8° Congresso Nazionale
Federazione dei Comunisti Anarchici
Fano, 31 ottobre/1 novembre
2010
Relazione introduttiva della Segreteria Nazionale
Questo congresso qui, in questa sede, con questo nome
Carissime compagne e compagni, è con una certa emozione e commozione che saluto a nome della Segreteria Nazionale le militanti ed i militanti della FdCA oggi qui presenti, nonostante le tante difficoltà del periodo storico che stiamo attraversando. Così come rivolgo un caldo benvenuto alle compagne e compagni osservatori in sala. Ed agli ospiti che vorranno portare il loro saluto. Unitamente al ringraziamento per i saluti di buon lavoro ed incoraggiamento giunti alla FdCA dalle organizzazioni sorelle da tutto il mondo [1].
La FdCA tiene oggi il suo VIII Congresso nel corso dei suoi 24 anni di vita e si presenta a questo appuntamento dopo aver inaugurato proprio ieri sera questa sede. Realizzata grazie ed in omaggio al compianto compagno Franco Salomone, verrà qui valorizzata la sua memoria politica, insieme a quella dell'anarchismo di classe, grazie alla copiosa produzione documentaria sedimentatasi in oltre 40 anni di storia.
Ma questa sede vorrà essere anche il luogo dell'organizzazione e delle iniziative dei comunisti anarchici del XXI secolo, a livello nazionale e locale. Luogo di lavoro per una politica di ri-costruzione della sinistra anticapitalista ed antiautoritaria, che riscopra nel quotidiano lavoro di base e di massa le ragioni della sua esistenza, senza inseguire sirene e scorciatoie che subordinano le lotte alla competizione elettorale e che consegnano i movimenti ed i loro esponenti alle lusinghe delle percentuali di una partita truccata.
Ventiquattro anni (e più) in direzione ostinata e contraria
I capisaldi teorici e programmatici che hanno ispirato la vita del compagno Salomone sono gli stessi che hanno orientato il lavoro politico della FdCA nel corso degli anni e che ancora oggi costituiscono un riferimento certo, caratteristico e peculiare, sul piano politico prima ancora che su quello identitario.
Mi riferisco alla necessità di una organizzazione politica coesa e responsabile. Alla necessità che i suoi militanti siano parte naturale degli organismi di massa, del sindacato, dei movimenti, per essere al loro interno volano ed orientamento delle idee, organizzatori dal basso della forza collettiva di lotta e della solidarietà.
Mi riferisco alla necessità di avere un orizzonte internazionalista nell'azione politica come in quella delle lotte sindacali.
Mi riferisco alla necessità di essere protagonisti politici delle lotte, loro componente riconosciuta e riconoscibile, che vince la timidezza dell'essere minoranza per proporsi come lievito di organizzazione antiburocratica, antigerarchica, ostile ad ogni opportunismo di matrice post-leninista, ad ogni spontaneismo velleitario e ad ogni ideologismo settario.
Mi riferisco infine alla necessità di saper leggere nei mutamenti le indicazioni per l'aggiornamento e l'ampliamento dell'orizzonte di lotta e di lavoro politico dei comunisti anarchici.
Per queste ragioni anche questo VIII
Congresso affronta l'analisi della fase, raccoglie la sfida lanciata in questo
primo decennio del XXI secolo sul piano delle politiche per l'ambiente e per i
beni comuni, delle profonde ristrutturazioni nel mondo del lavoro, della azione
politica sul territorio a fianco ed all'interno dei movimenti e delle tante
iniziative di base che cercano di opporsi al diffuso e nefasto strapotere
capitalistico, sia esso di carattere economico, ideologico, valoriale.
Al di fuori di questi punti di riferimento, ogni altra opzione di impegno
politico per gli anarchici ed i libertari è certamente possibile.
Ma si tratta – come l'esperienza e la storia insegnano – di un fluttuare senza approdo, di un rivendicare tradizioni senza avere eredi a cui consegnarle, di specchiare la propria coscienza politica negli indistinti confini dei forum virtuali o di formazioni politiche sincretiste.
E', invece, grazie ai capisaldi or
ora citati ed ai tanti militanti che l'hanno reso possibile che siamo giunti al
nostro 24° anno di vita. Non sono pochi per una organizzazione politica, che pur
essendo assai minoritaria nell'ambito della sinistra rivoluzionaria, si è resa
protagonista di iniziative, campagne e lavoro quotidiano, sociale e sindacale,
che l'hanno resa comunque un punto di riferimento nei territori in cui essa è
presente e nelle mobilitazioni nazionali a cui ha partecipato.
E' a questa realtà politica organizzata a livello nazionale che Franco Salomone
aveva aderito poco prima di ammalarsi, dimostrando – come spesso aveva fatto
nella sua vita – quella intelligenza politica grazie alla quale ha potuto
guardare alla FdCA come approdo realistico, dopo decenni di affanni per la
costruzione dell'organizzazione politica dei comunisti anarchici.
Quell'organizzazione si era dunque storicamente prodotta, una volta imparata la lezione degli anni '70, ed attraverso un quarto di secolo di vita è giunta oggi ad alcuni traguardi importanti:
esser riuscita a compiere un ricambio generazionale;
aver resistito a divisioni, abbandoni, defezioni e personalismi, sindrome oscura ed endemica delle formazioni minoritarie;
essere riuscita a superare una concezione autoreferenziale dell'anarchismo declinato in base al proprio nome e cognome o al campanile, a favore invece di un condiviso progetto collettivo, politico ed organizzativo, superiore;
esser riuscita a valorizzare con intelligenza e senza fondamentalismi le tradizioni storico-politiche su cui è nata (quella "piattaformista", quella comunista libertaria del compianto Georges Fontenis, quella de Los Amigos di [Buenaventura] Durruti, quella del comunismo anarchico italiano) per trarne basi teoriche stabili, un progetto strategico ed un'azione politica e programmatica materialista, utile ed efficace.
Tutto questo non sarebbe stato possibile, non sarebbe durato così tanto, non avrebbe portato a nuove generazioni di militanti comunisti anarchici, se nella FdCA non si fossero inverati, tanto nelle relazioni politiche e personali dei suoi militanti quanto nella pratica politica, due aspetti fondamentali: il concetto e la prassi dell'unità, il concetto e la prassi della solidarietà.
Più forti dello stesso e tanto criticato assunto della "responsabilità collettiva", questi concetti si sono talmente radicati nel tessuto organizzativo e transazionale della FdCA, da esserne diventati cuore e sguardo, cervello e azione della nostra vita politica, lenimento ad ogni ferita.
Il tirocinio dell'unità e della solidarietà a cui ci sottoponiamo, militanti anziani e militanti giovani, diviene poi la nostra forza individuale e collettiva, quando siamo chiamati a cimentarci nell'agone politico, a costruire, difendere e ri-costruire tessuto militante e di opposizione sociale nelle lotte di ogni giorno, nei movimenti, nella vita quotidiana.
La campana della divisione
Non mi dilungherei così sugli aspetti dell'unità e della solidarietà se non fossimo tutti preoccupati dei lugubri rintocchi che da alcuni anni si propagano nell'economia, nel mondo sindacale, nella gestione dei territori, nel nascere e rapido morire dei movimenti.
Stiamo attraversando anni in cui la campana della divisione chiama a raccolta per spezzare ciò che era stato unitario.
Per frantumare ciò che era stato insieme.
Per scollegare ciò che era stato in sintonia.
Per scoordinare ciò che era stato articolato.
Per atomizzare gli interessi collettivi.
Per feudalizzare i nostri spazi di vita sociale in tanti cortili in cui un qualcuno rivendica di essere padrone in casa sua.
Per lacerare la dimensione politico-personale dell'impegno e della militanza.
Le tesi politiche che ascolteremo oggi e su cui dibatteremo – prima di farle nostre ed utili per tutti – non nascondono questo contesto che ci avvolge e che diventa elemento consistente del clima che respiriamo, tanto da mettere a dura prova il senso della nostra attività politica, del nostro lavoro sociale.
E' questa la dimensione sociale in cui ci troviamo ad agire ed in cui dovremo mettere a prova la nostra strategia, le nostre scelte, dentro la storia mentre si fa, dentro i fatti mentre avvengono.
Il capitalismo dei capitalismi
Il capitalismo non muore per mano propria. Si rigenera. Mentre lo fa, non deve avere nulla da temere dal suo nemico storico ed immediato. Deve perciò disarticolare la classe dei produttori.
Questa volta l'attacco va oltre i classici processi di ristrutturazione dei luoghi di produzione. Questa volta l'attacco è all'intera struttura sociale di vita in cui si forma il nemico di classe di sempre, il proletariato.
Così, alimentata dalla crisi capitalistica degli ultimi 3 anni (ma di incubazione certamente decennale), la divisione apre baratri internazionali e solleva steccati nazionali se non addirittura regionali.
Perduto da tempo – e non più cercato – un condiviso modello di sviluppo (dopo le certezze del keynesismo e del monetarismo), e cantate le glorie della globalizzazione, il capitalismo internazionale trova una apparente unità nello scaricare – proprio grazie alla globalizzazione – la sua crisi finanziaria sulle economie reali di interi continenti e dei singoli stati.
Ma la tradizionale divisione imperialista in centri e periferie (già causa di divisioni internazionali, e tuttavia contenitori di classi lavoratrici omogenee e combattive sul piano nazionale) ha da tempo ceduto il passo ad una divisione in centri neuronali di concentrazione di ricchezze e produzione circondati da lande desolate di impoverimento, levatrici di emigrazione e di dumping.
Su questo scenario già compromesso si accaniscono da tre anni i colpi dell'attacco capitalistico, nelle forme dell'impoverimento e della guerra, del conflitto inter-imperialista e dei nazionalismi. Messe da parte le sue differenze storico-geografiche, il capitalismo usa questa crisi per svuotare interi paesi della presenza di un movimento operaio organizzato.
Per svuotare le legislazioni sul lavoro di ogni applicazione concreta e garantista.
Per drenare ingenti risorse dal salario diretto, indiretto e differito necessarie all'auto-finanziamento della crisi.
Per ricondurre le attuali e future generazioni di lavoratori ad uno stato di subordinazione agli interessi della loro azienda e quindi del mercato.
Gli Stati, siano essi nelle mani tanto di burocrazie di destra liberista o statalista, quanto di post-socialdemocratici lib-lab, cedono acquiescenti ogni autonomia di politica economica; mentre le istituzioni internazionali del capitalismo – G20 in testa – e l'Unione Europa si prodigano in misure anti-crisi che stanno all'origine della stessa crisi!! L'Unione Europea in particolare coglie al balzo la crisi della Grecia, per ridefinirsi e ricostruire gerarchie economico-finanziarie al suo interno, Germania in testa.
In ogni paese, e in Italia ancor di più, sembra compiersi la parabola del salario da variabile indipendente a semplice elemento retributivo di una prestazione individuale vincolata ai successi ed insuccessi di quella azienda; sembra compiersi la parabola del welfare da scelta di politica economica nazionale (tutela, assistenza e promozione sociale tramite i servizi pubblici) a mera voce assistenziale all'interno delle rigide politiche di bilancio; sembra compiersi la parabola del contratto di lavoro da strumento per la difesa e conquista degli interessi collettivi a patto individuale di una prestazione lavorativa a tempo determinato.
Questo punto di caduta diventa al tempo stesso – paradossalmente – un punto di speranza per il crescente numero di precari – pubblici e privati – alimentato dai provvedimenti di cassa integrazione, mobilità e tagli agli organici nella pubblica amministrazione.
11% è il tasso reale di disoccupazione stimato da Banca Italia.
Il caso della FIAT è emblematico e paradigmatico al tempo stesso di questo attacco. La divisione passa a livello internazionale tra dipendenti dislocati – nella fattispecie – in Polonia, Serbia e Italia, ed all'interno di questa tra le aziende sul territorio nazionale.
I lavoratori in produzione o in mobilità sono sottoposti a forti pressioni centripete per salvare in una sola manche – costi quel che costi e ammesso che gli riesca – la permanenza dell'azienda nel loro territorio, il loro posto di lavoro e l'indotto, la stabilità delle loro famiglie, la ricchezza riflessa sul territorio, le esigenze delle amministrazioni e delle lobby politiche in loco, siano esse leghiste o meridionaliste, senza dimenticare quelle sindacali, quasi sempre di stampo CISL o UIL, ma a volte anche CGIL.
Le classi lavoratrici locali vengono costrette a correre in soccorso di una crisi che non sono state loro a produrre. Altrimenti staremmo qui a discutere di come prendere il potere domani!!!
I sindacalismi
Per gestire (ed eventualmente prolungare) questa crisi, il capitalismo ha bisogno di un sindacato in sintonia con le esigenze dei vari consigli di amministrazione o amministratori delegati delle aziende. Non mancano i pretendenti a questa particina di spalla.
Verrebbe da dire "Vieni avanti, cretino!" come in una parodia di avanspettacolo, se non fosse che queste comparse legittimano con la loro firma accordi, intese e contratti che hanno effetti regressivi sul diritto del lavoro, sulle libertà sindacali, sui rapporti di forza in sede di contrattazione.
Quello che possiamo definire come il "sindacato di mercato" si configura persino come una sorta di ulteriore involuzione di quel sindacato ertosi a difesa del "sistema Italia" in occasione della crisi dei primi anni '90 del XX secolo. Qui invece siamo alla difesa della singola azienda all'interno del suo segmento di mercato, che può voler dire difesa dell'economia di un comune, di una provincia, di un distretto. E al diavolo tutti gli altri. Ecco il ricatto! Ecco che si insinua la divisione. Dagli USA alla UE non mancano gli esempi di sindacati di questo tipo.
Sono comparse di una sorta di sindacalismo amministrativo, fatto in Italia di enti bilaterali, di fondi-pensione, di accordi in deroga, di voglia di una terrificante calma sociale. Questo sindacalismo ha l'obiettivo perverso di modificare unilateralmente il quadro delle relazioni industriali, puntando a mettere fuori dai tavoli e dalla rappresentanza formale altri sindacati, siano essi moderati – come la CGIL – o conflittuali, come la FIOM di questo ultimo lustro e i sindacati di base. Ma la divisione serpeggia minacciosa anche tra le burocrazie della CGIL – pretendente ad un rinnovato ruolo di sindacato amministrativo della forza-lavoro – e la FIOM, coraggiosamente disposta in questa fase a tenere aperta una contraddizione interna alla CGIL stessa ed all'interno delle relazioni industriali, sia sul piano dei diritti che della contrattazione.
Il sindacalismo di base, nato da tante precedenti divisioni in tempi non sospetti, non riesce a produrre né eventi né proposte che lo rendano almeno un outsider nel panorama sindacale italiano. Al contrario di altri paesi europei, come la Spagna o la Francia, i sindacati di base italiani non convergono nemmeno per caso e per necessità contingente su un medesimo sciopero o manifestazione nazionale. Qui la divisione potrebbe essere prima o poi letale.
I lavoratori e le lavoratrici, disorientati, stanno un po' a guardare. L'innalzamento dell'età pensionabile è passata senza neanche una protesta. In Francia, invece…
Nimby o Yimby?
Il territorio, per molto tempo lasciato nelle mani degli appetiti delle amministrazioni locali, è stato lentamente ma inesorabilmente preso in carica direttamente – nel giro di 2 decenni – dal capitalismo nazionale ed internazionale, attratto dalle possibilità di estrazione di valore da terreni, fiumi, mari, coste, centri abitati, campagne, dalle infrastrutture necessarie per i settori produttivi.
E' stato necessario indurre profonde modifiche delle politiche amministrative degli enti locali per avviare processi di privatizzazione delle municipalizzate, processi di esternalizzazione di servizi, valorizzazione edilizia di aree dismesse in cambio di oneri urbanistici, cessione di demanio pubblico per intraprese private, fino alle concessioni in gestione di beni comuni quali l'acqua, il gas, i trasporti, i rifiuti, la produzione di energia.
L'illusione del vantaggio finanziario per gli enti locali si è presto tramutata in un incubo costituito dai debiti contratti con le banche e dai tagli imposti dalla crisi ai trasferimenti statali alle amministrazioni periferiche. Con conseguente incremento dell'imposizione fiscale locale.
Intanto il territorio di competenza era diventato terreno di conquista e valorizzazione a fini capitalistici. Spesso a vantaggio di interessi criminali intrecciati a quelli politico-istituzionali. L'impatto ambientale della presenza capitalistica in forma di industrie, di centrali di produzione di energia, di smaltitori di rifiuti, di centri commerciali, ha scatenato fino a ieri una reazione dei residenti a tutela dell'ambiente, dando luogo a processi di aggregazione sulla base di interessi comuni. Nimby!
Oggi il capitalismo sembra aver cambiato strategia: si offre ai territori sottoforma di attività da implementare, portatrici di posti di lavoro e di ricchezza per tutti. Nessuna garanzia per l'ambiente, nessuna garanzia per la durata nel tempo di quell'attività. Eppure si scatena la competizione e la divisione per avere nel proprio cortile quella cosa. Yimby!
Ma nei nostri territori si propaga un altro germe di divisione che è quello su base etnica, razzista, di genere, che fa leva sul pregiudizio del sangue e della terra, del clericalismo e dell'intolleranza. La crisi economica acuisce questi processi e la loro velocità è inversamente proporzionale alla lentezza ed alla difficoltà degli sforzi per sviluppare azioni di solidarietà e di cooperazione.
Movimenti centrifughi
La mancanza di unità di azione dei movimenti è un dato che periodicamente siamo purtroppo costretti a registrare. In questa fase storica la spinta unitaria dei movimenti – come lo fu nel periodo delle manifestazioni no-global di 10-15 anni fa – viene a mancare per le difficoltà a coagulare ed a distogliere gli attivisti dal piano locale a quello nazionale, ma anche per le difficoltà a riprendere i grandi temi come quelli della laicità, dell'opposizione alla guerra, all'energia nucleare, del contrasto a legislazioni repressive ed antidemocratiche, della denuncia delle violenze contro il popolo palestinese.
Sembra che l'emergenza sul piano locale assorba gran parte delle energie degli attivisti. Gli stessi attivisti dei centri sociali hanno da un paio d'anni scelto il territorio circostante come interlocutore. Il federalismo a spinta leghista è forse già più realtà di quello che fanno pensare i passaggi parlamentari?
La stessa ex-sinistra parlamentare ha subito e continua a subire divisioni e distinguo che hanno polverizzato in pochi anni un tessuto di militanti e di attivisti con i quali abbiamo tante volte lavorato insieme nel sindacato e nelle lotte sociali. Occorrerà mettere anche questo dato in capo alle difficoltà di azione e di unità dei movimenti. A questi compagni, orfani del partito-padre ed attivi nei vari rami cadetti, va anche la nostra attenzione, quali vittime della discordia imperante.
L'anti-berlusconismo ha prodotto infine il movimento del popolo viola. E' difficile dire se un fattore così circoscritto possa essere ragione di unità e di lotta per il cambiamento. E se lo è, è un movimento che si accontenta di ben poco.
La sinistra che vogliamo
Le nostre forze non sono sufficienti da sole per arginare e combattere la mancanza di unità e di solidarietà delle forze di opposizione che abbiamo fin qui riscontrato. Al tempo stesso nessuna altra entità del movimento anarchico, della sinistra rivoluzionaria e del mondo degli attivisti senza orario e senza bandiera, che voglia misurarsi con la crisi di unità e di solidarietà, ha le forze – da sola – per poterlo fare. Perché la questione è proprio questa: volersi misurare o no con questo deficit esiziale per il presente e futuro di un movimento di opposizione anticapitalista e rivoluzionario in Italia?
La reiterata via del partito-padre di turno per ri-unificare i rivoluzionari non va e non è mai andata in questa direzione. Spesso è finita all'opposto.
La accattivante visione di un presente eterno, che ha tagliato i ponti con il passato e che si percepisce solo all'interno di un impero quale parte di una moltitudine disubbidiente senza progetto futuro, viene proposta da ampi settori dei centri sociali, spesso orgogliosi della loro autosufficienza. Ancor meno strada si fa con gli avventurismi delle avanguardie che lavorano, in sé o per sé, per il re.
L'unità e la solidarietà che scompaiono dai luoghi di lavoro, dai ranghi del sindacato, dalle lotte nel territorio, dalle manifestazioni e dagli scioperi, possono essere recuperate, riattivate e re-immesse in circolo solo con un lavoro capillare in ogni situazione che richieda la presenza, l'intelligenza politica, la capacità di unire e non dividere, di sviluppare solidarietà e non competizione, da parte degli attivisti rivoluzionari.
Non siamo in una situazione – né la prevediamo per il futuro – di forte ripresa delle lotte, come se sorgessero dal nulla per effetto di una mitica capacità di rivolta delle cosiddette masse popolari. No. Non ci metteremo al davanzale ad aspettare l'araba fenice o l'arrivo di Godot.
Questo periodo storico richiede interventi di tenuta e di rafforzamento delle situazioni di resistenza. E pur tuttavia, sappiamo che le lotte si producono ugualmente, per effetto della profonda contraddizione insita nella società capitalista tra sfruttatori e sfruttati, tra dominatori e dominati.
La sinistra che vogliamo è allora questa: quella che si esprime nelle situazioni di lotta per farle crescere nella consapevolezza che la forza sta alla base, sta nell'essere uniti e solidali. Situazioni di lotta in cui possa farsi avanti la coscienza che i metodi libertari antiburocratici, antigerarchici ed antiautoritari vanno a braccetto con la rivendicazione di obiettivi unitari sempre più avanzati.
La sinistra che vogliamo è quella degli spazi aperti nelle città, laboratori di dibattito e creatività politica e culturale, ecumene degli organismi di base e delle organizzazioni politiche altruiste, dell'auto-organizzazione e dell'autogestione.
La sinistra che vogliamo è quella delle reti, dei coordinamenti, dei forum, che valorizzano e finalizzano – verso condivisi obiettivi politici, culturali, economici – quelle organizzazioni ed associazioni che si battono per una medesima prospettiva o che si schierano contro uno stesso nemico, contro uno stesso pericolo (sia esso tanto il neofascismo, il razzismo, l'omofobia quanto l'inquinamento, le privatizzazioni, le guerre dell'imperialismo, ecc.).
La sinistra che vogliamo è quella che sa costruire luoghi di confronto e controinformazione tra attivisti del sindacalismo conflittuale, al di là delle appartenenze e delle sigle sindacali.
La sinistra che vogliamo è quella che riesce a federare le situazioni di lotta ed i movimenti, gli spazi aperti e le reti, le spinte rivendicative e le spinte all'alternativa sociale globale, le esperienze di scambio sociale e solidale e le sperimentazioni autogestionaria. Luoghi in cui la democrazia diretta si afferma e si propaga. Assemblee di organismi popolari. In piena autonomia, col pieno controllo alla base. Per la costruzione di una società plurale ed alternativa, dal basso, fondata sul federalismo libertario.
L'alternativa libertaria come orizzonte
Se questa è la sinistra che vogliamo, allora questa è la sinistra per cui lavoriamo e dobbiamo lavorare. Ogni giorno. Ovunque siamo presenti.
Con l'alternativa libertaria come nostro fine. Con il diffondersi di pratiche politiche e relazionali libertarie come nostro metodo. Con la coscienza del perseguimento graduale di idee ed obiettivi alternativi al capitalismo ed allo Stato, come nostra piattaforma.
Ma in questa azione, la FdCA non può non guardare al primo cerchio concentrico in cui essa e collocata per nascita, storia e tradizione. Quello del movimento anarchico. Nazionale ed internazionale. Perché la presenza e l'azione degli anarchici nella sinistra delle assemblee popolari e delle lotte federate è fattore decisivo e fondamentale per la sua affermazione. Sia essa presenza ed azione per l'orientamento delle idee; sia essa presenza ed azione catalizzante per l'unità e la solidarietà. Sia essa presenza ed azione che si fa assunzione di responsabilità e di rappresentanza dal basso; sia essa presenza ed azione che diventa argine a tendenze gerarchiche e ad opportunismi sempre in agguato.
Occorre allora che le organizzazioni anarchiche trovino modi e luoghi per confrontarsi esse stesse, laicamente e senza pregiudiziali, trovino obiettivi per lanciare campagne che ridiano voce e visibilità all'anarchismo a vocazione sociale affinché esso esca dalla crisi politica e strategica che lo ha paralizzato e confinato in un angolo della storia e della società, con giubilo di tanti nostri detrattori.
Occorre riconquistare significato etico e valore politico di parole d'ordine proprie dell'anarchismo, che sono oggi diventati terrificanti oggetti geneticamente modificati nelle mani di opportunisti ed ignoranti di ogni risma.
Questo cerca di fare la FdCA ove è presente, ed in certi casi, come qui nelle Marche, i risultati giungono a vantaggio di tutti.
Questo cerca di fare la FdCA a livello internazionale partecipando al portale delle organizzazioni comuniste anarchiche www.anarkismo.net, alla conferenza di euro-anarkismo, ai progetti di solidarietà internazionale, tra cui segnalo il nostro contributo alla recente pubblicazione cilena sulla storia del 1° Maggio in America Latina, il nostro sostegno alle lotte unitarie degli Anarchici Contro Il Muro israeliani con i residenti dei villaggi palestinesi della Cisgiordiania contro l'occupazione ed il colonialismo sionista.
Questo cerca di fare la FdCA aprendo un posto come questo, aperto alla ricerca scientifica ed alla cooperazione con altri centri ed archivi regionali, nazionali ed internazionali.
Ma il progetto di una sinistra libertaria e federata delle lotte e dei movimenti, il progetto di una ripresa dell'anarchismo in Italia, necessitano di un consolidamento e radicamento politico-organizzativo proprio della FdCA, della sua rete di militanti, della sua stampa, delle sue proposte politiche, della sua presenza responsabile e peculiare nel mondo del lavoro e nel territorio.
A questo lavoriamo in questi giorni compagne e compagni, su questo auguro a tutti noi buon lavoro.
Con questa relazione la attuale Segreteria Nazionale si presenta dimissionaria e nel ringraziare tutta la Federazione per la collaborazione dimostrata in questi quattro anni di mandato, consegna a questo Congresso un saluto ed un augurio affettuoso.
Per l'unità e la solidarietà dei comunisti anarchici, lunga vita alla FdCA!
Donato Romito
(per la Segreteria Nazionale)
Fano, 31 ottobre 2010
1. Sono giunti al Congresso saluti dalle seguenti organizzazioni: Workers Solidarity Alliance (USA/Canada), Common Cause (Ontario, Canada), Estrategia Libertaria (Cile), Unión Socialista Libertaria (Perù), Union Communiste Libertaire (Quebec, Canada), Organisation Socialiste Libertaire (Svizzera), Liberty & Solidarity (Regno Unito) e da alcune individualità, tra cui Ilan Shalif (Israele).