (ma lo doveva essere già da molto tempo), non vanno a creare nuovi posti di lavoro, ma inducono ristrutturazione ed eliminazione di posti di lavoro. E' quindi tutta un'ottica di lavoro sindacale che va ribaltata, ottica che tra l'altro ha impedito la saldatura tra movimento operaio e movimenti sociali: l'incapacità o la non volontà di rimettere in discussione i profitti e la loro gestione ha contrastato la comprensione del fatto che troppo spesso essi venivano riversati su investimenti remunerativi, ma di nessuna utilità sociale ed a bassissima intensità di lavoro (nucleare militare, ecc.); e di conseguenza ha contrastato l'affermarsi di un proletariato forte ed unito in grado di imporre, in collegamento con i movimenti sociale, la riconversione ad altri fini di questo tipo di industrie, in una prospettiva che saldasse gli interessi, spesso uniti nella stessa persona, del lavoratore e del cittadino per un lavoro sicuro e ben retribuito e per un ambiente naturale e sociale non nocivo.
La ricostituzione di questa unità di interessi, unità naturale occultata dall'aggressione "culturale" e non solo culturale del padronato, è compito prioritario di un'organizzazione che voglia definirsi, essere ed operare come parte della sinistra rivoluzionaria. E' senza dubbio, questo compito troppo grande per la nostra organizzazione, ma è sicuramente questo l'obiettivo programmatico in cui va inserita la nostra discussione di tattica. Ma prima di addentrarci in questa discussione è opportuno fare il punto sulla situazione interna che abbiamo vissuto in questo ultimo anno, dopo il Congresso di Unificazione.
Molte sono le cose che non hanno funzionato e molte le scadenze che non abbiamo rispettato e nei dettagli entreremo domani mattina per apportare al nostro modo di funzionamento quelle modifiche che già a tutti si sono mostrate necessarie. Ora quello che interessa non è stabilire i singoli punti di caduta del programma, quanto capire le ragioni profonde, se ce ne sono, di ciò che è avvenuto.
Era forse velleitario supporre un andamento molto migliore, considerando i dati di partenza: un numero ristretto di militanti, forti distanze geografiche e confluenza di due raggruppamenti con storie, identità e tipologie di intervento differenziate. E' su quest'ultimo punto che vorrei soffermarmi, comunque, nella convinzione che alcuni degli ostacoli più grossi da rimuovere risiedono proprio su questo nodo e che su questo problema di tattica è da concentrare il lavoro di queste due giornate congressuali.
Ho, infatti, la netta sensazione che i due corpi ex-O.R.A. ed ex-U.C.A.T. si siano giustapposti nel problema dell'intervento, fondendosi invece a livello organizzativo, senza individuare e costruire una prospettiva comune, come quella in parte accennata in precedenza, agli interessi settoriali di entrambi.
E', quindi, più un problema di strategia politica dell'organizzazione quello che ci troviamo di fronte, corrispondente ad u disagio di prospettiva sul funzionamento dell'organizzazione, se l'analisi accennata ha una sua validità. Ed è proprio a questo interrogativo che dovremo cercare risposta, se non vogliamo uscire domani con tattiche ben definite settore per settore, dopo la discussione sulle relazioni delle singole Commissioni, senza averle correlate tra di loro, senza averle amalgamate in una prospettiva di intervento unificante, in grado di dare loro un senso che travalichi il quotidiano.
Questa impressione che il disagio dell'organizzazione sia derivato da un male di prospettiva trova conferma nell'andamento del dibattito sulla sigla, lacunoso e disinformato, frammentario ed improvvisato, ma che ha travalicato l'ambito puramente tattico assegnatogli dal Consiglio dei Delegati, per coinvolgere temi squisitamente strategici. Più infatti che di una scelta di opportunità e di immagine si è finiti, nella realtà, per discutere, volenti o nolenti, di collocazione dell'organizzazione, sia nel panorama storico dell'anarchismo di classe, sia nel panorama odierno della sinistra rivoluzionaria. Il dubbio non risiede tanto nel fatto che la scelta risultata prevalente non conta neppure la maggioranza relativa dei militanti che hanno partecipato alle assemblee precongressuali, quanto nel fatto che l'opzione risultante di poco minoritaria, non nasconda, nei fatti, una prospettiva strategica diversa, perché questo, compagni, non sarebbe più un problema da risolvere a colpi di votazione. Questo dubbio il Congresso è chiamato a sciogliere.
Ciò che intendo non è trasformare un Congresso convocato per discutere di tattica, in un Congresso che discuta di strategia; non sarebbe corretto. Credo soltanto che sia nostro compito saldare, verificando se ciò sia possibile, le tattiche settoriali in una prospettiva unificante, come detto, all'interno della quale il problema della sigla ritorni ad essere una pura scelta di opportunità.
All'interno di questa prospettiva anche l'intervento dei singoli militanti cessa di essere una risposta alle propensioni individuali o alle alee del caso. Infatti il dibattito sulla tattica non può ridursi all'enunciazione di quello che occorrerebbe fare per essere "al passo con i tempi" o per acquisire nuovi militanti, tutte cose importanti, ma che discendono di conseguenza da un intervento correttamente impostato. E qui correttamente non è sinonimo di ortodossia, è solo un richiamo alla congruenza tra lavoro politico ed obiettivi che non possono essere quelli appena enunciati.
Risulta chiaro, dunque, che i nodi da affrontare sono quelli dei referenti del lavoro politico dell'organizzazione e delle alleanze che sul programma definito andremo a costruire.
La scelta dei referenti, infatti, non è frutto di mode, non può cioè variare troppo rapidamente nel tempo; se è vero che alcuni settori del proletariato perdono di consistenza e di centralità, e questo fatto andrebbe per lo meno dimostrato e non solo enunciato, altri soggetti li rimpiazzano ed occorre individuarli, se non si vuole inseguire "tutti i treni", procedere alla cieca o, peggio ancora, mirare solo a ciò che si muove, progetto degno di chi intenda raccogliere l'eventuale (molto eventuale) eredità del PR, e non di un'organizzazione che intenda collocarsi in un'ottica di classe.
E questo apre il discorso sui movimenti sociali, che devono trovare un ancoraggio, se non altro strategico, nel mondo della produzione, pena il perdersi in una battaglia di idee, o per usare un termine inguaribilmente "vetero", tutta sovrastrutturale. Dall'altra parte si corre il rischio di svincolarsi da una visione materialistica per la quale, come diceva Bakunin: "lo sviluppo delle questioni materiali ed economiche fu sempre e continuerà ad essere la base determinante di ogni sviluppo religioso, filosofico, politico e sociale". (M. Bakunin, Risposta di un internazionale a Mazzini, in Opere Complete, vol. I, edizioni Anarchismo, Catania 1976, p.30).
E per uscire di metafora o di citazione, lo sviluppo di una sensibilità antinucleare è solo una base per iniziare a costruire un progetto di utilizzo alternativo dell'energia all'interno di un mutato modello produttivo, altrimenti si fa solo dell'agitazione fine a se stessa che tende a cambiare le fonti di energia lasciando inalterati i rapporti internazionali di sfruttamento. E lo stesso vale per i problemi della pace, troppo genericamente intesi, ed è forse il caso di ricordare che proprio il già citato Bakunin ruppe con la borghese Lega per la Pace ed il Disarmo per aderire all'Associazione Internazionale dei Lavoratori, proprio sul problema del come intendere il concetto di pace. Il dilemma non è quello di avere scomodi compagni di strada, ma quello di sapere a che punto cominciano le distinzioni.
In questo quadro la scelta dei movimenti in cui intervenire non è più una questione di propensioni, ma un problema di obiettivi che ci si pongono e che devono essere chiari, come motivate devono essere le scelte che i singoli compagni fanno in presenza di più possibilità di lavoro politico; perché una visione di economia delle forze prevede una coscienza collettiva della loro utilizzazione.
Anche le alleanze che si intrecciano nello sviluppo di un programma trovano legittimazione nel programma stesso e non nelle inevitabili differenze teoriche, anche profonde. Se infatti è la presenza nella classe che viene privilegiata, e non la crescita dell'organizzazione per diaspora dei più o meno concorrenti raggruppamenti anarchici, trova maggiore concretezza un rapporto con forze molto distanti teoricamente, ma impegnate sullo stesso crinale di lotta (come la LCR o, per alcuni aspetti, DP), che quello con i suddetti raggruppamenti di area, per lo più inattivi sui nostri terreni.
Per tornare al punto di partenza, è una crisi di progettualità quella che ci troviamo ad affrontare, crisi che non possiamo risolvere tutta subito a questo Congresso, di cui possiamo individuare in questi giorni i connotati precisi, per avviarne un processo di soluzione che veda impegnati tutti i compagni in uno sforzo propositivo. D'altra parte un corpo dottrinario lo abbiamo già acquisito come frutto di anni di lavoro e codificato al Congresso di Unificazione dello scorso anno, anche se ancora da affrontare uno sforzo non indifferente di ricomposizione organica e strutturata di tutto il materiale. Era impegno congressuale, impegno purtroppo disattesi, l'avviare una Commissione che procedesse a questo lavoro; ad esso occorre ora dare attuazione.
Saldare questo complesso teorico e strategico con le indicazioni di tattica che emergeranno dal Congresso è il compito che ci attende nel prossimo anno, ma è chiaro che già ora deve emergere una necessaria congruenza di fondo. Ma il compito è pur sempre non da poco, se è vero che definire un programma di lavoro di non corto respiro significa colmare il vuoto tra l'intervento quotidiano, troppo spesso di risposta all'altrui iniziativa, e gli obiettivi rivoluzionari dichiarati nei "sacri principi". Tutti i militanti dell'organizzazione devono divenire, a questo fine, "teste pensanti", verificando quotidianamente nel lavoro politico di intervento l'efficacia della tattica e la sua affinità prospettica con gli esiti strategici desiderati. Le strade che si stanno di fronte sono tante e multiplamente intrecciate; risalire attraverso esse agli sbocchi che ci interessano non è opera di pura speculazione, perché il tracciato si può individuare solo attraverso una continua ricerca all'interno delle vittorie e delle sconfitte del proletariato.
Saverio Craparo, per la Segreteria Nazionale