F.d.C.A. FEDERAZIONE dei COMUNISTI ANARCHICIVI CONGRESSO NAZIONALE – CREMONA 19-20 GIUGNO 2004
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ANALISI DELLA FASE |
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1. Nel documento approvato al Congresso di Firenze del 1997, il passaggio dal periodo keynesiano dell’economia internazionale a quello del neoliberismo era descritta sinteticamente da una tabella che viene sotto riportata.
Era stata volutamente vuota l’ultima casella relativa allo strumento di controllo dell’intero ciclo economico a significare che questo problema veniva semplicemente ignorato in quanto tale, nella fiducia che l’equilibrio del sistema fosse assicurato dal libero gioco del mercato. Sembra questa ormai una convinzione destinata a tramontare e con essa tutta l’impalcatura che ha guidato le politiche economiche in tutto il mondo. Il compito attuale è quindi quello di riempire una nuova riga della tabella, che descriva le nuove tendenze in atto nel capitalismo internazionale. 2. Nel tracciare la seconda riga della tabella, avevamo lasciato in sospeso l’analisi delle cause che avevano determinato il passaggio dal modello keynesiano a quello neoliberista tra gli anni settanta e quelli ottanta. Per capire l’origine della scarsa tenuta del modello seguito dal capitalismo internazionale nell’ultimo ventennio del secolo, è necessario ora indagare brevemente quelle cause. Ogni interpretazione che individui in motivi puramente economici la molla per cambiare sistema teorico di riferimento (indebitamento statale, inflazione, onerosità del welfare, eccessiva pressione fiscale), pur contenendo tracce di verità è destinato al fallimento. Occorre considerare anche motivazioni più strettamente politiche per ricostruire la tridimensionalità del periodo. Di fatto alla fine degli anni settanta il movimento operaio declinava a livello internazionale, finendo per non costituire più un serio antagonista interno al sistema, ed il mondo alternativo del capitalismo di Stato entrava in una spirale critica che lo avrebbe portato alla dissoluzione in un decennio. Con quest’ultimo scompariva l’antagonista politico ed economico esterno al sistema. L’assenza apparente di nemici spingeva le borghesie dei paesi industrializzati a ritenere conclusa la fase della mediazione fordista, convincendole che era giunto il momento di ripristinare sistemi di sfruttamento in grado di garantire profitti più elevati e non sottoposti a riduzioni per spese sociali o di alti salari. Finiva l’epoca del coinvolgimento sociale delle classi subalterne, per riaprirsi quella dello scontro aperto e senza quartiere. Il livello di alto sviluppo delle forze produttive e dei processi di concentrazione monopolistica e finanziaria rendevano necessaria alla fine degli anni 80 l'immissione sia pur graduale nel settore deputato a generare profitto di attività quali ad esempio l'istruzione e la formazione, la sanità, l'assistenza, ecc. Le attività proprie di tali settori passavano da una gestione in regime di monopolio amministrativo a quella di gestione economica, perciò stesso capace e suscettibile di produrre profitto. Da ciò la ridefinizione del ruolo e della funzione dello Stato; da ciò la necessità di distinguere oggi tra attività dello Stato e attività di interesse pubblico, intese come servizi alla persona o attività che incidano direttamente e indirettamente sulla qualità della vita delle donne e degli uomini. 3. se la mediazione sociale era divenuta superflua, anzi inutile, i costi fino allora sopportati per il welfare potevano essere trasformati utilmente in profitti, privatizzando i servizi. Il mercato è quindi assurto ad unico regolatore della vita sociale. L’epoca della programmazione economica, che aveva percorso le economie di tutto il mondo tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni ottanta, lasciava il poso al libero dispiegarsi del gioco della concorrenza. La regolazione spontanea che si è pensato potesse apportare al ciclo economico il mercato, riesumando il mito ottocentesco della mano invisibile, ha fatto passare nel dimenticatoio ogni altra forma di controllo. Il punto interrogativo utilizzato nella tabella voleva significare proprio questo. 4. Alla preminenza offerta al mercato dalle teorie economiche invalse, si è affiancata, quale conseguenza naturale, una corsa al profitto a breve. Il luogo in cui venivano investiti i capitali è divenuto secondario, mentre prioritaria è divenuta lo considerazione dei tempi di ritorno dei profitti. Il capitale di rischio, impiegato nei processi produttivi, comportando tempi lunghi per la sua resa, è passato in secondo ordine rispetto agli impieghi finanziari. Ne è disceso un sottodimensionamento degli investimenti in innovazione tecnologica, considerati poco redditizi nel breve termine. Il relativo disinteresse per lo sviluppo tecnologico ha teso a rendere più statiche le tipologie produttive, se si escludono i settori di punta pervasivi, quali la tecnologia elettronica ed informatica. Questi ultimi reggono sul mercato solo con una corsa esasperata al rinnovamento, ma il resto dell’industria, specie quella pesante, ha subito un rallentamento nella ricerca di nuove tipologie produttive. 5. A suo tempo erano state individuate come centrali nel nuovo assetto produttivo sei tecnologie di avanguardia. Di queste solo tre mantengono valore strategico, anche se non dello stesso valore: informatica, biotecnologie e telecomunicazioni. La loro centralità dipende più che da scopi produttivi per scopi militari e di controllo sociale. D’altronde, le telecomunicazioni, oltre che per gli scopi suddetti, è necessaria per il controllo dell’informazione; il profitto ad esse legato è preminentemente di origine finanziaria (pubblicità) e non si origina se non in minima parte nel settore produttivo dell’elettronica. 6. Gli anni a cavallo della fine del millennio hanno assistito ad un’esplosione dei titoli legati a quella che veniva denominata new economy. La bolla, in gran parte speculativa, è stata ridimensionata con estrema rapidità, causando gravi danni ai risparmiatori attirati dai facili e rapidi guadagni degli anni antecedenti. Sta di fatto che una delle condizioni che ha reso possibile l’esplodere dei titoli tecnologici è stata la rapidità di movimento dei capitali che la e-economy consente. Questa situazione di accentuata mobilità dei capitali, anche se il vero salto di qualità si è verificato tra il XIX° ed il XX° secolo con l’invenzione del telefono, ha raggiunto oggi traguardi eccezionali. Ciò comporta due conseguenze. Prima di tutto un’ulteriore marginalizzazione dell’investimento produttivo, divento eccessivamente lungo nella redditività. In secondo luogo una minore possibilità di controllo sul ciclo economico da parte di qualsiasi autorità preposta all’economia. 7. Così è venuta tramontando l’epoca in cui un tipo di produzione industriale diveniva simbolo e motore trainante di un periodo della storia economica. Lo era stato il settore tessile per la prima rivoluzione industriale, quelli chimico ed elettrico per la seconda e la produzione elettromeccanica dalla grande depressione agli anni settanta. È venuta progressivamente perdendo quindi di senso la colonna seconda della tabella iniziale, quella dedicata alla tecnologia. Ormai l’epoca attuale è caratterizzata soltanto dal dominio della finanza. 8. Il procedere sempre più esasperato della disseminazione del ciclo produttivo in luoghi separati e spesso distanti, la frantumazione delle unità produttive in aziende fornitrici di spezzoni delle merci finali ha comportato alcune conseguenze da esaminare. Prima di tutto ha reso centrale il problema della movimentazione delle merci, spingendo ad uno sviluppo vorticoso il settore della logistica e rendendo centrale il problema della costruzione delle infrastrutture. In secondo luogo sono assurte a ruolo strategico fondamentale le vie di comunicazione, i cosiddetti corridoi, e non a caso tutti i conflitti degli ultimi quindici anni si sono accessi attorno ad essi, sia quelli già operanti, sia quelli in fase di approntamento e sia infine quelli solo progettati. 9. Il costo per l’approntamento delle necessarie infrastrutture è comunque a carico della mano pubblica e gli investimenti necessari sono considerevoli. Ma la fase imboccata dall’economia internazionale ha teso a ridurre il reddito complessivo e con esso il gettito fiscale e non è possibile superare certi limiti nella tassazione, pena il tracollo dell’intero sistema. Ne consegue che spesso vengono a mancare i capitali necessari e le opere per infrastrutture non sono sostenibili per i costi eccessivamente elevati. 10. Due fenomeni si nono venuti intrecciando nel recente passato, due fenomeni che è bene distinguere sul piano teorico: la frammentazione delle unità produttive e quella che viene detta esternalizzazione. La seconda consiste nella dismissione di alcune funzioni un tempo coperte all’interno delle grandi aziende (pubblicità, ricerche di mercato, progettazione, informatizzazione, etc.), che ora vengono affidate a ditte esterne, spesso costituite dagli ex-dipendenti dell’azienda madre; questo tipo di disseminazione della produzione ha un futuro, in quanto l’occupazione è molto più elastica, scarica l’azienda di costi fissi e riversa i costi della congiuntura sulla ditta cui vengono appaltati i lavori. La prima consiste invece nel puro e semplice smembramento del ciclo produttivo in settori che sfornano un prodotto parziale che abbisogna degli altri operatori per essere portato a compimento per il mercato. Questa seconda tipologia incontra i limiti sopra menzionati per la fluida circolazione delle merci ed induce talvolta una difficoltà nel controllo del ciclo produttivo nel suo complesso. I segni di difficoltà appaiono evidenti, ma la fase che ci troviamo a vivere vede tuttora il ciclo frammentato come tipologia dominante. 11. La crescita di importanza del mondo della finanza rende sempre più marcata la verticalizzazione del comando sull’economia internazionale. Pochi gruppi finanziari dominanti oggi si contendono il controllo della produzione e del mercato, tendendo ad eliminarsi a vicenda, di modo che il loro gruppo tende ad assottigliarsi. Cosicché alla polverizzazione del ciclo produttivo corrisponde un sempre più accentuato accentramento della proprietà. 12. Gli anni recenti hanno visto fiorire il mito della concorrenza, ma in realtà, come è successo in ogni fase di liberismo economico, la concorrenza è andata affievolendosi. La competizione per il controllo dei mercati ha teso ad eliminare ogni avversario e quindi ha grandemente contribuito all’accentramento del controllo. Pochi grandi gruppi finanziari si contendono il dominio delle macroaree del globo ed è questa l’unica forma residua di concorrenza. È venuta così rapidamente declinando la libera imprenditorialità e spesso produzioni un tempo di nicchia sono state riassorbite nel grande ciclo produttivo; di queste ultime alcune sopravvivono, ma è difficile che se ne creino di nuove, come è avvenuto in maniera massiccia negli anni settanta, per esempio nel settore dell’elettronica. 13. Come detto, nella fase liberiste dell’economia, la competizione premia l’azienda più forte, che nel tempo assorbe le aziende più piccole, spesso capitalizzando il know how che esse hanno sviluppato con grosse capacità imprenditoriali o di genialità, cui non ha corrisposto un adeguata possibilità di sbocchi sui mercati. La concentrazione che ne consegue cannibalizza l’imprenditoria di frontiera, la più innovativa, inglobando nelle aziende che sopravvivono le conoscenze sviluppate. Si torno alla concentrazione monopolistica, dopo la fase di sviluppo dei mercati aperti. 14. La tendenza alla concentrazione delle produzioni in alcune aree ad alto sviluppo economico continua a manifestarsi, ed esse convivono in stretto contatto con zone depresse, o di sottosviluppo oppure, infine, in recessione dal punto di vista dell’economia, come previsto dal saggio di K. Ohmae, La fine dello stato-nazione. È così che le condizioni di lavoro conoscono dei sezionamenti, tra area ed area, un tempo impensabili; ne consegue che le categorie dei lavoratori vengono sezionate verticalmente, tra una zona geografica ed un’altra limitrofa, fino ad avere 44 tipologie di contratti differenti. Ciò prelude alla fine del Ccnl, per dar vita a sistemi contrattuali diversi a poca distanza l’uno dall’altro, o addirittura ad una vera e propria contrattazione individuale tra azienda e singolo lavoratore. 15. Ma anche le regioni, i distretti, affrontano problemi di diversificazione al proprio interno e pertanto iniziano a sezionarsi. Sia per stratificazioni orizzontali all’interno della medesima azienda tra tipologia diverse di prestatori d’opra con contratti non omogenei: basti pensare alle condizioni di lavoro dei lavoratori immigrati sanzionate da alcuni contratti locali o, in termini più generali, dalle demarcazioni segnate dal lavoro interinale o dalla legge 30. Sia, anche, geograficamente e verticalmente tra luogo e luogo con la creazioni di poli di sviluppo di eccellenza, che possiamo paragonare ai neuroni del nuovo tessuto produttivo, inseriti in un contesto a sviluppo statico od anche in declino e necrotico. 16. A loro volta i gangli produttivi che vengono a crearsi sono collegati dalle vie di comunicazione, che su larga scalo rappresentano quei corridoi lungo le vie dei quali si stanno accendendo tutte le guerre dell’ultimo ventennio, per acquisirne il controllo. Attorno a queste vie di comunicazione lo sviluppo si manifesta con vitalità, mentre si isterilisce a distanza da esse. Assistiamo quindi al crearsi di strisce di territorio vigorose dal punto di vista produttivo, che quasi come sinapsi collegano i poli di eccellenza della produzione mondiale. 17. Si sta, pertanto, venendo a creare, dal punto di vista del sistema produttivo, una struttura neuronale, fatta da poli di eccellenza economica, collegati da strisce in fase di sviluppo, il tutto immerso in un territorio per il resto votato al sottosviluppo. Questa nuova struttura sostituisce la vecchia, fatta a macchie, con l’alternanza di aree di sviluppo ed aree di sottosviluppo. 18. Il vero tallone d’Achille dell’assetto produttivo neoliberista, se tale si può definire correttamente la fase che stiamo attraversando, può essere individuata nell’assenza di un vero strumento di controllo sul ciclo. L’evolversi del processo è stato lasciato all’automatismo regolativo del mercato, quindi al bilanciamento automatico che, si è pensato rispolverando il concetto ottocentesco ed obsoleto della mano invisibile, le forze contrapposte avrebbero dovuto conoscere nel momento finale dell’allocazione delle merci. La conseguenza è stata che negli ultimi quindici anni l’economia internazionale è stata percorsa da un malessere continuo e sottile. Non si è verificata alcune crisi globale distruttiva, ma tutto il periodo è stato segnato da un susseguirsi continuo di turbolenze instabilità, insorgenti a macchie. D’altra parte il grande volano della ripresa spesso annunciata, non si è mai presentato, perché sempre le cause più imprevedibili ed eterogenee hanno stroncato sul nascere le rosee previsioni degli analisti. 19. Ma la deregolazione del ciclo, affidato al libero gioco del mercato, non produce solo uno sviluppo incerto ed in perenne futura esplosione, mai verificata, ma amplia anche i margini fruibili dalle manovre speculative, apre spazi alle incursioni dei finanzieri privi di ogni scrupolo. Con essi divengono sempre più frequenti i fenomeni degenerativi, la cui ampiezza richiama alla memoria tempi lontani oltre un secolo, quando il liberismo era non a caso imperante, quali lo scandalo della Banca di Roma. Crisi finanziarie come quelle della Parmalat, o a livello mondiale, quello della Enron, non si verificano da lunga pezza. 20. L’assenza di una regolazione esterna al mercato, terreno privilegiato della politica, ha mutato anche le regole di quest’ultima, mutandone le regole operative. Un tempo il politico era un mediatore professionale tra le varie forze economiche, comprese quelle del lavoro: finivano per prevalere sempre quelle della classe dominante, ovviamente, ma con gli opportuni correttivi atti a mantenere un’area di consenso ed un minimo di equilibrio sociale. Da questa fase si è prima passati a quella del politico come pura e semplice interfaccia accattivante tra le classi dominanti, che prendevano le decisioni, e le altre che le subivano: il politico, non solo di nome, attore (Reagan). Per passare infine alla situazione attuale, quella in cui cioè l’imprenditore diviene direttamente il politico (Cheney, Berlusconi, Shinawatra, etc.). Quando l’imprenditoria prende direttamente la gestione della politica, non a caso, torna di moda l’ipotesi di un controllo superiore sul ciclo, controllo che apparentemente è pubblico, in quanto esercitato dall’Esecutivo, ma non è mai stato in realtà tanto di parte perché l’Esecutivo e la parte imprenditoriale interessata coincidono. 21. In questo contesto, le regole a monte che dovrebbero inquadrare in una visione di insieme della società l’attività produttiva e quella dello smercio, vengono sostituite da controlli a valle. Nascono pertanto organismi sopranazionali di controllo, agenzie di revisione e di certificazione dei bilanci, deleghe alle Banche Centrali o apposite autorità di regolamentazione, dove spesso controllandi e controllori coincidono. È l’epoca delle Authority, che restano comunque un sistema di controllo lasco ed inefficiente, come i recenti scandali hanno fatto chiaramente emergere. 22. Si giunge così allo schema riportato nella tabella, da cui si evince che nel corso dell’ultimo decennio il sistema ha subito correzioni. Resta di fatto che il meccanismo di controllo del ciclo produttivo non ha trovato che una soluzione parziale e priva di una pur parziale efficacia, per cui permane l’insicurezza legata a questo non trascurabile aspetto. 23. Il meccanismo del controllo non è l’unico fattore di instabilità complessiva. La fase di esasperata competizione economica apre il campo agli appetiti di dominio complessivo e spalanca le porte ad una nuova corsa all’oro. È infatti tornato di estrema attualità il tema del possesso delle materie prime strategiche (petrolio, materiali strategici, alimenti, etc.). La potenza dominante in questa corsa tende a creare nei luoghi di produzione dei propri presidi, producendo sceriffi internazionali e conflitti. 24.
Il petrolio, ad esempio, continua a rappresentare nell'economia
internazionale un nervo scoperto e la sua sostituzione come motore
energetico dello sviluppo economico internazionale sembra lontana.
La compresenza di aree con diminuzione della capacità di produzione
(coincidenti peraltro con le zone di maggior richiesta, p.e. il Mare del
Nord) ed aree di accresciuta capacità produttiva (vedi Caucaso e Golfo
Persico), determinerà una sempre maggiore importanza di queste ultime nello 25. Individuati alcuni fattori di instabilità del sistema, lo scopo del presente documento non è solo quello di analizzare la situazione presente, ma anche quella di tentare delle previsioni sulla futura evoluzione di assetto, che i fattori suddetti rendono necessaria. Per far questo occorre riempire una nuova, quarta, riga della tabella fin qui discussa, che rappresenti le intenzioni di mutamento che il capitale andrà ad intraprendere per il prossimo decennio. 26. Non è ipotizzabile il ritorno ad un sistema produttivo in cui sia presente un settore di produzione trainante gli altri e che simboleggi un’epoca. Il panorama economico resterà quindi dominato dalla finanza con la sua estrema mobilità e le conseguenze negative che questa rapidità di dislocazione si trascina inevitabilmente dietro: la volatilità con il proprio carico di incertezze e la cecità strategica. Quest’ultima, in particolare, lega la finanza al profitto rapido, limitando l’investimento di lungo periodo (come quello nell’istruzione), l’unico che possa aspirare a disegnare un sistema stabile. 27. Grossi problemi stanno insorgendo sul fronte dell’impiego della manodopera, sempre meno qualificata ed in continua riconversione. Così, come visto, la flessibilità ha creato nelle aziende la stratificazione di una miriade di contratti e ciò ha reso più difficile gestire il ciclo della produzione; d’altro lato il degrado delle conoscenze posseduto in ingresso dai nuovi assunti e la scarsa spendibilità delle competenze esperenziali, di facile acquisizione ma anche di rapida obsolescenza, conosciuta anche come femminilizzazione, pesa sulla qualità della prestazione e, di conseguenza, del prodotto. Questi fattori premono verso una parziale ricomposizione dell’unità degli attori del momento produttivo. 28. La fase di concentrazione della proprietà non è terminata ed interi settori industriali sono ancora in ristrutturazione a livello internazionale. Il settore dell’auto, per fare un esempio, tra una crisi e l’altra dovrebbe sfociare nella sopravvivenza di sole pochissime aziende in tutto il mondo. La tendenza è quindi quella della formazione di monopoli di settore. 29. Col crescere della concentrazione finanziaria e con la tendenza al ridursi della polverizzazione produttiva, si esalta il ruolo dei poli produttivi, centri di sviluppo circondati dalle aree depresse e collegati dai corridoi che inducono uno sviluppo filare dei luoghi di produzione. Permane la struttura produttiva neuronale. 30. A lungo andare l’instabilità rappresenta un costo, ed anche se può rivelarsi utile in una fase transitoria per agevolare la concentrazione proprietaria, nel tempo diviene economicamente insostenibile. Il caso del crollo doloso delle grosse aziende, con gli inevitabili contraccolpi negativi ne sono l’esempio più lampante. Le authority non rappresentano una garanzia reale in grado di prevenire le turbolenze del mercato e torna quindi di moda la ricerca di uno strumento di regolazione, che almeno nel caso europeo sembra nuovamente rappresentato dalla moneta. 31.
Lo schema risultante dalle precedenti considerazione è quello soprariportato. Se il neoliberismo, mai completamente applicato nella realtà, ha comunque costituito uno schema teorico utile per consentire la rottura col paradigma keynesiano, ormai da un ventennio non è più neppure la teoria di riferimento degli operatori economici. Si sono affacciate nuove teorie economiche. 32. Eccone alcuni esempi, con i loro teorici; ma nessuna di essere può assurgere al rango di vero e proprio paradigma.
33. Le strategie di dominio sopra delineate incontrano comunque ostacoli imprevisti. Da un lato la guerra permanete di conquista si impantana. Dall’altro si viene a creare una crescente resistenza nei concorrenti capitalistici della potenza dominante. Infine la Cina, miraggio promesso di un mercato potenzialmente senza fondo, diviene un temibile concorrente; non acquista se non in minima parte, e tende a vender, grazie al costo del lavoro enormemente più basso ed ad una rapida rimonta tecnologica. 34. Ma il nemico principale, che sembrava battuto rialza la testa. Col nuovo secolo si è riaffacciato l’antagonismo sociale. È esploso a livello mondiale il movimento antiglobalizzazione con i vari Social Forum, sono ripartite le lotte operaie in modo diffuso, si è ripresentato il rifiuto ad una continua compressione salariale, etc. Anche i paesi terzi sono in cerca di una strategia che allenti la morsa del dominio che è stato loro imposto ed iniziano ad opporre resistenza alle ricette per anni loro imposte, come si è potuto constare all’ultimo Wto nel Dubai. Le previsioni che il capitale individua nella quarta riga della tabella sono solo aspirazione imperialistiche, tutte da verificare.
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