LA GUERRA DI SPAGNA:
UN RICOSTITUENTE PER IL CAPITALE

 


Fra gli storici è forte la corrente di coloro che vogliono ridurre la "guerra di Spagna" ad uno scontro fra fascisti ed antifascisti, con una rivoluzione sociale a complicare il quadro. In realtà, all'interno di questo conflitto, durato dal 17 luglio 1936 al 1° aprile 1939, si svilupparono varie dinamiche, di cui sono state studiate generalmente quelle più evidenti: vale a dire la guerra civile e la rivoluzione sociale. Ma ne è esistita un'altra e per nulla secondaria, poiché è quella che in genere porta alle dittature procapitalistiche ed alle guerre sociali: vale a dire la ristrutturazione del sistema capitalista in difficoltà.

Non la si percepisce comunemente a causa l'ottica sbagliata del binomio fascismo/antifascismo, laddove il secondo termine sia utilizzato (come lo è) quale sinonimo di democrazia parlamentare borghese.

Il regime liberal-democratico, infatti, è la forma di organizzazione politica assunta dallo Stato per garantire all'assetto capitalistico della società la formazione del profitto, nella cornice di certe libertà che furono rivendicate dalla borghesia contro lo Stato assoluto (di espressione, di stampa, di organizzazione, etc.), e soprattutto mediante il coinvolgimento delle medesime classi oppresse inquadrate da partiti e sindacati riformisti, che a loro volta garantiscono il rispetto delle "compatibilità del sistema". Ma, quando il fine non sia più perseguibile attraverso questa forma organizzativa - come accade quando il sistema economico entra in profonda crisi e si venga a formare un forte e radicale movimento dei lavoratori, oppure quando le pulsioni e le rivendicazioni delle classi proletarie, se accolte, metterebbero in crisi il profitto della borghesia, portando il sistema al corto circuito - allora il fascismo diventa il ricorso estremo della classe dominante, che prima si era avvalsa della forma liberal-democratica. Forma alla quale la borghesia torna poi nelle inevitabili fasi di crisi del fascismo, che si risolvano in uno stallo per lo sviluppo capitalistico.

Quando, in regime liberal-democratico, il capitalismo entra in una crisi di fondo tale per cui acconsentire a richieste sempre più estreme da parte dei lavoratori implicherebbe per la borghesia la scomparsa come classe egemone, e come classe tout court, si impone per essa una radicale rottura dello stesso ordine giuridico borghese esistente, attraverso cui le classi lavoratrici organizzate e bellicose vengano spazzate via con ogni mezzo, preferibilmente con la violenza ed il terrore di massa. In questi casi - dalla Comune di Parigi in poi - emerge in tutto il suo orrore il volto disumano e sanguinario degli esseri umani in cui il sistema si è incarnato. In epoca contemporanea queste rotture radicali hanno portato ai regimi reazionari di massa, che, nel parlar comune vengono, ricompresi nel termine "fascismo", il quale con questo uso finisce col diventare espressione di un "genere" entro cui si collocano "specie" aventi sì un minimo denominatore comune, ma anche caratteristiche individuanti ben differenti.

In dette fasi di crisi, quindi, l'alternativa per la borghesia non è tra fascismo ed antifascismo, ma tra difesa del capitalismo e difesa della forma liberal-democratica tra le cui crescenti crepe, però, si intravede e si insinua la rivoluzione sociale. Nella maggior parte della borghesia la scelta è automatica per il ricorso allo strumento fascista; talune sue componenti, invece, finiscono nel campo opposto, in quanto anche la borghesia non è un agglomerato omogeneo, ma. al suo interno, presenta interessi particolari svariati e confliggenti (economici, politici, culturali, religiosi, filosofici, locali, etc.), di modo che nel campo cosiddetto "antifascista" a volte si trovano anche borghesi di destra. Per questa ragione, dovrebbe essere chiara (ma non sempre lo è) la pericolosità dell'unità antifascista, mistificazione e trappola per i rivoluzionari. Infatti delle due l'una: a) se il "fronte antifascista", che unisce il diavolo e l'acqua santa, in un modo o nell'altro prevale e la componente borghese è forte, essa non avrà problemi a fare poi causa comune con i fascisti sconfitti, ricorrendo a varie mascherature, se del caso; b) se invece in questo fronte i borghesi non sono per niente forti rispetto alla componente rivoluzionaria e proletaria essi non si daranno molto da fare contro i fascisti, consapevoli che, se disgraziatamente questi venissero sconfitti, si troverebbero in balia delle masse rivoluzionarie.

Tutto questo accadde in Spagna nel 1936/39, nonostante che la storiografia marxista spacci la Spagna dell'epoca per un paese dalle forti componenti feudali, la realtà è che si trattava di un paese ad economia arretrata sì, ma capitalista. Il sistema era però entrato in fortissima crisi: dopo aver lucrato dalla neutralità durante la Iª guerra mondiale, senza poi investire adeguatamente i ricavi nella modernizzazione economica: gli interessi delle grandi potenze imperialiste le bloccavano la strada del commercio dei prodotti finiti; Sudamerica e Australia commerciavano grano e carni migliori a prezzi ben più bassi, i profitti dell'agricoltura calavano irrimediabilmente, creando grossi problemi anche alle banche creditrici e determinando, a cascata, una crisi dell'industria. Se si aggiungono le secolari rivendicazioni dei contadini ormai incontenibili e le agitazioni di un proletariato urbano fortemente radicalizzato, è chiaro che le classi dominanti potevano uscire dalla crisi solo agendo sul piano sociale interno e distruggendo sindacati ed organizzazioni politiche dei lavoratori. A questo avrebbero pensato i generali golpisti.

Ma, alla data del 20 luglio del 1936, all'esercito insorto era sfuggito il colpo di mano: esso aveva subito sia una grossa sconfitta militare a Madrid e Barcellona, i due terzi del paese, la parte più popolata e ricca, erano nelle mani di milizie popolari maggioritariamente anarchiche, la maggior parte della flotta e dell'aviazione si era schierate contro il golpe; sia una notevole sconfitta politica, poiché la rivolta aveva scatenato proprio quella rivoluzione sociale che a tutti i costi si voleva evitare, ed accanto alla formale sopravvivenza dei governi di Madrid e Barcellona si era costituito un potere popolare rivoluzionario di comitati e milizie che, con l'appoggio dei lavoratori, non apparivano affatto disposti a dare spazio ad un governo borghese sentito come corresponsabile della rivolta militare per la sua natura di classe, che era stata alla base della passività dimostrata di fronte al complotto prima, ed all'insurrezione poi.

La Spagna repubblicana fu infatti teatro di una spontanea e massiccia azione popolare volta ad instaurare il comunismo libertario anche contro i timori delle organizzazioni anarchiche: l'insieme delle collettivizzazioni urbane ed agrarie, coinvolgenti milioni di persone, intendeva mettere le basi di una società ispanica senza Stato autogestita dagli stessi lavoratori federati. Come ha scritto Gaston Leval, "La rivoluzione sociale (...) si compì allora (...) non perché (...) il "popolo" nel suo insieme era diventato tutto di un colpo capace di fare miracoli grazie ad una scienza rivoluzionaria infusa che l'avrebbe bruscamente ispirato, ma perché, ripetiamolo, in seno a questo popolo facendone parte, esisteva una numerosa minoranza, attiva, potente, guidata da un ideale, che continuava attraverso la storia una lotta cominciata ai tempi di Bakunin e della Iª Internazionale". Ed una delle cose più interessanti è che masse di contadini superarono il loro tradizionale individualismo optando per la gestione collettiva delle terre. Opera di un popolo, e non di partiti, questo colossale esperimento ha dimostrato che nelle città come nei campi l'anarchismo è tecnicamente possibile (però bisogna volerlo) e che l'alternativa non è solo fra capitalismo privato e di Stato. Perché la rivoluzione spagnola non fu solo passione ed eroismo né fu velleitarismo, bensì capacità di ristrutturare la società per uno sbocco diverso. Ebbe a scrivere Guy Debord che "Nel 1936, l'anarchismo spagnolo diresse una vera rivoluzione sociale e fu alla testa del disegno di potere proletario più completo mai prodottosi finora". A parte il breve episodio della Comune di Parigi del 1871, essa è stata l'unica rivoluzione sociale libertaria di massa nell'Europa occidentale. 

In area repubblicana la borghesia piccola e media, ancora rimastavi, per salvarsi dovette ripiegare sulla protezione dei comunisti staliniani, che, per prendere il potere, non aspettavano altro, ed oltre tutto obbedivano alle esigenze di Stalin il quale non poteva consentire una rivoluzione libertaria in Europa. Gli errori politici delle organizzazioni anarchiche, collaborando lealmente ed autolesionisticamente con i governi borghesi di Madrid e Barcellona nel segno dell'antifascismo - invece di approfittare del collasso dell'intero apparato statale per abbatterlo completamente - consentì il ricostituirsi dello Stato e la salvezza del capitale piccolo e medio nella zona repubblicana. La vittoria di Franco ricreò le basi per una riorganizzazione di tutto il capitalismo spagnolo a scapito, come era ovvio già allo scoppio della guerra civile, dei lavoratori salariati. Lo stato dittatoriale e clericale, il fresco ricordo dei massacri compiuti dai franchisti durante e dopo la guerra civile garantivano al capitalismo che la classe operaia non avrebbe potuto rialzare la testa chissà per quanto tempo, e quindi si potevano avere le mani libere.

Ma, anche se la rivoluzione finì schiacciata dall'azione a tenaglia dei franchisti e della borghesia repubblicana aiutata dagli stalinisti, gli insegnamenti delle sue realizzazioni rimangono e sono un punto di partenza per il presente e il futuro in uno scenario socio/economico indubbiamente mutato. Per cui può ben valere la frase finale pronunciata dal protagonista del film "Terra e Libertà" di Ken Loach: "La rivoluzione è contagiosa. Se noi avessimo vinto, come qui avremmo potuto, avremmo cambiato il mondo… Ma non importa. Il nostro giorno verrà". 

Pier Francesco Zarcone
Ricercatore e scrittore