3° CONGRESSO

Federazione dei comunisti anarchici

Livorno, 7-8 marzo 1992

MOZIONE SULLA FASE

L'ASSETTO DEL CAPITALISMO INTERNAZIONALE

 

Elementi metodologici di analisi della fase

Il compito fondamentale, anche quando ci diamo il carico di analizzare la fase, è quello di dipanare la matassa sempre più ingarbugliata delle complessità, per meglio dire mettere in atto un processo di astrazione capace di far emergere l'essenzialità dello sviluppo capitalista in ogni sua fase. Non sempre la sinistra ha saputo sviluppare analisi capaci di astrazione ed oggi, in particolare, fenomeni congiunturali, spesso locali, influenzano l'analisi macroeconomia nel medio e lungo periodo: analisi che proprio per la loro incapacità di andare oltre il dato empirico, risultano eclettiche e contraddittorie. Esempi storici e attuali non mancano.

Solo per cenni possiamo ricordare qui alcune di queste analisi che hanno prodotto e producono gravi guasti nello sviluppo di una coscienza di classe. 

Il mito del "crollo del capitalismo"

Per prima ricordiamo quella che forse si è dimostrata la più nefanda: la teoria del crollo inevitabile del capitalismo.

Questa teoria con il suo carico di finalismo trascendentale, simile a quello cattolico, ha rappresentato il bel sogno di molte generazioni di lavoratori i quali hanno immaginato il comunismo come necessario, logico e inevitabile sbocco della crisi del capitalismo. Ciò ha impedito, a uomini come lo stesso Lenin, di valutare la reale capacità di sviluppo del capitale, il quale, lungi dall'essere arrivato nel 1917 allo stadio della sua putrefazione, seppe superare le fiammate rivoluzionarie e portare con un processo lungo, ma costante, nuove realtà geografiche sotto il proprio dominio. I processi interni alla Russia, la sopravvalutazione delle capacità soggettive portarono Lenin, in un testo che rimane fondamentale per la comprensione dell'imperialismo, a ipotizzare l'imminente fine del capitalismo. E ancora oggi, la crisi, come aspetto intrinseco del capitale, è troppo spesso vista, nell'analisi dei compagni, come un processo automatico e in progressione geometrica che inevitabilmente porta al superamento del capitalismo stesso. In generale la discussione intorno al "crollo inevitabile" ha impedito di analizzare meglio le capacità che il capitalismo ha di plasmarsi alle esigenze che si pongono nello sviluppo della società: in sostanza, non è stato sufficientemente sottolineato che la struttura socio-economica espressione funzionale del capitale si è mostrata essere un sistema flessibile intrinsecamente forte. Tale sottovalutazione è fonte costante di abbagli.

L'informatizzazione e la "scomparsa" della classe operaia

Così è per le teorie che con profusione si svilupparono intorno alla comparsa dei primi grandi elaboratori di dati, quelli che allora, fine anni '60, con termine affascinante venivano definiti "intelligenze artificiali", e successivamente intorno all'avvio dell'informatizzazione dei processi produttivi.

Dal punto di vista teorico i danni, se è possibile, furono ancora più gravi.

Dimenticando il nesso che comunque lega gli strumenti tecnici alla realtà economica e politica che ne ha permesso o stimolato lo sviluppo si è ipotizzato, anche da menti libertarie - Cohn Bendit - un uso libertario o democratico di tali strumenti. Pianificazione centralizzate in uffici statistici non soggetti ai burocrati di partito, ma sotto il diretto controllo di uno strumento, immaginato neutrale, quale l'elaboratore elettronico. O, per arrivare ad un dibattito più recente, vedere nella diffusione degli strumenti informatici una possibilità di accesso diretto alle informazioni e quindi strumento di diffusione della democrazia. Quanto limitata fosse l'intelligenza di queste macchine, dopo le euforie dei primi anni, si è subito capito, ridando a questi strumenti il loro valore di macchine soggette alla volontà degli uomini. Mentre sul terreno della partecipazione democratica è apparso chiaro che gli strumenti possono essere anche utili veicoli, ma comunque rimangono vincolati alla gestione. Semmai il loro sviluppo, anziché allargare gli spazi di democrazia, spesso si è tradotto in forme di controllo occulto dei lavoratori e in nuovi fenomeni di alienazione.

Accanto alle illusioni democraticistiche, l'informatizzazione dei processi produttivi - cosiddetta fabbrica automatica- ha alimentato tutto qual vano ragionare intorno alla scomparsa della classe operaia e alla conseguente perdita di centralità della forza lavoro nella produzione delle merci e nella determinazione del loro valore.

Anche in questo caso, l'astrattezza delle disquisizioni teoriche si è dovuta misurare con una realtà completamente diversa da quella che si ipotizzava. Un'analisi che non si fermasse alle city delle metropoli poteva, senza bisogno di elucubrazioni ideologiche, mostrare un mondo in cui la classe operaia - intendendo in questo caso i settori produttivi industriali - non solo manteneva la sua forza strutturale, ma cresceva numericamente lungo le linee di espansione del capitale, che ancora in questi anni non ha esteso il proprio controllo su tutto il globo. Gli stessi fenomeni di terziarizzazione che in occidente hanno posto problemi di ridefinizione della classe, pur nella loro evidente realtà non sembra possano essere considerati come tendenze inarrestabili, tant'è che in questa fase si assiste ad un rallentamento della dinamica e ad un riequilibrio con la classe operaia. E rispetto alla stessa possibilità di processi spinti di informatizzazione dei processi produttivi si è dovuto ammettere il fallimento di tale impostazione e riconoscere le centralità della forza lavoro all'interno del ciclo lavorativo -servizi e produzione.

Dall'eclettismo scientifico all'opportunismo

Analizzare i processi economici e sociali con lo scopo di trarne elementi di comprensione per il passato e orientamenti per il futuro non è cosa scientificamente semplice. La storia si fa, spesso con i se e con i ma e l'analisi per il futuro si conduce con semplici estrapolazioni dal passato.

Una corretta analisi del passato, usando gli strumenti dell'analisi materialista, ovvero non abbandonando mai l'osservatorio dal punto di vista operaio, dovrebbe consentirci di capire perché, date quelle e non altre forze in campo, la storia non poteva che avere quello sviluppo. In sostanza l'analisi materialista ci consente solo a posteriori di definire, nel suo cammino specifico, l'organicità dello sviluppo economico e sociale. Questa fondamentale e proficua acquisizione teorica viene spesso sottovalutata e travisata, tant'è che lo studio dei processi economici passati viene svilito in mera storia raccontata, perdendo il filo conduttore che lega la successione degli eventi. Tipiche le analisi storico-economiche che si caratterizzano per la periodizzazione: la manifattura, il taylorismo, l'intervento statale in economia, l'informatizzazione, il post-industriale.

Ogni periodo viene assunto come altro rispetto ai precedenti ed ai successivi, con caratteristiche peculiari e fondamentali diverse, tali da impedire la definizione di un minimo denominatore comune. Questo approccio analitico, utilizzato in modo erroneo sia per il passato che per il futuro, è proprio dell'opportunismo che avendo la necessità di adeguarsi alle onde della storia non fa che plasmare le proprie teorie in funzione dei ceti emergenti e ingannare i lavoratori condannandoli a rincorrere effimere chimere.

Significativamente tale approccio è simile a quello imprenditoriale, talché non meraviglia constatare che la deriva riformista non può finire che nelle braccia della centralità d'impresa.

Di contro pensare di individuare con meticolosa precisione gli sviluppi economici e politici futuri, inquadrandoli in un insieme organico, è frutto di uno scientismo meccanico (meglio sarebbe dire di un materialismo volgare) e in parte di una conoscenza approssimativa degli strumenti analitici. Tale approccio schematico, negando di fatto l'intreccio dialettico tra elementi strutturali e sovrastrutturali, rischia di disarmare l'azione comunista per il cambiamento.

Costanti e tendenze del capitalismo: lo Stato

E' evidente, dunque, che la cosa più importante per una organizzazione rivoluzionaria è comprendere gli elementi di continuità e le tendenze del capitalismo. Al riguardo possiamo sintetizzare in modo schematico alcuni processi storici che per la loro costanza possono essere individuati come elementi che sostanziano il sistema capitalista.

Lo Stato, la concorrenza, le tendenze monopolistiche e le crisi cicliche

Molto è stato scritto sulla natura e ruolo dello Stato, e altrettanto spesso intorno ad esso si è prodotta ideologia che non ci ha aiutato a comprenderne la vera funzione. L'approccio anarchico, marxista e liberale, per lo meno nelle loro accezioni più settarie e schematiche, che sono quelle che in genere hanno il maggior seguito, hanno definito l'intervento statale secondo questi tre assiomi.

L'Anarchico individua lo Stato come fonte primaria dell'accumulazione capitalistica e strumento principale della divisione di classe;

il Marxista colloca lo Stato nella sfera sovrastrutturale enfatizzando il ruolo dei processo economici;

il Liberale relega lo Stato nella sfera sovrastrutturale parassitaria ipotizzando il suo superamento grazie al libero scambio.

Affermare che lo Stato ha rappresentato un elemento costante nello sviluppo del capitale significa negare queste tre formulazioni, mentre significa cogliere appieno la connessione dialettica tra i due elementi fondanti della società moderna.

Lo Stato sin dall'inizio svolge un ruolo di carattere economico:

"i cavalieri dell'industria riuscirono a soppiantare i cavalieri della spada sfruttando avvenimenti dei quali erano innocenti…ma tutti si servirono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è levatrice di ogni vecchia società gravida di una società nuova. E' essa stessa una potenza economica…" (Marx, Libro I° cap. XXIV de Il Capitale).

Il ruolo dello Stato agli albori della formazione capitalista può essere dunque brutalizzato a semplice cane da guardia degli interessi borghesi, e il suo ingresso come capitalista nelle gestione economica della società non può essere rappresentata come una novità o addirittura una rottura con il periodo precedente (d'altronde l'intervento dello Stato nelle politiche sociali - assicurazioni, infortuni - rappresentano già alla fine del XIX secolo un importante intervento economico), ma è solo più semplicemente una nuova fase dove, attraverso lo stesso strumento, si adatta l'intervento alle nuove esigenze congiunturali dovute alla caduta del saggio di profitto. Anche in anni più recenti sono stati ripetuti errori nel delineare le tendenze dello Stato nell'economia. Ancora una volta è stata fatta confusione tra fasi congiunturali e periodi storici, delineando un processo di progressiva statalizzazione dell'economia, vista dai riformisti come base per l'introduzione di elementi di socialismo e da molti compagni rivoluzionari come momento in cui si formava una nuova classe egemone: quella dei tecnocrati (anche qui in buona compagnia di scuole liberali). La cronaca di questi ultimi anni ha mostrato quanto fossero fallaci queste teorizzazioni.

Lo sviluppo diseguale del sistema di produzione capitalistico

L'assetto del sistema di produzione capitalistico non è limitato ad alcuni paesi ma è mondiale; non può quindi essere schematizzato nella formula arbitraria, semplificatoria e distorcente, "nord del mondo ricco e predatore, sud del mondo povero e sfruttato". Nei paesi semplicisticamente definiti "poveri" assistiamo, in realtà, a fasi arretrate e quindi diversificate, di sviluppo del sistema di produzione capitalistico mondiale.

Anche in questi paesi si verificano, sia pure con le naturali diversificazioni, le contraddizioni tipiche dei regimi capitalistici poiché nonostante il basso Prodotto Interno Lordo (PIL) e la miseria crescente, si è in presenza di sistemi economici che traggono la loro capacità di riprodursi dall'estrazione del profitto e dalla divisione di classe.

L'immiserimento crescente che caratterizza i paesi arretrati è quindi una caratteristica dello "sviluppo diseguale" del sistema di produzione capitalistico mondiale.

Nei paesi arretrati non esiste un unico popolo povero e sfruttato dall'Occidente, ma una borghesia detentrice dei mezzi di produzione, ed un proletariato quale classe subalterna. Lo scontro di classe che inevitabilmente si manifesta è uno scontro tra il giovane proletariato del terzo mondo e le varie borghesie nazionali, le quali possono assumere ruoli progressisti, dittatoriali ed imperialisti a seconda delle fasi economiche e delle esigenze connesse all'espansione del capitalismo. Lo sviluppo di un determinato paese non può essere considerato isolatamente dal contesto internazionale dei rapporti di produzione: ricchezza e miseria sono le facce ineliminabili e complementari, di un medesimo sistema di produzione mondiale egemone costituito dal modello di produzione capitalistico.

Il crollo del capitalismo di stato

In questo periodo due elementi hanno caratterizzato l'analisi della fase. Il processo di integrazione economico e politico europeo e la disgregazione dei paesi a capitalismo di Stato con la nascita di nuove realtà nazionali. Con disinvoltura analitica è stato sostenuto che il bipolarismo imperialista USA-URSS veniva superato a favore di una realtà tribolare, dove accanto agli USA, ormai in declino già dai primi anni '80, si affiancava il Giappone e l'Europa Comunitaria. Questa analisi, con le varianti di un policentrismo che teneva conto delle economie emergenti del Sud-Est asiatico, ha tenuto banco fino ai primi mesi del '91, per poi essere progressivamente abbandonata in favore di una lettura che dà rilevanza alle economie nazionali. Lo Stato nazionale nel giro di un anno è passato da elemento residuale da superare in funzione dello Stato sovranazionale e elemento centrale dello scenario degli anni '90.

Alcune puntualizzazioni sono necessarie.

La polarizzazione USA-URSS rispondeva più ad una visione politica che economica, in quanto l'unica economia che poteva essere definita imperialista era quella americana, mentre per l'URSS si trattava soprattutto di egemonia politica militare, ed economicamente di un imperialismo dai caratteri mercantili, tipici di un capitalismo nella sua fase di formazione. L'imperialismo, se viene inquadrato come fenomeno prettamente politico, come spinta all'annessione di nuovi territori, rischia di farci perdere di vista le attuali tendenze di sviluppo. Infatti, rispetto all'implosione dell'Unione Sovietica e dell'area orientale; alla nuova definizione dell'area medio-orientale dopo la guerra del Golfo; alle battute di arresto del processo di integrazione europea in seguito alla riunificazione tedesca e alla situazione jugoslava, lo scenario che in base ad un approccio politico-militare sembra prevalere è quello che vede gli Stati Uniti, con la sua dimostrata superiorità militare, come unica forza imperialista. In realtà, l'imperialismo così come si esprime nella società moderna è essenzialmente l'affermazione dei monopoli capitalistici che comprimono la libera concorrenza. "Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma coesistono, originando così una serie di aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e conflitti". (Lenin, L'imperialismo)

In questa felice definizione, che trova ampi riscontri nei dati economici attuali, troviamo l'indicazione di due importanti elementi: primo, una costante, la concorrenza, messa in discussione spesso proprio da compagni che danno del testo di Lenin una lettura schematica, e una tendenza, la concentrazione e la centralizzazione del capitale (formazione del capitale finanziario, prevalenza delle esportazioni di capitali sulla esportazione di merci).

Sulla tendenza alla concentrazione e alla centralizzazione, avendo presente che i momenti possono procedere in alcuni periodi non in modo concorde -il decentramento produttivo in Italia- pensiamo non occorra spendere molte parole. I dati di anno in anno confermano questo processo che ha investito anche settori tradizionalmente polverizzati come quelle del commercio, dove si assiste ad una diminuzione, seppur lenta, dei punti vendita tradizionali e una rapida crescita dei supermercati e ipermercati. Come ulteriore esempio possiamo ricordare il settore automobilistico che negli ultimi 20 anni è andato a radicali processi di ristrutturazione tali che in Italia si è consolidata una posizione monopolistica -FIAT. Il processo di concentrazione non prosegue indefinitamente, esso viene contrastato dalla concorrenza di nuovi capitali, che entrando nella competizione internazionale si oppongono alle concentrazioni esistenti, ne ridimensionano le quote di mercato, impongono la formazione di nuovi oligopoli. Questo è il quadro che ha visto emergere le economie giapponese, tedesca e in parte di quelle rampanti del sud-est asiatico. Ma l'evoluzione dinamica dei processi di concentrazione è correlata alla persistenza delle crisi cicliche, sulla cui esistenza empirica non sembrano esserci dubbi, sebbene, con ricorrenza altrettanto ciclica, c'è chi si immagina uno sviluppo nella stabilità.

Il capitalista individuale - qui inteso non letteralmente, ma come una porzione del capitale - soggetto alla ferrea legge della concorrenza non ha altra scelta di fronte a sé che quella di "espandersi o morire", infatti l'aumento in progressione della produttività delle forze produttive è da sola insufficiente, senza un contemporaneo allargamento della propria base produttiva, a controllare fette crescenti di mercato. L'accresciuta capacità produttiva, che si estende per meccanismi di simpatia da un capitalista all'altro, fa sì che l'intero sistema, anche se con sfasamenti, si trovi in una fase di sovrapproduzione: accanto alla crescita dei beni capitali - nuovi impianti e nuova tecnologia - non si ha un'altrettanta crescita della domanda dei beni di consumo, tale da essere assorbire tutta la produzione dei beni capitali.

Il mancato allocamento dei beni prodotti determina una fase di recessione, contrassegnato dal restringimento della base produttiva - distruzione delle forze produttive - che può avvenire in maniera più o meno traumatica: ristrutturazione, fallimenti, guerre: sempre sulla pelle dei lavoratori.

In questo quadro di instabilità si inseriscono, e meglio si comprendono, quei processi di controllo imperialista, non immutabili, che caratterizzano l'attuale fase di sviluppo capitalista. Partendo da questi elementi possiamo affermare che il controllo del mercato capitalista si gioca oggi, essenzialmente intorno a tre aree politico-economiche che hanno come perni gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania.

L'assetto capitalistico internazionale

E' difficile sottovalutare l'entità dei cambiamenti in atto nel panorama internazionale. Ma più che il crollo della struttura bipolare, che aveva costituito il tratto caratteristico dell'assetto mondiale postbellico, più che la polverizzazione dell'impero russo (fenomeni sotto gli occhi di tutti), quello che maggiormente è da analizzare, per trarne le conseguenze che più direttamente concernono l'area di interessi economici in cui ci troviamo ad operare, è la crisi irreversibile del sistema gerarchico uscito dagli accordi di Bretton Woods che ha visto gli USA dominare l'Occidente capitalistico.

Una leadership da lungo tempo in discussione, riaffermata all'inizio degli anni settanta con il ricatto energetico e con quello monetario, è oramai al tramonto. La cura monetarista, incarnata nella reaganomic, sui si è basata la fragile restaurazione degli anni ottanta lascia alle sue spalle una situazione di crisi del sistema economico americano senza appello. Al contrario, il vecchio mondo (Germania in testa) emerge ora con le carte in regola per ottenere un ribaltamento delle ragioni di scambio perseguito con tenacia da tre decenni. L'irruzione definitiva, totale e subitanea della logica del mercato in quelli che furono i paesi "sovietici" costituisce la partita su cui si gioca l'assetto dei tempi a venire. Si deve prendere atto che ci troviamo di fronte ad una tendenza alla concentrazione e centralizzazione del capitale finanziario su quello di investimento che assegna rilevanza alle esportazioni di capitali rispetto a quella di merci: questo modello è oggi entrato fortemente in crisi.

Come è noto, il processo di concentrazione non procede indefinitamente, ma dà luogo alla formazione di oligopoli in lotta tra loro per dividersi sulla base dei nuovi rapporti di forza i mercati. In questa fase è fisiologico il riemergere del ruolo degli Stati e soprattutto di quelli localizzati nelle aree economicamente più forti, che attraverso le proprie banche centrali controllano le politiche finanziarie delle aree macroeconomiche. Esse possono così esercitare un ruolo di attrazione dei capitali facilitandone le condizioni per la concentrazione, garantendone l'impiego attraverso il controllo del territorio, dell'apparato industriale, della forza lavoro.

Tuttavia, attualmente lo sviluppo delle forze produttive vive una fase di sovrapproduzione in quanto -come vedremo analizzano sia pur sommariamente le principali aree produttive- non si ha una parallela crescita della domanda di beni di consumo. Alla crisi dell'economia di piano, del keynesismo, del monetarismo, non si è ancora sostituito un nuovo modello di gestione mentre le masse oppresse del mondo non sono politicamente in grado di sviluppare una iniziativa capace di ribaltare i rapporti di forza tra capitale e lavoro. In questa fase di stallo prevale dunque una fase recessiva che avviene in modo più o meno traumatico: ristrutturazione, fallimenti, licenziamenti, guerre locali altamente distruttive di beni e infrastrutture oltre che di vite umane.

Partendo da questi elementi di lettura generale della fase possiamo affermare che oggi il controllo e la leadership dello sviluppo capitalistico e del controllo del mercato si gioca essenzialmente in tre aree economiche che possiamo sommariamente analizzare.

USA

Le cause della crisi possono essere così individuate:

  1. supervalutazione del dollaro -afflusso di capitali ma crisi delle esportazioni (bilancia commerciale). Il mercato americano è invaso da merci giapponesi mentre cala l'occupazione (da ottobre 2600 licenziamenti al giorno);
  2. crisi del mercato agricolo e conseguente crisi del sistema bancario a partire dalla casse rurali, vero nerbo del sistema bancario americano. Per riequilibrare la situazione del mercato alimentare, gli USA chiedono l'assegnazione di aree rigide e la cessione da parte europea di una quota del 25% dei mercati attualmente coperti dai prodotti CEE; crisi della grandi banche esposte sui prestiti ai paesi del terzo mondo poi non rientrati in molti casi;
  3. corsa agli armamenti con super-ricerca senza ricaduta tecnologica. Crisi dell'industria bellica che assorbiva circa un terzo dell'attività produttiva USA;
  4. curva di Leffer, detassazione e riduzione della spesa statale;
  5. meno soldi alla ricerca e perdita del confronto tecnologico col Giappone. Nel settore ricerca, a differenza che in passato, mentre vi sono ancora le punte avanzate, manca quel tessuto intermedio che permetteva la ricaduta sul sistema produttivo. Si può affermare che c'è uno iato tra settori avanzati e quelli tradizionali;
  6. crisi dello stato sociale, nuove povertà ed estinzione della classe media. Se oggi la ripresa stenta a partire è anche perché non vi è questa fascia intermedia in parte respinta verso i poveri -enormemente cresciuti- in minima parte passata tra i ricchi;
  7. esaurimento della fase di investimenti e industrializzazione forata del su-ovest che caratterizzò gli anni '80. In poco più di un decennio si sono bruciate le risorse del territorio (esempio macroscopico e noto quello della Silicon Valley) con uno sfruttamento selvaggio che ha prodotto degrado ambientale con costi enormi. Oggi, si sono esaurite quelle condizioni: lavoratori non organizzati, scarsa sindacalizzazione, assenza di una strutture sociale che all'epoca fecero preferire queste aree a quelle dell'est, caratterizzato da vecchia e storica industrializzazione. Si è creato un tessuto sociale fortemente degradato dove dominano il teppismo e le bande criminali.
  8. Crisi del mercato interno. Gli USA hanno tentato l'allargamento del mercato interno associando Canada e Messico in una "zona di libero scambio". I successi sono stati molto inferiori alle aspettative, anche se soprattutto in Messico crescono gli investimenti e lo sviluppo. Non è da escludere che questa sia la nuova frontiera dell'attività ristrutturata USA posto che gli investimenti in quel paese sono remunerativi soprattutto perché:

Giappone

Il Giappone attraversa una fase delicata poiché sono entrati in crisi i meccanismi finanziari che in questi anni ne hanno assicurato l'inarrestabile crescita. Il sistema produttivo giapponese è indubbiamente solido, buono il rapporto tra innovazione tecnologica e capacità di tradurla in nuovi prodotti, basso il costo del lavoro, rigido il meccanismo di controllo sociale e di affezione del lavoratore all'impresa. Il sistema "feudale" che lega il lavoratore-consumatore alla sua azienda è ciò che ha permesso di superare il grave handicap dell'assenza di un ampio mercato interno, poiché quello esistente è interamente coperto da prodotti nipponici, complici anche le tariffe doganali La prosperità dell'economia giapponese perciò vive nei mercati stranieri e soprattutto di quello americano. Ma ciò non basterebbe a spiegare né le ragioni della crescita esponenziale dell'economia giapponese né le ragioni strutturali dell'attuale crisi.

Occorre ricordare che per effetti degli accordi monetari stipulati nell'85 all'Hotel Plaza, la rivalutazione dello yen imposta per frenare l'export giapponese ha funzionato da incentivo formidabile sia al mercato finanziario interno (crescita dei valori immobiliari, di quello delle azioni ed obbligazioni e dei vari tipi di impiego finanziario che la borsa offre) che all'investimento esterno. Con la loro moneta "forte", i giapponesi hanno acquistato tutto ciò che era conveniente acquistare, hanno creato teste di ponte alla loro industria, hanno migliorato la rete di vendita, annullando quegli effetti negativi sulla loro capacità di esportazione, al punto che l'economia ha continuato la sua crescita. Di fronte alle prospettive di fermata da tempo presenti nell'economia americana, che assorbe larga parte dell'export giapponese e in previsione di una fase congiunturale quale quella che stiamo vivendo, il "miracolo" è finito. Dal gennaio del 1990 è iniziato un crescente rientro nei valori reali delle azioni, delle proprietà immobiliari, degli investimenti finanziari. La crescita della speculazione rischiava di far saltare il sistema. Alcuni dati. Nel gennaio del 1990 la capitalizzazione della borsa aveva raggiunto i 6 milioni e 100 mila miliardi di lire mentre il 30 novembre del 1991 era scesa a 3 milioni e 800 mila miliardi, con una perdita di 2 milioni e 300 mila miliardi. A questo gigantesco ridimensionamento si sono accompagnati ovviamente fallimenti bancari, societari e individuali, colossali truffe, scandali finanziari. Oggi 400 mila miliardi di obbligazioni convertibili emessi quando i prezzi delle azioni erano alti, dovranno essere ora rimorsati da chi le ha emesse mentre il valore delle azioni di riferimento è notevolmente più basso. Gli impegni bancari con pagamento di interessi differiti ammontano a 200 mila miliardi; i crediti del settore finanziario non bancario, leasing soprattutto, ammontano ad una cifra che va dai 200 ai 400 mila miliardi.

Le cifre ci dicono che è in corso un assestamento di proporzioni gigantesche che porterà ad un più razionale e meno disinvolto impiego dei capitali che saranno convogliati prevalentemente verso il mercato interno per finanziare le necessarie ristrutturazioni, a scapito degli investimenti in altre aree e soprattutto all'Est e meno che meno nel terzo mondo.

Tutto ciò avviene mentre economie dinamiche come quella di Taiwan, Singapore e Corea del Sud cercano di aggredire tradizionali quote di mercato giapponesi, senza costituire quel "mercato interno" ampio di cui il Giappone ha spaventosamente bisogno.
Da qui l'offerta americana di una alleanza strategica in funzione anti-europea, e soprattutto tedesca, che il Giappone ha difficoltà ad accettare, ma che costituisce uno scenario possibile, anche se problematico. Il sistema economico giapponese, come quello tedesco, si caratterizza per un controllo delle autorità finanziarie statali sulle integrazioni azionarie delle multinazionali, controllo esercitato con discrezione e limitatamente alle aree produttive considerate strategiche mentre altri paesi, come ad esempio gli USA, sono restii ad usare questi strumenti. Ciò fa pensare a possibili rilevanti contrasti intercapitalistici molto duri.

Europa

Oggi l'Europa - con la Germania come perno centrale - è l'area che dispone del mercato interno più vasto per numero di consumatori e con capacità ricettive elevate di recepimento dell'offerta di ben di consumo e durevoli a causa delle potenzialità di questo mercato per risorse naturali possedute, materie prime, formazione complessiva e qualificata della forza lavoro. Questo mercato interno si avvicina a 500 milioni di consumatori/produttori. Nell'ambito di questo mercato, la Germania svolge un ruolo senza dubbio egemonico sia per la solidità dell'apparato produttivo, sia perché ne copre direttamente un quinto se alla popolazione tedesca si sommano quelle dei paesi strettamente legati alla Germania. La quota di mercato è ancora maggiore se si considera l'area del marco ed è destinata a crescere per effetto delle politiche monetarie della Bundesbank finalizzate a stimolare attraverso tassi elevati l'afflusso di capitali internazionali in fuga dal poco remunerativo mercato USA e giapponese. Da questi elementi è possibile ipotizzare una forte crescita degli investimenti tedeschi e non è escluso che l'Europa possa costituire il futuro motore della ripresa, sostituendo la "locomotiva americana".

Anche se non a torto si afferma che i mercati apertisi ad est sono poco appetibili al momento a causa dell'instabilità politica di quelle aree, si fa notare il grande attivismo della Germania che da un lato incoraggia e finanzia i separatismi (in Yugoslavia, tra cechi e slovacchi, e ancora prima delle repubbliche baltiche), dall'altro strizza l'occhio all'Ucraina. Come non leggere nel Commonwealth promosso dalle repubbliche slave tra l'altro una reazione storica per fermare l'espansionismo tedesco.

In quanto ai mercati dell'Est, va rilevato che la forza lavoro di cui dispongono quelle aree è altamente professionalizzata e quindi agevolmente riciclabile. Esiste comunque una cultura produttiva e richieste sia di beni di consumo che durevoli compatibili, anzi proprie delle economie europee, per cui quest'area è certamente un allettante mercato potenziale.

Potrebbe succedere che nel breve periodo l'Europa riesca a riprendere su di sé la centralità dello sviluppo attuando quel progetto anti-americano che non gli riuscì nel 1973 e fu stroncato dalla crisi pilotata del petrolio.

Le prospettive per la lotta di classe

Abbiamo di fronte un capitalismo egemone e vincente sull'avversario di classe, ma diviso ed in difficoltà nel trovare le soluzioni ai problemi del suo sviluppo senza crearne altri. In questo quadro, la contraddizione principale dello sviluppo capitalista, cioè l'accentuarsi della produzione del lavoro come fenomeno sociale e l'appropriazione del prodotto del lavoro - la ricchezza - come fenomeno privato, non sembra trovare una soluzione. Infatti la progressiva integrazione della classe operaia e il suo confluire in una classe media cogestrice dell'economia e del consenso sociale al sistema politico si è dimostrata una tendenza effimera. Nel cuore del capitalismo, in USA, dove i processi sono generalmente più avanzati e precursori rispetto a quelli delle altre società capitalistiche, la polarizzazione dei redditi ha avuto una accelerazione in tutti gli anni '80 e sempre più gli indicatori economici e sociali ci mostrano una situazione in cui aumentano in percentuale i poveri mentre si formano fasce di emarginazione giudicate addirittura patologiche e funzionali, nonché tollerabili, dal sistema economico capitalista.

In Italia e in Europa, nonostante le difficoltà oggettive nelle quali si trova il movimento operaio, i lavoratori rappresentano ancora un aggregato sia per la forza strutturale che conservano che per il permanere diffuso di concezioni antagoniste per cui essi non appaiono immediatamente utilizzabili per politiche collaborazioniste se non al prezzo di pesanti lacerazioni. L'obiettivo delle forze riformiste è quello di separare i settori e le componenti di classe non disponibili all'omologazione producendo la scissione nello stesso movimento sindacale e perciò un'importante partita si gioca sul terreno dell'unità di classe.

Ma l'antagonismo di classe in Europa, in Italia, come in ultima analisi in USA, gioca molte delle sue possibilità di rinascita sulla capacità di creare stabili collegamenti tra la classe operaia "tradizionale", quella formata dai lavoratori indigeni, quella cosiddetta "forte" e che più subisce le lusinghe e la frustrazione della paventata compartecipazione e quella parte della forza lavoro incerta, insicura, instabile, formata da soggetti emarginati e da lavoratori immigrati, spesso in possesso di un buon livello di cultura e professionalità. Particolarmente interessanti questi ultimi perché portatori di tradizioni e culture diverse, che alla resistenza allo sfruttamento uniscono la necessità di difesa di queste istanze; sono inoltre consci dei loro diritti e non disponibili ad essere usati come avviene per le fasce più marginali di sottoproletariato. Nel quadro complessivo descritto va collocata la situazione venutasi a creare nei paesi dell'Est europeo. Lì è crollato finalmente l'alibi dei regimi totalitari, è finito l'equivoco del comunismo da caserma e dunque la classe operaia potrà misurarsi con l'oppressione capitalista senza cappe e filtri ideologici e, scontato un primo periodo di subalternità all'ideologia e ai valori borghesi - periodo la cui durata non possiamo prevedere - trovandosi di fronte ai problemi concreti dello sfruttamento, alla disoccupazione, ai bassi salari, organizzerà inevitabilmente la propria forza in modo antagonista al profitto.

Non staremo ad aspettare ed un primo positivo contatto va stabilito con quella grande massa di emigrati che si riversa nei paesi europei e che deve divenire veicolo di una nuova solidarietà di classe.

Questo è il primo compito che ci attende.