Il ciclo da spezzare

 

Nel corso degli anni Novanta si è avviata una riflessione sul ciclo economico di tipo particolare e per certi aspetti nuovo, che ha contribuito in misura notevole a generare e alimentare gli odierni conflitti. Le considerazioni svolte da Mary Kaldor, basate sull'esperienza diretta dell'autrice nello scenario del conflitto bosniaco, rappresentano un solido punto di partenza in un percorso indispensabile per comprendere non solo le cause delle guerre, ma anche la natura dei meccanismi che dilatano nel tempo i loro effetti negativi sulle popolazioni e le comunità. Il diagramma dei flussi di risorse elaborato dalla studiosa (1) viene qui riproposto (cfr. Figura 1 testo evidenziato in grassetto corsivo) con diverse modifiche ed integrazioni (cfr. Figura 1 testo in semplice carattere tondo). Le frecce di orientamento su questo grafico definiscono semplicemente relazioni (conflittuali, di sudditanza o di collaborazione) senza la pretesa di quantificarle o di spiegarne esattamente le dinamiche e direzioni, dal momento che - nella realtà - esse variano continuamente. Lo schema intende descrivere una situazione materiale in cui alcuni 'attori' godono di una posizione assolutamente privilegiata ottenuta e mantenuta a spesa delle "persone comuni", del loro ambiente sociale e dell'ecosistema. Si tratta di una forma grafica che sintetizza una riflessione, tutt'altro che esaustiva, sulla complessità e importanza non solo del fluire di informazioni, beni materiali, persone e denaro, ma anche dei rapporti tra quest'ultimo e l'azione dei protagonisti dei conflitti. Il tradizionale "campo di battaglia" si è oggi trasformato in uno "spazio di battaglia", attraversato da flussi e popolato da soggetti che incessantemente si scontrano o si alleano per trarre il maggior utile possibile dall'esistenza di tali risorse. Molti dei protagonisti del ciclo perderebbero rendite, potere, "legittimazione" se la situazione di instabilità, di diffuso pauperismo economico e sociale e di dipendenza delle persone venisse meno, grazie al consolidarsi di un processo di pace capace di migliorare effettivamente le condizioni di vita della popolazione. 

In particolare lo schema che si propone tenta di indagare la complessità delle relazioni esistenti tra gli "attori" interni dei conflitti e quelli "esterni", organizzati in sistemi interconnessi e pienamente coinvolti nel processo di appropriazione e redistribuzione perversa delle risorse e dei beni (un vero e proprio trasferimento coatto), che caratterizza la grande maggioranza delle guerre degli ultimi anni, pur con modalità e meccanismi d'attuazione diversi a seconda delle situazioni. 

I controllori/saccheggiatori interni sono i governi nazionali, le forze armate regolari, le milizie, le bande armate paramilitari, i gruppi terroristici interni o con legami esterni, la malavita organizzata creatasi o rafforzatisi grazie al prevalere del mercato nero e dell'economia sommersa, e le nuove élite oligarchiche originate dal collasso delle strutture di potere preesistenti. Mediante questo sistema di relazioni i conflitti si autoalimentano (2) in quanto varia continuamente il bilanciamento degli interessi in gioco, con i gruppi protagonisti delle guerre impegnati a dirottare le risorse depredate parte verso gli armamenti e le dotazioni umane necessarie per alimentare la violenza armata, parte nei patrimoni personali o di clan. 

A tutti gli attori esterni - occupanti neocoloniali, truppe multinazionali, mezzi di informazione, grandi organizzazioni impegnate nell'assistenza umanitaria, aziende globali, sistema finanziario internazionale, governi stranieri coinvolti - giungono parimenti consistenti flussi di risorse di ogni genere.

Tali dinamiche si sono manifestate con evidenza palmare nelle guerre interne agli stati nei Balcani, in Africa e nello spazio ex sovietico e si sono mantenute, evolvendosi, nella logica della guerra preventiva attuata dai dirigenti Usa e fatta propria recentemente anche dall'oligarchia russa. 

Il concetto fondamentale su cui si dovrebbe porre l'attenzione per sviluppare l'analisi è quello di "colonialismo senza responsabilità" (3) o di "impero senza perdite e con investimenti contenuti", strategie che caratterizzerebbero l'azione degli Usa ma anche di altre potenze economiche e militari. Se tale logica si dovesse sintetizzare con un termine, il più appropriato sarebbe quello di predazione, a cui alcuni teorici di questa versione del colonialismo finiscono per dare una lettura "ecologica". Il ciclo della predazione servirebbe infatti quale strumento per conservare la supremazia del predatore, che non solo saccheggerebbe le risorse della preda, ma ne regolerebbe anche il tasso d'accrescimento demografico. La retorica dell'esportazione della democrazia servirebbe poi a selezionare le nuove oligarchie locali, senza le quali non sarebbe possibile dare continuità al saccheggio.

Lo schema in Figura 1 tenta di ricostruire il funzionamento del meccanismo che genera, senza soluzione di continuità e non necessariamente in presenza di situazioni di guerra "guerreggiata", miseria, malattie, esclusione per "persone comuni", famiglie estese, comunità e destrutturazione delle relazioni sociali. Il ciclo è in larghissima parte informale in assonanza con la natura della maggior parte delle guerre odierne, "flessibili", di "frontiera" e proprio per questo estremamente pervasive, in cui strategie, tattiche, alleanze mutano incessantemente e il disordine si estende mentre "democrazia e primato della legge tor-nano a sembrare un odioso e inutile fardello" (4). In questo scenario, tutto ciò che è possibile immaginare è già accaduto; i soggetti che traggono dalla guerra potere, legittimità, opportunità di riprodurre i loro apparati ed esercitare le loro funzioni, anche se si affrontano o dicono di affrontarsi (ad esempio nella "guerra al terrorismo"), agiscono con la stessa logica: "di fatto, il perpetuarsi del disordine globale risponde ai fini dei terroristi altrettanto bene di quanto serve al dominio mondiale di chi muove loro guerra" (5). Tale "coalizione" trova alimento dalla sistematica sottrazione ai danni degli inermi di risorse, informazioni, diritti, opportunità, possibilità di avere un futuro migliore.

Il tessuto sociale, in seguito a tale saccheggio sistematico, viene prima indebolito e poi destrutturato, stravolto e fortemente indebolito da nuovi equilibri dall'impatto devastante. Le strategie e tattiche militari aiutano a perpetrare il saccheggio in quanto garantiscono la riproduzione delle condizioni migliori in cui esso può aver luogo. Gli attacchi indiscriminati contro la popolazione vengono portati con bombardamenti terroristici e con attentati, ma, mentre i primi rientrano in una logica "tradizionale" della guerra, gli altri ricadono in quell'universo di azioni "coperte", "asimmetriche" che si stanno affermando in Iraq come in Afghanistan o in Cecenia. Azioni messe in atto non solo da chi non può contrastare con mezzi analoghi carri armi e aerei, ma anche dagli stessi apparati politico-militari neocoloniali. Questo sta avvenendo non solamente per motivi di efficacia tecnica, ma soprattutto perché la guerra "coperta" permette in determinate condizioni (quando, ad esempio, è in atto una ribellione aperta contro l'occupazione o il potere locale) di terrorizzare la popolazione in modo capillare, continuo e maggiormente efficace (dal punto di vista dell'analisi costi/benefici) rispetto al bombardamento a tappeto. Le operazioni "coperte", proprio in quanto tali, godono poi di uno status di opacità e invisibilità agli occhi delle opinioni pubbliche e degli organismi parlamentari di controllo estremamente favorevoli che consentono di ignorare regole e leggi che dovessero intralciare il perseguimento degli obiettivi (6).

UN CICLO SENZA FINE

La raffigurazione schematica dei flussi di risorse che entrano in gioco in situazioni di conflitto non si limita a considerare ciò che accade nel corso delle guerre, ma si interessa anche delle fasi successive di "pace" instabile. Alcune delle interazioni e dinamiche rappresentate possono essere impiegate anche come traccia per interpretare quanto è accaduto e sta accadendo in paesi che, pur non avendo vissuto direttamente l'esperienza dei conflitti interni, hanno conosciuto gli effetti socialmente e politicamente negativi provocati dalla globalizzazione commerciale, produttiva e finanziaria. Effetti che sono stati richiamati nel disegno mediante l'inserimento di categorie quali l'economia "drogata" dalle speculazioni finanziarie internazionali, il tunneling (7) e le privatizzazioni, tutti fattori che influenzano in modo determinante il ciclo di redistribuzione perversa delle risorse.

Nell'eventualità che le armi tacciano restano attive, in mancanza di una ricostruzione democraticamente controllata e capace di garantire equità sociale ed economica e il miglioramento delle condizioni di vita e ambientali, parti del ciclo completamente distruttivo e parassitario della nuova economia di guerra. Si tratta di un insieme composto da grassazioni, crescita esponenziale delle attività illecite (favorita anche dall'afflusso degli aiuti umanitari) violenza economica, distruzione sistematica e capillare delle risorse vitali (acqua, suolo, persone), dipendenza dai flussi di denaro e dalla domanda di beni e servizi correlata alla presenza di truppe straniere, ecc. Nessuna prospettiva dignitosa per le popolazioni è immaginabile in uno scenario simile, che non produce nessun tipo di ricostruzione duratura delle compagini sociali e, al contrario, continua ad alimentarsi con il caos e l'instabilità.

In sostanza, resta irrisolto il problema delle diseguaglianze economiche che già aveva generato ed alimentato il conflitto. Un'analisi più attenta della natura dei disequilibri potrebbe permettere di superare l'impostazione "verticale" e impersonale della teoria economica classica, basata sulla considerazione di segni quantitativi esteriori quali il grado di disparità di ricchezza e reddito e gli indicatori relativi alla distribuzione di quest'ultimo. Indicatori che escludono qualsiasi analisi di tipo relazionale "orizzontale" e sono viziati da una scarsa qualità dei dati (8). Viceversa, considerando l'economia ed i suoi squilibri come radicati nella società, nella politica, nella cultura e nella storia si potrebbe approfondire l'analisi sulle diverse tipologie di diseguaglianza, per poter agire con maggiore oculatezza ed efficacia a sostegno delle comunità locali, metodologia che non rientra di certo nella prassi di occupanti neocoloniali, oligarchie locali, grandi aziende transnazionali o mega-apparati "umanitari".

Se nessun ciclo virtuoso viene avviato, le stesse organizzazioni militari e paramilitari, che hanno gestito il ciclo della violenza durante il conflitto, spesso continuano a mantenere un evidente potere di condizionamento sulla società, monopolizzando attività economiche lecite ed illecite, controllando gli arsenali (soprattutto di piccole armi) che restano in circolazione in quanto, nella maggioranza dei casi, non si realizzano programmi seri di ritiro e distruzione degli armamenti, smobilitazione e reintegro dei combattenti nella vita civile, incentrati e sostenuti sulla collaborazione delle comunità locali (9).

RICOSTRUZIONE FITTIZIA: L'ESEMPIO DEI BALCANI

Tutto ciò accade in presenza di flussi di aiuti umanitari e per la "ricostruzione" che in alcuni casi assumono dimensioni di rilievo. In Bosnia, ad esempio, a partire dal 1995 sarebbero giunti circa 15 miliardi di dollari, una cifra che avrebbe potuto incidere notevolmente sul processo di ricostruzione delle attività economiche, sociali e culturali e sul miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Nella realtà odierna la società bosniaca - soprattutto nelle campagne e nei centri minori - è ancora caratterizzata da diffusa povertà, emigrazione, frammentazione sociale e comunitaria, mancanza di prospettive economiche ed occupazionali e forte dipendenza dagli aiuti esteri. Non solo lo stato non è in grado di attivare quella rete di norme e strutture di regolazione e controllo indispensabile per evitare il depauperamento delle economie locali, ma non esiste nemmeno un tessuto organico di comunità e realtà produttive piccole e medie legate ai bisogni della gente, realtà che offrirebbero anche un'interessante "sponda" a progetti di collaborazione economica provenienti da paesi esteri. I pochi capitali interessati alle 'opportunità' offerte dalla Bosnia Erzegovina si sono concentrati così o sui lucrosi appalti della ricostruzione, spesso realizzando progetti tra loro non coordinati e soprattutto non utili per rilanciare le capacità produttive e le economiche autoctone, oppure sulla semplice acquisizione speculativa di impianti e attività industriali. Nel frattempo il meccanismo dell'indebitamento e della crescita esponenziale del deficit commerciale (tipico delle economie dipendenti dagli aiuti stranieri e che ospitano contingenti militari e strutture politico organizzative di "stabilizzazione") sta schiacciando il paese. Il ciclo del saccheggio, esaurite le risorse economiche, industriali e naturali, continua poi anche attraverso l'emigrazione massiccia dei giovani e il prosperare senza ostacoli di sorta dell'economia grigia e nera.

Un quadro per certi rispetti analogo lo si può riscontrare in Kosovo, dove emerge con grande evidenza quanto la presenza di circa 100.000 stranieri (10) (operatori umanitari, funzionari di organismi internazionali, militari) "droghi" l'economia. Il solo bilancio dell'UNMIK nel 2001 è ammontato a 500 milioni di dollari, ai quali vanno aggiunti circa 70 milioni di euro per il mantenimento dei diversi contingenti militari. In tutto circa 570 milioni di dollari, mentre il bilancio annuale dell'amministrazione provinciale del Kosovo raggiunge a malapena i 290 milioni di euro. Per dare solo un'idea limitata di quanti interessi gravitino attorno alla presenza dell'apparato internazionale in Kosovo, basta ricordare che le Nazioni Unite hanno appaltato il reclutamento degli agenti del corpo di polizia internazionale, che avrebbero dovuto addestrare le forze dell'ordine locali, alla società privata statunitense di servizi "militari e per la sicurezza" Dyn Corp (11), che figura tra i maggiori fornitori del Pentagono per questo tipo di consulenze e prestazioni, ed è impegnata massicciamente in Iraq. La realtà del Kosovo oggi desta profonde perplessità anche negli analisti che indagano sulla sostenibilità di un simile quadro economico e sociale (12). La domanda interna è elevata soprattutto a causa della presenza degli apparati stranieri legati all'esistenza del protettorato, ma non è assolutamente controbilanciata da una adeguata produzione interna di beni e servizi. La tassazione del 10% imposta dall'UNMIK sulle importazioni ha fortemente incentivato il contrabbando, che si svolge lungo frontiere porose attraverso le quali passano i traffici illeciti di armi, droga ed esseri umani che finiscono per alimentare la guerriglia strisciante che sta destabilizzando la Macedonia e la Serbia meridionale. Dopo il 1999 le esportazioni di prodotti minerari, agricoli e tessili sono letteralmente collassate (13), a causa della chiusura e dell'abbandono di molti impianti produttivi sino ad allora gestiti dallo stato iugoslavo. Nel 2000 sono affluiti nella provincia balcanica 2,8 miliardi di marchi in aiuti per la ricostruzione, cifra che ha contribuito a mantenere "stabile" l'economia locale, o meglio ha determinato un livello di stabilità direttamente proporzionale al grado di dipendenza; tutto ciò mentre solo il 16,6% del bilancio associato alla presenza delle forze militari è stato speso in acquisti presso le strutture produttive, commerciali ed i privati del posto. La presenza internazionale ha sortito l'effetto di fare aumentare decisamente le importazioni ed il deficit commerciale, è stato calcolato che senza di essa l'economia locale potrebbe compensare i propri acquisti dall'estero con le rimesse degli emigranti (14). I paesi maggiormente interessati in veste di esportatori sono, come era prevedibile, quelli appartenenti all'Unione Europea presenti militarmente in loco.

I rappresentanti della cosiddetta comunità internazionale scaricano le responsabilità dei fallimenti in materia di ricostruzione sulle élite dirigenti locali emerse dal conflitto (le stesse che essi hanno provveduto a legittimare), accusate di essere troppo intransigenti e arroccate in difesa dei loro privilegi, e perciò poco disposte ad accettare norme che trasformino il paese in un "libero mercato" aperto ai capitali d'investimento stranieri (15). Di fronte a questi "inconvenienti" la soluzione adottata in Afghanistan e Iraq è stata quella di imporre governi in gran parte composti da personale politico "fidato" preventivamente formato dall'occupante. Come è stato accennato in precedenza, il compito di questi "governi" è quello di garantire continuità alla predazione secondo la logica del "colonialismo senza responsabilità". Certamente, e il caso iracheno lo dimostra appieno per quanto concerne soprattutto il settore dell'energia, essi non adotteranno alcuna misura per contrastare il forte potere destabilizzante degli investimenti diretti esteri nel settore dell'energia, a cui ci si può opporre approntando una serie di misure legislative e di politica economica e sociale per proteggere le proprie risorse e comunità.

IL RUOLO DELL'UMANITARISMO

A conclusione di queste riflessioni è indispensabile fermare brevemente l'attenzione sulla questione assai complessa - spesso rimossa o liquidata con argomentazioni banalizzanti - del ruolo e del significato degli aiuti e dell'intervento umanitario nelle zone di tensione e conflitto. È sempre difficile affrontare criticamente un campo d'azione che per "definizione", ma soprattutto per convinzione diffusa, sta dalla parte del "bene".

Per quanto scritto sinora e per l'importanza che ha il flusso di risorse attivato da questo tipo di intervento nelle situazioni di conflitto, tale riflessione critica si impone a tutti coloro che intendono operare concretamente per interrompere il ciclo perverso della nuova economia di guerra. Un libro sull'argomento, pubblicato nel 2001 dalla Editrice Missionaria Italiana, reca il titolo emblematico: L'illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale. Gli autori hanno il coraggio di riflettere seriamente sul significato della politica di aiuto umanitario realizzata in questi anni e lo fanno ricordando, tra l'altro, una considerazione di Jean Baudrillard sulla quale ogni operatore umanitario dovrebbe meditare attentamente: "sono loro che sono forti, siamo noi che siamo deboli e che andiamo a cercare laggiù qualcosa con cui rigenerare la nostra debolezza e la nostra perdita di realtà. ... bisogna andare a rifarsi una realtà là dove c'è sangue. Tutti questi 'corridoi' che apriamo per spedire loro i nostri viveri e la nostra 'cultura' sono in realtà corridoi di miseria, attraverso cui importiamo le loro forze vive e l'energia della loro sventura" (16). Leggendo le pagine del libro si incontra un'interessante definizione della maggior parte delle politiche sinora realizzate, individuate come "il sistema omeostatico degli aiuti umanitari", ossia un intreccio di relazioni di potere e situazioni economiche, militari, culturali nel quale "attraverso un continuo movimento dinamico dei diversi elementi coinvolti, si mantiene sempre e comunque la stessa condizione iniziale di equilibrio (in questo caso perverso)". In tal modo l'azione umanitaria non è né lineare, né coerente e neppure controllabile e "l'attore umanitario interviene in un sistema complesso, e nella misura in cui si inserisce in questo sistema per produrre determinati effetti, a sua volta diventa parte del sistema, ovvero in una certa misura ne diventa anche un prodotto" (17). Agire in questa inevitabile realtà senza divenire complici del ciclo di saccheggio è molto difficile, ed i rischi aumentano in misura proporzionale alla dimensione delle risorse messe in gioco e degli apparati che le gestiscono. Le tesi degli autori si spingono sino ad affermare, con fondatezza d'argomenti e di dati di fatto, che il governo degli aiuti umanitari può contribuire ad alimentare i conflitti, finendo per diventare uno strumento politico ed economico a disposizione di una nuova forma di colonialismo. 

In un'altra analisi critica sull'intervento umanitario è stato opportunamente osservato come "le agenzie di aiuti oggi stanno diventando appaltatori dei governi. I governi hanno molto più potere di analisi e capacità delle agenzie, possono assumere il controllo delle organizzazioni umanitarie e usare la loro presunta indipendenza per i loro fini" (18). L'umanitarismo, trasformato in ideologia del potere neocoloniale, finisce in molti casi per sostenere anche ideologicamente le relazioni di dominio e saccheggio instaurate con i conflitti; la manipolazione strumentale delle categorie concettuali e del linguaggio dei diritti umani serve per giustificare una serie di pratiche che, in concreto, riproducono lo stato di soggezione delle persone e delle comunità e la sopravvivenza dello stesso apparato di "professionisti" dell'intervento umanitario.

ACHILLE LODOVISI
ricercatore

 

Note:

1. M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell'età globale, Carocci, Roma 1999, p. 121. 
2. Cfr. D. Keen, "The Economic Functions of Violence in Civil Wars", in Adelphi Paper, n. 320, luglio 1998.
3. Cfr. C. Hables Gray, Postmodern War. The New Politics of Conflict, Guilford Press, Londra, 1997, pp. 170-171.
4. Z. Bauman, La società sotto assedio, Laterza, Bari-Roma 2003, p. 89.
5. Ibidem.
6. Sul nuovo importantissimo ruolo assegnato dal Pentagono ai corpi speciali ed alle operazioni coperte in Afghanistan e in Iraq si veda: J.D. Kibbe, "The Rise of the Shadow Warriors", Foreign Affairs, mar.-apr. 2004, pp. 102-115.
7. Il termine (traducibile con "sottrazione di beni") è impiegato dagli economisti per indicare la sottrazione clandestina di beni appartenenti ad imprese allo scopo di finanziare partiti politici, gruppi di potere, mafie, o per costruire grandi fortune personali dei componenti delle nuove élite. Naturalmente il tunneling aggrava la crisi debitoria ed patrimoniale delle aziende che, nella maggior parte dei casi, sono controllate dal capitale pubblico (dai governi) e può verificarsi prima, durante o anche successivamente alle privatizzazioni.
8. Per una critica all'analisi economica "ortodossa" sulla disuguaglianza economica e sulle sue relazioni con la conflittualità si rimanda a C. Cramer, "Disuguaglianze economiche e guerre civili", in M. C. Ercolessi (a cura), I signori della guerra. Stati e micropolitica dei conflitti, atti del convegno "Attori della violenza, attori della riconciliazione" (Cortona, 15-16 giugno 2001), Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 2002, pp. 129-139.
9. Si veda al riguardo l'interessante analisi contenuta in "Democratizing security to prevent conflict and build peace", in United Nations Development Programme, Human Development Report 2002, New York 2002, pp. 85-100.
10. Il numero degli stranieri è circa uguale a quello degli abitanti del Kosovo di origine serba rimasti nella provincia dopo la contro pulizia etnica messa in atto dalle bande albanesi dopo l'ingresso delle truppe della NATO.
11. R. Estarriol, "L'allargamento a Est dell'Unione Europea. La comunità internazionale, l'UE e i Balcani", Est-Ovest, n. 6, 2002, pp. 77-80.
12. Si segnala l'interessante studio di James P. Korovilas, "The Economic Sustainability of Post-conflict Kosovo", Post-Communist Economies, vol. 14, n. 1, 2002, pp. 109-121.
13. Nel 2000 il Kosovo ha esportato beni per un valore complessivo di 1 milione di marchi, nel periodo precedente la guerra le esportazioni ammontavano a 342 milioni di marchi, cfr. Ivi, p. 114.
14. Ivi, p. 119.
15. D. Simpson, "A nation unbuilt: Where did all the money go in Bosnia?", International Herald Tribune, 18 feb. 2003.
16. M. Deriu et. al., L'illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale, Bologna 2001, p. 126.
17. Ivi, p. 87.
18. T. Vaux, L'altruista egoista. Analisi critica degli interventi umanitari in situazioni di guerra e carestia, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2002, p. 259.