LA LOTTA DI CLASSE IN ITALIA NEL DECENNIO 1980-1990
L'esperienza di questo dopoguerra ha dimostrato che la classe operaia in Italia ha alternato momenti di unità e combattività elevati movendosi nella direzione del cambiamento dei rapporti produttivi e momenti nei quali l'egemonia riformista è stata fortissima. Ma anche nei momenti più bui, di ripiegamento della lotta di classe, sono rimasti attivi degli spezzoni di classe operaia che, vuoi attraverso le strutture sindacali di categoria, vuoi attraverso organismi autonomi territoriali, hanno mantenuto un livello di consapevolezza e di capacità politica aggregante tale da permettere il rilancio complessivo dell'iniziativa di classe. E' stato questo ad esempio il caso dei portuali in Liguria, o di settori di metalmeccanici e chimici, e ultimamente gli statali.
L'ultimo decennio, che ha visto il padronato ed il capitale finanziario all'attacco del movimento operaio, è stato segnato da una profonda ristrutturazione produttiva accompagnata dall'affermazione dei valori propri del capitalismo. Il mutamento delle condizioni di vita e di lavoro ha infranto la solidarietà di classe; ha riacquistato valore la "professionalità" a scapito del "valore sociale del salario"; la logica del profitto di impresa si è trasferita nei rapporti sociali, alimentando la spinta alla ricerca individualistica di migliori condizioni di vita. Ne è seguito lo smantellamento dello stato sociale, perseguito attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici, al quale corrisponde un aumento dei costi del servizi e la caduta della loro qualità.
In compenso dal 1980 ad oggi i profitti sono cresciuti a scapito del salario.
Quello che è mancato ai lavoratori è la capacità di contrapporre all'attacco del capitale una strategia in grado di coniugare unità e solidarietà di classe. I lavoratori non sono stati in grado di porsi come soggetto politico autonomo capace di aggregare alleanze sufficientemente ampie da ribaltare i rapporti di forza.
Una grande parte di responsabilità di questi fallimenti è ascrivibile al sindacato e alla CGIL in particolare, lottizzata dalle componenti di partito, da un apparato sempre più burocratizzato, diviso e distante dai bisogni dei lavoratori, incapace di comprendere la complessità dell'attacco capitalistico. Inoltre in questo ultimi dieci anni i vertici sindacali hanno distrutto con metodicità la democrazia interna al sindacato, introdotta dalle lotte del decennio precedente, scardinando tutti gli strumenti di controllo e di autonomia che i lavoratori si erano creati negli anni '70.
L'esperienza della F.L.M. come superamento delle singole organizzazioni sindacali ed espressione dell'unità di classe, i Consigli di Fabbrica e del Delegati, eletti si scheda bianca e strumento reale dei lavoratori, vivevano e si sviluppavano grazie all'esistenza di un piano strutturale di istituti ugualitari, quali l'abolizione delle gabbie salariali, il punto unico di contingenza, l'inquadramento unico, il restringimento delle forbici retributive dei salari. L'esistenza di questo rapporto tra strumenti di democrazia diretta e struttura del salario testimonia la grande capacità dei lavoratori di porsi come movimento portatore di valori alternativi a quelli della controparte padronale, oltre che come interlocutore per settori più larghi dello stesso mondo del lavoro, quali i giovani e gli stessi disoccupati. Il movimento operaio aveva in questo modo costruito la sua forza politica.
Ma di fronte alla inevitabile controffensiva padronale, incentrata sul decentramento produttivo e la parcellizzazione della grande fabbrica, sulla introduzione di nuove tecnologie e l'espulsione di manodopera sulla ricomposizione gerarchica dei livelli di inquadramento professionale, sulla diversificazione salariale, sulla riconquista della piena discrezionalità e controllo della forza-lavoro, sulla creazione di reparti-confino, i lavoratori si sono trovati disarmati, senza l'aiuto delle proprie organizzazioni sindacali.
Queste, nei loro vertici e conseguentemente negli apparati, si sono dimostrate sostenitrici convinte delle politiche padronali. L'ideologia della centralità dell'impresa e del profitto sono diventati parametri e obiettivi delle OO.SS.. Da soggetto politico autonomo nei confronti del padronato, il sindacato è divenuto protagonista di politiche consociative.
Questa scelta è stata mascherata dietro la formula della "politica dei due tempi". Già con la piattaforma dell'EUR il sindacato cedette sul salario in cambio di impegni mai attuati negli investimenti e l'occupazione. Seguirono piattaforme rivendicative rispettose delle compatibilità e dei tetti programmati di inflazione (governi Spadolini e accordo Scotti sulla Scala Mobile -1982) per giungere, dopo la sconfitta del referendum sulla scala mobile (1985) ad una vera e propria "Caporetto" sindacale, introducendo il cuneo dell'attuale corporativizzazione del mondo del lavoro: la "professionalità" in antitesi alla gestione egualitaria degli aumenti retributivi. L'effetto è stato quello di scaricare per questa via, su piani individuali il malcontento alimentato dalle mancate lotte sul salario e di far crescere le divisioni con la conseguente sconfitta della solidarietà di classe. Da qui a spacciare per grandi vittorie l'introduzione di forme precarie di lavoro, come part-time, contratti di formazione lavoro, contratti a termine, riduzione ed eliminazione delle chiamate numeriche tramite il collocamento il passo è stato breve.
Tutto ciò ha contribuito oltre misura al mutamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, alla ulteriore frammentazione e divisione del movimento operaio. E' da queste premesse strutturali e non certo dall'egoismo dei settori più protetti del mondo del lavoro, che è nato ed ha preso forza il cosiddetto "fenomeno Cobas", sviluppando un'esperienza proficua anche se densa di contraddizioni.
La risposta della CGIL alla crisi del sindacalismo confederale è stata il cosiddetto "sindacato dei diritti" -formula scelta a Chianciano dal gruppo dirigente CGIL- che sposa in pieno la centralità dell'impresa. I "limiti" ed i "vincoli" che il sindacato dei diritti si pone sono ancora le compatibilità ed il mercato. La competitività del sistema delle imprese diventa perno della riflessione sindacale; salario e orario restano ancora delle variabili dipendenti. Le forme precarie di lavoro quali i contratti di formazione lavoro, il part-time ecc., che solo costoro si ostinano a non riconoscere come forme di supersfruttamento e di divisione della classe, vengono assunte come valori positivi da esaltare e generalizzare in una quanto mai improbabile "politica dei lavori".
La logica del profitto viene introdotta negli stessi servizi pubblici. La filosofia del più mercato-meno Stato è fatta propria dai gruppi dirigenti sindacali. Non si riconosce più la necessità e l'obbligatorietà di servizi sociali, comunque garantiti e finanziati dallo Stato attraverso l'imposizione fiscale, ma la mercificazione si introduce anche nei settori dell'assistenza sanitaria, nell'istruzione, nei trasporti. Per ignoranza e malafede si scambia delegificazione e privatizzazione e la CGIL chiede la trasformazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego in rapporto di tipo privatistico.
Ora, all'inizio degli anni '90, il ciclo economico internazionale è ad una svolta: dopo un decennio di cure neoliberiste, che hanno per altro garantito un notevole accumulo di profitti, i nodi di struttura stanno emergendo in modo non più occultabile. Una recessione molto profonda sta per investire gli Stati Uniti e da qui, creando una colossale strozzatura del mercato, propagarsi verso l'Europa. L'imprenditoria privata europea si sta attrezzando per questa congiuntura e dopo anni di esaltazione di un rinnovato laissez-faire, dopo l'accento esasperato posto sulla validità del privato in contrasto con l'inefficienza del pubblico, i toni cambiano repentinamente. L'alfiere del monetarismo, Margaret Thatcher, viene disarcionata e contemporaneamente lo Stato italiano acquista l'Enimont versando nelle casse di Gardini migliaia di miliardi freschi da investire più oculatamente in progetti meno faraonici, differenziati ed in grado di reggere al montare della crisi. La FIAT e l'Olivetti annunciano licenziamenti e cassa integrazione, ricorrendo allo Stato dopo anni di protervia e alti profitti. La svolta è solo agli inizi e comporterà una seria revisione delle strategie economiche e delle leadership politiche ad esse connesse: dal neoliberismo al neo-interventismo statale con il possibile riemergere del ruolo dei partiti socialdemocratici europei, di cui il tramonto del PCI è un inevitabile tassello. In questo quadro, solo il sindacato italiano è rimasto a combattere col ritardo di un decennio la battaglia per più mercato e meno Stato, arrivando a proporre la privatizzazione del rapporto di lavoro di pubblico impiego quale necessaria premessa alla trasformazione di molte articolazioni funzionali dello Stato in Enti di diritto privato, evidenziando una subalternità strategica alle esigenze del capitale per di più in costante e patetico ritardo. Questa linea non solo è perniciosa per gli interessi dei lavoratori, ma rischia di emarginare sempre di più le dirigenze sindacali dalla possibilità di incidere…., rendendo obsoleto lo strumento del sindacalismo confederale stretto tra la disaffezione della base e la futilità agli occhi della controparte.
Strutture e iniziative per una nuova democrazia di base
E' evidente che un tale sindacato, più attento alle compatibilità del sistema che alle condizioni di vita dei lavoratori, non può avere al proprio interno metodologie e prassi democratiche. Il gran parlare di democrazia sindacale e per ultimo la proposta di Trentin di "scioglimento della corrente comunista" appaiono più operazioni politiche interne al travaglio ideologico del PCI, che non scelte dettate dalla necessità di democratizzazione della vita sindacale.
Da sempre come militanti della lotta di classe ci battiamo nel sindacato contro la logica spartitoria delle cariche nelle strutture dirigenti e lottiamo perché vi sia una verifica costante dell'operato dei dirigenti e dei funzionari da parte dei lavoratori, sottraendo ai partiti il controllo della politica della CGIL. Questa battaglia veniva dipinta come estremista se non addirittura priva di significato, e si scontrava con un vero e proprio atteggiamento di omertà nei confronti dell'esistenza delle componenti. Oggi, con una faccia di bronzo tipica di tutti gli opportunisti, si dice che tale gestione ha ingessato la dinamica politica e la dialettica sindacale, ha mortificato la democrazia interna, ha impedito ai lavoratori di contare realmente.
In realtà, dietro la proposta di superamento delle correnti si cela, e nemmeno tanto, un progetto ben più pericoloso e autoritario della situazione attuale. Si vuole definire una nuova maggioranza che abbia come riferimento non i lavoratori, ma il sistema delle imprese e il mercato; il confronto sul programma, su cui definire maggioranze e minoranze, segna quindi l'abbandono definitivo del punto di vista di classe.
"Il 'socialismo', l'emancipazione del lavoro… non sono più il punto di partenza, il dato acquisito dal quale muovere" proclama Trentin su Rassegna Sindacale n°30 del 15 ottobre 1990. L'impresa, il profitto, il mercato saranno ancor più gli assi su cui costruire le politiche rivendicative. Nessuno spazio, quindi, per chi ancora crede, come noi, che il conflitto sociale sia strumento di emancipazione e progresso delle condizioni di vita dei lavoratori, per chi vuole mantenere aperta una prospettiva di cambiamento e superamento dell'attuale sistema economico-politico.
In questa logica il superamento delle componenti non è affatto garanzia di maggior democrazia. Un sindacato che accetta la centralità dell'impresa, un sindacato delle compatibilità e della cogestione, un sindacato che si fa carico della produttività accettando la logica della conquista dei mercati; un sindacato che accetta valori e prospettive della controparte non può che avere una grande struttura burocratica per svolgere la sua attività primaria di patronato. In questo tipo di sindacato il peso maggiore lo avranno ancor più i funzionari legati ai partiti e non ai lavoratori.
L'unica e reale possibilità per una vera democrazia sindacale è il rilancio in tutti i luoghi di lavoro dei Consigli di Fabbrica e dei Delegati, riconoscendo a queste strutture la titolarità della contrattazione. Tutti elettori e tutti eleggibili, nessuna nomina da parte delle OO.SS.. Nessuna organizzazione sindacale deve pesare di più rispetto alla sua rappresentatività reale.
Occorre puntare a coordinamenti territoriali di tutti i Consigli di Fabbrica e dei Delegati in grado di recepire le istanze della fabbrica e di ciò che la circonda, di raccordare i lavoratori la cui distinzione categoriale è sempre più nominalistica e sempre meno legata alla specificità della prestazione lavorativa.
Ogni organizzazione sindacale, così come qualsiasi aggregazione o coalizione dei lavoratori, deve avere la possibilità di esprimersi liberamente nei luoghi di lavoro. L'agibilità deve essere in rapporto alla proporzionalità dell'adesione e alle risultanze delle elezioni dei Consigli di Fabbrica e dei Delegati.
Le piattaforme, così come gli accordi, devono essere sottoposte all'approvazione in assemblea di tutti i lavoratori.
D'altronde assistiamo da parecchi anni all'emergere, dentro, a fianco, contro le strutture sindacali, di aggregazioni di lavoratori che cercano di battere la logica delle compatibilità e della sconfitta di classe.
Le lotte degli autoconvocati, i comitati creati in occasione del referendum sulla scala mobile, le lotte dell'Alfa Romeo, i Cobas, gli auto-organizzati, sono stati tutti momenti di crescita di una lenta aggregazione dalla quale, tra notevoli contraddizioni, può nascere la nuova opposizione, può scaturire il rilancio dell'azione sindacale su posizioni di classe.
Per capire le caratteristiche che essa avrà, per aiutare la gestazione di questo processo di crescita è, a nostro avviso, necessario continuare nell'analisi di questi movimenti, delle loro politiche rivendicative, del rapporto con il sindacato e con l'insieme dei lavoratori.
Senz'altro questi movimenti sono l'espressione più macroscopica della crisi del sindacato e rappresentano un tentativo di battere la logica delle compatibilità e della sconfitta di classe.
Questi organismi hanno riportato l'attenzione di tutu su problemi fondamentali per la ricostruzione dell'unità di classe: la partecipazione dei lavoratori alla costruzione delle piattaforme rivendicative, centrate sui problemi reali di salario, dell'organizzazione del lavoro e della funzione sociale dell'attività svolta, prescindendo dalle compatibilità economiche imposte dalla controparte.
Certo le difficoltà di ripresa delle lotte non sono poche e devono tenere conto della capacità di tenuta unitaria di tali movimenti, del sindacato e della controparte. I rischi sono quelli emersi con chiarezza dopo il momento di maggior presa dei COBAS: strumentalizzazione da parte del governo, soprattutto nel settore pubblico, difficoltà di creare unità e solidarietà tra le categorie, a causa delle divisioni e settorializzazioni che la crisi degli ultimi dieci anni ha prodotto.
Il cammino per la ricomposizione degli interessi di classe e per la rifondazione su basi di classe del sindacato è lungo e irto di ostacoli. Ma "il ruolo dei rivoluzionari si configura proprio nel ricomporre l'unità di classe partendo da queste parzialità, superando contemporaneamente ogni elemento di contraddizione", come, facendo il punto della situazione, dicevamo nel giugno 1988.
Ruolo attuale dei comunisti anarchici
Come avanguardie che hanno svolto la loro attività e agiscono tra i lavoratori, nel sindacato, negli organismi intermedi che i lavoratori costruiscono nei momenti di lotta, abbiamo dei compiti chiari e definibili. Dobbiamo prima di tutto -come abbiamo già fatto in passato- introdurre nei movimenti di lotta, anche di specifici spezzoni di classe, elementi di analisi più globale, valutazioni sulla fase politica, il progetto del capitale, con l'obiettivo di rilanciare la possibilità di costruire un sindacato di classe e l'alternativa rivoluzionaria.
Il nostro occhio deve quindi essere attento a tutto ciò che si muove al di fuori delle strutture sindacali (contrastando pur sempre dall'interno l'affermarsi di questa strategia) in direzione di una rottura delle compatibilità che tendono a frenare l'azione dei lavoratori. Il terreno delle associazioni spontanee al di fuori e contro le strutture sindacali può risultare pericoloso per il riproporsi di aggregazioni di avanguardie (si veda la parabola dei COBAS della scuola), con i limiti che esse inevitabilmente presentano. Resta comunque un terreno necessario in questa fase se lo collochiamo nel fine di ricostruire un'autentica democrazia di base dei lavoratori, quel sindacato dei Consigli vagheggiato un ventennio fa, ma oggi unico strumento in grado di arginare la sconfitta di classe e riproporre un nuovo ciclo di lotte. In questa prospettiva vanno viste positivamente le aggregazioni intercategoriali a base territoriale che, per la loro natura composita, hanno maggiori possibilità di non soccombere a logiche meramente categoriali e di non restare intrappolate nel dibattito sterile tra intervento dentro e fuori dal sindacato e inoltre permettono di aggregare a livello di massa evitando di dar vita a uno strumento esclusivamente di avanguardie. Da questo punto di vista anzi esse rappresentano probabilmente una tappa di quella lunga ricerca dei lavoratori di darsi nuovi strumenti di organizzazione controllati dal basso e che si muovono su una linea di classe.
Primo passo in tale direzione è senz'altro la rottura della logica delle compatibilità non solo in senso strettamente salariale e quindi settoriale, ma globale, come progetto di rifondazione dell'unità di classe.
La lotta sul salario va ripresa e rilanciata. I dati sull'andamento dell'economia non solo confermano il vantaggio accumulatosi da parte del profitto sui redditi, ma questa stagione contrattuale ha finalmente fatto scoprire a chi non voglia essere volontariamente cieco o in malafede, che le paghe operaie (figure nient'affatto scomparse) sono ancora oggi intorno al "milione e due" e quindi del tutto insufficienti in relazione al costo della vita.
Va tuttavia contrastata la tendenza a concedere aumenti retributivi "ad personam" o legati alla produttività e all'andamento del mercato. Queste scelte favoriscono un'ulteriore frammentazione dei lavoratori, dando così maggiore potere al padronato nel governo della forza lavoro. L'aumento del salario accessorio o le forme cosiddette di "gain-sharing" sempre più in uso, vanno rifiutate.
E' necessario aprire una nuova stagione di rivendicazioni egualitarie per contrastare la babele di voci e condizioni normative in cui i lavoratori si trovano. Forti aumenti egualitari, quindi, e sulle voci pensionabili; una politica salariale legata da un forte principio di solidarietà.
Alla introduzione inevitabile di nuova tecnologia che genera espulsione di manodopera, deve accompagnarsi la battaglia per la riduzione dell'orario di lavoro come strumento irrinunciabile per difendere l'occupazione e migliorare le condizioni di vita.
L'orario di lavoro in questi dieci anni è aumentato con il ricorso di fatto allo straordinario per sopperire all'insufficienza del salario. Pertanto bisogna legare la battaglia della riduzione dell'orario a forti aumenti retributivi perché essa sia credibile e vincente.
Part-time, flessibilità dell'orario, job-sharing, contratti di formazione e lavoro, contratti a termine sono tutte forme di supersfruttamento e divisione dei lavoratori. Oltre a garantire manodopera sfruttata e sottopagata, ricattabile e quindi scarsamente sindacalizzabile, esse permettono un maggior profitto ai padroni, facendone ricadere gli oneri sociali sulla collettività.
Si tratta di difendere il concetto della socialità che i servizi pubblici sottendono. Non si può scaricare sui lavoratori tutto il costo della crisi, dando all'industria privata sovvenzioni crescenti, ottenute con un aumento costante del prelievo fiscale indiretto e con tagli alle spese ed ai servizi del settore pubblico.
Commissione Sindacale - Federazione dei Comunisti Anarchici
Lucca, 27 novembre 1990