I Comunisti Anarchici e l'Organizzazione di Massa

I. Organizzazione politica comunista anarchica ed organizzazione di massa

 

1.1. Caratteristiche dell'organizzazione di massa

Elemento prioritario per un chiarimento della nostra posizione di comunisti anarchici sul sindacato oggi, è fare il punto sulle caratteristiche dell'organizzazione di massa. Va precisato innanzitutto che per noi l'organizzazione di massa risponde all'esigenza di un momento di collegamento di proletari in lotta, che si coordinano fra di loro sulla base di ipotesi unitarie in difesa dei propri bisogni materiali.

Essa investe più momenti della vita associata del proletariato e si rende necessaria quale allargamento delle capacità offensive della lotta di classe e per una sua maggiore incisività, nella fabbrica come nel quartiere, nel territorio e nelle campagne.

L'organizzazione di massa nasce dunque su di una pura esigenza di struttura più ampia, sia perché il proletariato possa porsi obiettivi più generali, sia per esigenza di confronto e di comune crescita; è quindi inevitabile che nel perseguirli sviluppi un proprio programma politico, una strategia complessiva, che, con gli sforzi dei militanti dell'organizzazione comunista anarchica inseriti al suo interno, deve il più possibile tendere a divenire una strategia di attacco globale al sistema economico e sociale capitalistico.

L'organizzazione di massa è unitaria in quanto non pone discriminanti di accettazione di programmi per i suoi membri, ma ogni suo aderente si batte in difesa dei bisogni materiali sul proprio posto di lavoro e, nello stesso tempo, è organizzazione della classe in quanto collega le singole lotte nel quadro più generale delle lotte del proletariato.

Essa è legata al territorio e percorre dall'interno realtà sociali di vita e di lavoro.

Per i comunisti anarchici la funzione dell'organizzazione di massa è insostituibile, perché solo all'interno di essa il proletariato può unilateralmente e collettivamente mettere. a punto gli strumenti della sua autorganizzazione, compiere le proprie esperienze di lotta, scoprire i propri bisogni storici e darsi man mano gli strumenti per realizzarli.

Sorge qui il problema del rapporto fra organizzazione politica del comunisti anarchici ed organizzazione di massa. Occorre brevemente ribadire che per noi costituiscono punti essenziali del rapporto fra la nostra organizzazione politica e l'organizzazione di massa quelli sotto delineati e che, comunque, rinviamo le considerazioni più specificatamente relative al ruolo ed alla struttura dell'organizzazione politica ad un nostro successivo lavoro.

1) Occorre avere chiaro che non esiste identità fra organizzazione di massa ed organizzazione politica, poiché il rapporto. avanguardia-massa non e' risolto, per i comunisti anarchici, sulla base dell'appartenenza ad un'organizzazione unica rivoluzionaria. Per noi il rapporto è risolvibile solo sulla base del dualismo organizzativo per cui è compito dell'organizzazione politica comunista anarchica la piena consapevolezza della teoria, della strategia e della messa a punto, la più compiuta possibile, del progetto rivoluzionario e della società futura. L'avanguardia comunista anarchica si distingue da quella leninista in quanto la coscienza della padronanza del progetto rivoluzionario non si traduce in una sostituzione alle masse, nel cui nome si agisce, rispondendo solo a se stessi ed alla propria coerenza teorica, ma comporta per i militanti comunisti anarchici un lavoro continuo all'interno dell'organizzazione di massa per la sua crescita politica verso l'acquisizione di un autonomo progetto rivoluzionario. Solo in questo modo l'organizzazione di massa non sarà espropriata dall'avanguardia della propria autonoma capacità di elaborazione del progetto rivoluzionario, ed anzi bisogna ribadire che l'esistenza dell'autonomia della classe implica una continua verifica della teoria, della strategia e della tattica dell'organizzazione politica comunista anarchica all'interno delle lotte del proletariato.

2) I militanti dell'organizzazione politica comunista anarchica portano nell'organizzazione di massa, operando nel proprio posto di lavoro, stimolando le lotte e l'iniziativa, la visione strategica e teorica dell'organizzazione stessa. Essi puntano a sviluppare su queste ipotesi, inserendoli mediante il confronto costante nelle lotte, elementi della teoria, della strategia e del programma comunista anarchico, e l'acquisizione costante di consapevolezza della propria condizione da parte di tutti i lavoratori.

3) È prioritario per l'organizzazione politica comunista anarchica rendere possibile una continua verifica della propria linea politica nella pratica di lotta dell'organizzazione di massa, per mezzo del suoi militanti, che sono tali solo se al tempo stesso lo sono anche dell'organizzazione di massa.

4) Ne consegue che sarà cura del militante comunista anarchico portare nell'organizzazione di massa contenuti libertari, partendo dal programma e dai bisogni immediati, nella prospettiva della soddisfazione dei bisogni storici della classe. Sarà inoltre cura di tutti i militanti comunisti anarchici battersi per il rispetto della democrazia all'interno dell'organizzazione di massa, per lo sviluppo degli organismi di base, per una pratica di lotta che porti all'azione diretta, intesa come gestione in prima persona delle lotte, strumento insieme di partecipazione e di controllo dell'organizzazione di massa da parte dei proletari.

5) Il rifiuto della divisione di competenze, fra organizzazione di massa e partito, della lotta economica e della lotta politica è patrimonio irrinunciabile della teoria comunista anarchica. Per noi appartiene tutta intera all'organizzazione di massa la gestione nei suoi aspetti sia politici che economici della lotta. Di conseguenza riteniamo errata la chiusura dell'organizzazione di massa nell'ambito di lotte puramente economiche e la delega ad uno o più partiti della lotta politica.

6) Reputiamo essenziale che l'organizzazione di massa non sia caratterizzata da una omogeneità tattica e strategica, proprio perché questa caratteristica appartiene all'organizzazione politica. L'organizzazione di massa si distingue, invece, perché aggrega i proletari senza distinzioni di tipo ideologico, religioso, sessuale, sulla base di un programma e rispetto ad obbiettivi di breve e lungo periodo, sulla base della lotta di classe.
È inevitabile che un'organizzazione di massa che si muove sul bisogni immediati del proletariato, cercando di saldarli a quelli storici, venga elaborando delle linee strategiche sempre più definite, così come è inevitabile che questa definizione risulti ancora più precisa e subisca un'accelerazione sotto la spinta degli eventi e de1 momento rivoluzionario. Quello che, secondo noi, è da evitare è che l'organizzazione di massa si muova col preciso scopo di tracciare discriminanti proprie dell'organizzazione politica, nasca cioè su di un'aggregazione di fatto "ideologica", come ne1 caso de1 sindacato dei rivoluzionari. È inoltre da evitare che l'acquisizione di una strategia rivoluzionaria da parte dell'organizzazione di massa sia patrimonio esclusivo di punte avanzate, in modo che tenda a selezionare, nel corso della lotta, le avanguardie rivoluzionarie; questo perché la consapevolezza rivoluzionaria deve essere un'acquisizione unitaria della classe. Di conseguenza consideriamo organizzazioni di partito o loro filiazioni tutti quei collettivi "autonomi", collettivi di partito, sindacati rivoluzionari, etc., che, pur presentandosi come organismi di massa, sono in realtà degli aggregati omogenei tatticamente, strategicamente, ideologica mente, con un programma ed una teoria definiti.

 

1.2. Il sindacato come organizzazione di massa.

Il sindacato è nato storicamente nel luogo di lavoro, su precisi bisogni materiali delle masse lavoratrici che ne fanno parte, e sotto il diretto controllo di quest'ultime.

Tuttavia nello scontro di classe il sindacato si è trasformato. Poiché la lotta di classe è al tempo stesso messa in crisi del profitto e del comando capitalistico ed anche elemento costante di cambiamento, di trasformazione e di sviluppo del capitale, in quanto lo costringe, per rispondere all'attacco, a ristrutturarsi in fabbrica e sul territorio, a mutare organizzazione del lavoro e processi produttivi, il sindacato, espressione organizzativa della lotta di classe, assume la doppia veste di difensore degli elementari bisogni del proletariato e quella di elemento di costante razionalizzazione del capitale.

Questa doppia funzione del sindacato si dispiega in un senso o nell'altro a seconda del prevalere di una fase offensiva della lotta di classe o di una fase difensiva. È bene precisare che stiamo parlando in linea del tutto teorica, del sindacato come pura espressione organizzativa della lotta di classe, funzionante sui principi della democrazia proletaria di base, e non dei sindacati attuali, quali si sono venuti con figurando nei vari paesi, con caratteristiche diverse, a seconda dello sviluppo del capitale e della lotta di classe, ed a seconda degli eventi storici.

Le caratteristiche che lo contraddistinguono sono quelle che andiamo a delineare. L'etereogeneità dovuta al fatto che esso ha lo scopo, prescindendo dall'ideologia degli associati, di unire non già gli iscritti di questo o quel partito, ma tutti i lavoratori sulla base della difesa del loro bisogni materiali. "L'organizzazione sindacale deve avere uno scopo ultimo ed uno immediato. Lo scopo ultimo deve essere l'espropriazione del capitale da parte del lavoratori associati, la restituzione cioè ai produttori, e per essi alle loro associazioni, di tutto ciò che il loro lavoro ha prodotto, di tutto ciò che ha prodotto il lavoro della classe operaia attraverso i secoli, di tutto ciò che senza l'opera del lavoratori non avrebbe alcun valore. Lo scopo immediato è sviluppare sempre più lo spirito di solidarietà tra gli oppressi e di resistenza contro gli oppressori, tenere esercitato il proletariato con la ginnastica continua della lotta operaia nelle sue forme più diverse, conquistare oggi stesso tutto ciò che è possibile strappare, per quanto poco possa essere, al capitalismo in benessere e libertà." (1)

Ciò premesso è chiaro che non si può parlare di dirigenti "buoni" e di dirigenti "cattivi", ma di dirigenti quali espressioni coerenti della fase della lotta di classe. Se tale giudizio generale è inapplicabile alle attuali strutture sindacali per la totale assenza in esse delle più elementari norme di democrazia diretta, ed anche in base alla considerazione che tale tipo di strutture non è casuale, ma risponde a precise esigenze di controllo sulla classe, esso ci porta comunque a considerare in termini più materialistici la situazione attuale.

Infatti vedere in questo momento politico il sindacato come "degenerato" e quindi "venduto", individuando nei vertici i traditori delle istanze di base, vuoi dire non cogliere i dati reali del problema del riflusso della lotta di classe, determinato dalla pesante ristrutturazione capitalistica in atto, e vuoi dire anche credere che basti la volontà o la malafede di alcuni a giustificare situazioni che hanno profonde radici strutturali e si generano da dati politici e sociali non aggirabili con l'individuazione di capri espiatori.

Ciò non vuol dire che i dirigenti sindacali non giochino un ruolo fondamentale nella sconfitta cui è andato incontro l'ultimo decennio di lotte, perché sarebbe come dire che l'attuale strutturazione del sindacato è del tutto casuale e non ha nessuna funzione specifica. Quello che si vuol dire è che questo ruolo i vertici sindacali lo possono giocare solo all'interno di un pesante attacco padronale alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato. I successi conseguiti in quest'attacco col conseguente arretramento del movimento operaio e proletario in genere hanno fatto sì che quest'ultimo non abbia trovato la forza o la coscienza del momento necessaria per reagire e sconfessare i dirigenti come aveva fatto nel 1968-1969, imponendo il sindacato dei consigli, che rompeva la logica della struttura verticistica sindacale. In questa sconfitta ha pesato anche in modo notevole l'assenza in seno alla classe di un'organizzazione politica in grado di approntare strumenti di analisi e proposte che costituissero una strategia in grado di far fronte all'attacco padronale.

Ma vi è un'altra conseguenza negativa nel vedere oggi il sindacato come degenerato e venduto, e cioè l'accettazione della strategia della sinistra sindacale che mira alla sostituzione dei vertici con personale politico "di provata fede rivoluzionaria", accontentandosi, nel frattempo, di mantenere in nome dell'unità, sindacale e non di classe, posti di dirigenza ai vari livelli del sindacato, nella speranza di ritagliarsi spazi, isole, come componente, come corrente, per partire alle scadenze congressuali alla conquista della maggioranza. Tale impostazione, tra l'altro, non tiene conto dell'univocità di funzionamento delle attuali strutture sindacali, già detta prima, che vanifica completamente la soggettività "buona" del singolo dirigente.

Per altro verso, la considerazione del sindacato come degenerato e venduto porta altri compagni al rifiuto di "sporcarsi le mani" con questa struttura considerata ormai uno strumento dei padroni. Noi non crediamo nel sindacato così come oggi si presenta, né nella sua conquista o nel suo recupero. Ribadiamo però la necessità di sporcarci le mani laddove i lavoratori si trovano, abbandonando posizioni puriste in grado di gratificare solo le nostre individualità, ma del tutto sterili alla lunga sul terreno pratico. 

È innegabile che, se vogliamo essere a contatto coi lavoratori, operare incessantemente per strapparli alla tutela riformista, immettere nelle loro fila il nostro progetto rivoluzionario, non possiamo isolarci sulle posizioni ideologiche e, pertanto, il problema delle attuali strutture sindacali non può essere passato sotto silenzio. Non può essere ignorato con l'illusione dell'azione fabbrica per fabbrica, perché sappiamo bene che oggi i Consigli di Fabbrica sono sempre più una struttura di base del sindacato e sempre meno una struttura di base dei lavoratori: e tuttavia questi li hanno quali unici punti di riferimento. Ma nel ribadire che dobbiamo sporcarci le mani laddove si trovano i lavoratori, non escludiamo preconcettualmente altre realtà effettive di base: a queste va dato però il giusto valore e la giusta dimensione, vanno viste per quelle che sono e non deformate dal nostro pensiero e dal nostro desiderio di vederle come più ci piacerebbe che fossero.

Quando come oggi i sindacati non si fanno carico delle giuste richieste dei lavoratori e può capitare che questi si muovano autonomamente, noi dobbiamo essere in queste lotte, ma senza cercare lo scontro per lo scontro con la struttura riformista, senza portare al macello ed all'isolamento i lavoratori, senza pretendere di usare certi movimenti di lotta per strutturare forme organizzative stabili ed alternative. Non dobbiamo cioè cadere nell'errore di creare gruppi o collettivi autonomi, violentemente antisindacali, portatori di lotte radicali, avanguardie rivoluzionarie che, nella rincorsa di metodi di lotta sempre più avanzati, finiscono per divenire, quando non lo sono già sul nascere, momento di aggregazione a base ideologica, cellule di partito sul posto di lavoro, con una tattica ed una strategia omogenea.

C'è da dire che se questa pratica è funzionale alla creazione del partito rivoluzionario di modello leninista, è per lo meno dubbio che sia strumento complessivo di crescita per i proletari in lotta, momento di sviluppo dell'organizzazione di massa con le caratteristiche da noi finora individuate.

 

1.3. L'anarcosindacalismo ed i comunisti anarchici

Discorso a parte merita il problema dell'anarcosindacalismo; e questo per due buoni motivi. Il primo è che sotto questa etichetta passano o si cerca di far passare le pratiche politiche più disparate: tutto ed il contrario di tutto; per cui un minimo di bilancio storico su quello che questo termine è venuto via via significando spiana la strada ad un giudizio più meditato e meno emotivo. Il secondo è che temi tipici dell'anarcosindacalismo, quali l'azione diretta, il controllo senza mediazione dei lavoratori sulla propria organizzazione di difesa, l'autogestione e lo stesso motto "da sfruttati a produttori", sono di volta in volta riemersi nel dibattito politico, agitati da gruppi politici della nuova sinistra e da partiti della "sinistra storica", da minoranze di base e da vertici dei sindacati riformisti, sono riemersi, dicevamo, quali elementi sparsi, mai tendenti a rifondersi in progetto strategico organico, ma avulsi dal proprio contesto storico e teorico e stiracchiati per le esigenze più diverse; con essi è giunto il momento di fare i conti globalmente, cercando di ridar loro la collocazione che ne renda evidenti lati positivi e limiti.

L'anarcosindacalismo nasce, come pratica politica e come identità teorica, in Francia sul finire del secolo scorso; esso rappresenta il frutto dello sforzo di molti militanti anarchici che, stanchi dell'involuzione terroristica di un movimento prostrato dalla persecuzione poliziesca ed isolato dai problemi delle masse, avevano ripreso una pratica costante di lavoro all'interno della classe (2). Dopo questo bagno rivitalizzante e dopo notevoli successi, che portarono l'anarcosindacalista CGT ad essere l'organizzazione di massa del proletariato francese, la nuova pratica politica si scontrò con il primo nodo teorico: il rapporto tra organizzazione di massa ed organizzazione politica. Il confronto in seno al movimento anarchico avvenne al Congresso di Amsterdam del 1907 e fu impersonificato da Monatte, leader della CGT e fautore di un sindacato che basta a se stesso, e da Malatesta, sostenitore della funzione del movimento anarchico specifico in quanto tale (3). Il conflitto fu interpretato come quello tra il nuovo anarchismo "operaio" ed il vecchio anarchismo ideologico, ma non si trattava di uno scontro generazionale, quanto invece di una vera e propria contrapposizione politica e strategica; perché altrimenti dalla parte di Monatte troveremmo il vecchio militante internazionalista Guillaume? Oppure perché un ventennio dopo, alla luce di esperienze nuove e fondamentali quali la rivoluzione russa, si riaccese il dibattito sul ruolo dell'organizzazione politica con l'esplodere del caso della cosiddetta "piattaforma di Archinov"(4)?

Certo è che la posizione di Malatesta lascia ampi margini di critica. La sua visione dell'organizzazione politica non è quella di un supporto necessario ad indirizzare il lavoro politico di massa dei militanti e la sua pretesa di qualcosa oltre l'organizzazione di massa non è motivata dall'insufficienza della lotta economica a creare coscienza di classe. Quest'ultimo elemento è presente, tanto è vero che la sua concezione dell'organizzazione di massa come naturalmente riformista è condivisibile e da noi in parte ripresa nelle pagine precedenti. Malatesta non parte dai bisogni materiali delle masse dei lavoratori quale elemento per costruire una strategia per l'anarchismo; nella sua visione, l'anarchia e la società per tutti gli uomini e lo sfruttamento rappresenta solo un'agevolazione a concepire propositi rivoluzionari: l'anarchismo non è la teoria dell'emancipazione della classe sfruttata, ma solo aspirazione ad una società più giusta, una teoria "umanista". Ne consegue che, per Malatesta, l'organizzazione politica non ha la funzione di legare la lotta politica e la lotta economica all'interno dell'organizzazione di massa per mezzo dei suoi militanti, non ha il compito di far nascere la coscienza di classe dalla lotta di classe. Il suo bisogno del "partito anarchico" nasce dalla convinzione della settorialità della lotta di classe; l'organizzazione di massa è vista come uno dei settori di intervento dell'organizzazione politica; essa copre un aspetto della lotta per l'emancipazione dell'umanità, forse anche il principale, ma tocca all'organizzazione politica allargare il lavoro politico ad altri campi: propaganda, antimilitarismo, associazionismo, etc. Così l'organizzazione politica non è solo il centro della purezza della dottrina rivoluzionaria anarchica, ad essa spetta anche un compito più ampio e globale di quello dell'organizzazione di massa: investire della proposta anarchica l'intera società e non solo la classe operaia.

D'altra parte al Congresso di Amsterdam era presente anche un'altra posizione, che, rimasta marginale allora, sarà perseguita con costanza e coerenza nel ventennio successivo da Luigi Fabbri. Sensibile ai problemi posti dal sindacalismo francese tanto da votare anche l'ordine del giorno di Monatte, Fabbri ne scorge con maggiore lucidità i limiti. È l'analisi attenta della situazione italiana che gli fornisce gli strumenti per questa critica. In Italia, infatti, idee simili a quelle messe in pratica in Francia vengono agitate sia da settori anarchici, sia da settori del Partito Socialista: sarà questa ibrida alleanza a dare vita nel 1912 all'USI. Nella componente marxista-rivoluzionaria i limiti della proposta anarcosindacalista o pansindacalista si manifestano con maggiore evidenza. Il sindacato, individuato quale artefice di una rivoluzione vista sorelianamente come momento di rigenerazione morale della società e non come via per l'instaurazione di un diverso rapporto sociale, diviene bastante a se stesso; è nella lotta economica che automaticamente si genera la coscienza di classe, sono le contraddizioni economiche che portano inevitabilmente allo scontro finale; la lotta politica si riassume tutta e sola nella lotta economica, perché quest'ultima spontaneamente conduce alla dissoluzione violenta della società capitalistica(5). Queste impostazioni sono evidenti nei Labriola e nei De Ambris, ma non sono che le conseguenze, tradotte in chiave marxista determinista, di elementi presenti anche nella componente anarchica e nell'anarcosindacalismo francese.

È proprio a questa concezione spontaneistica della rivoluzione che si oppongono Malatesta e Fabbri; ma mentre per Malatesta pesano i limiti suaccennati di un anarchismo umanitaristico e non sempre lucidamente classista e di un retaggio volontaristico insurrezionalista, Fabbri più lucidamente vede le tare dell'anarcosindacalismo, pur senza perdere il concetto della centralità politica della classe e quindi del sindacato quale luogo di azione principale, e non contingente e temporalmente limitato, dei militanti anarchici: "[...] gli anarchici partecipano alla lotta delle classi sfruttate contro il capitalismo, per l'abbattimento del suo potere e per la sua totale espropriazione"(6), perché "le masse operaie [...] per se stesse non costituiscono una forza creatrice [...]. Ciò potranno essere intanto che gli individui che le compongono si evolvono coscientemente anarchici e la propaganda anarchica sviluppa in essi e aumenta le tendenze libertarie."(7) Anche questo punto è importante: mentre per Malatesta la constatazione del riformismo delle masse, l'insufficienza della lotta economica a creare coscienza rivoluzionaria di classe, porta a privilegiare il lavoro di "partito", per Fabbri la stessa constatazione porta alla concezione di un sindacato naturalmente riformista, che viene condotto passo passo allo scontro tramite l'azione degli anarchici al suo interno, in modo da garantire che le masse arrivino al momento della rivoluzione in grado di essere artefici del proprio destino. Ciò comporta due interessanti conseguenze: la prima è che gli anarchici necessitano di una loro organizzazione politica per sviluppare la loro azione all'interno delle masse, e l'altra è che, perché ciò avvenga, non è necessario costruirsi il sindacato con gli elementi più coscienti, già pronti a recepire le idee anarchiche, ma anzi è molto più fruttuoso confrontarsi con una "[…] organizzazione sindacale aperta a tutti i lavoratori, e pertanto, senza un programma ideologico determinato, nel cui seno gli anarchici esercitano la propria funzione di animatori e propulsori nel senso libertario."(8) Così si ottiene non solo lo scopo di non limitare l'influenza dell'azione degli anarchici a coloro che sono già disponibili a recepire le loro idee, ma anche quello di condurre omogeneamente e coscientemente tutte le masse allo scontro con il capitalismo.

L'ultimo punto rappresenta il secondo ostacolo teorico affrontato dall'anarcosindacalismo, il sindacato rivoluzionario in contrapposizione all'unità di classe. In effetti, a parte la CGT e la CNT, tutte le altre organizzazioni anarcosindacaliste rappresentano più o meno fortunate fratture dell'originaria struttura unitaria sindacale. Anche questo fu evidenziato e criticato da Fabbri fin dalla costituzione dell'USI(9). In generale, che senso ha farsi un'organizzazione di massa fiancheggiatrice dell'organizzazione politica, in quanto ne condivide già scopi e mezzi, visto che tra le due esisterà una "[...] differenza che nell'atto pratico non potrebbe essere precisata, poiché nulla può stabilire il grado di anarchismo della prima in comparazione della seconda"(10)?

Più coerentemente si sono mossi gli anarchici argentini, che con la costituzione della FORA hanno sancito l'identità tra organizzazione politica e sindacato, contrapponendo all'unità di classe la compattezza ideologica di organizzazioni operaie tutte costituite da anarchici. Il caso della FORA è un caso estremo, in cui le debolezze teoriche dell'anarcosindacalismo emergono con maggiore evidenza. Il conflitto fra organizzazione di massa che basta a se stessa ed organizzazione politica viene risolto a favore di un'organizzazione di massa che coincide con l'organizzazione politica, sacrificando definitivamente l'unità di classe.

Poiché è tipico di qualsiasi concezione anarchica il concetto dell'autogestione sociale seguente al sovvertimento del sistema capitalistico, principio che prevede una rivoluzione autogestita da un proletariato cosciente ed unito, in grado di emarginare nuovi tentativi di costituzione di sistemi di sfruttamento, la speranza di una visione come quella della FORA (da cui non si discostano i moderni tentativi di ricostituire l'USI in Italia od altri sindacati "libertari" in altri paesi) è che il proletariato finisca per entrare in grande maggioranza nel sindacato rivoluzionario, alla constatazione che quello riformista non tutela i suoi interessi. Ma a ben guardare questa concezione non è poi tanto lontana da quella iniziale della CGT del sindacato che basta a se stesso. Infatti lo strumento di aggregazione del proletariato che si evolve dalla condizione di classe sfruttata verso la coscienza di questo sfruttamento e della sua origine, non è il partito leninista come nella concezione bordighista, ma il sindacato. Abbiamo detto più sopra che organizzazione di massa ed organizzazione politica finiscono per non distinguersi o per coincidere come nella FORA, ma questo è vero solo relativamente alla composizione: entrambe infatti sono formate solo ed esclusivamente da militanti proletari libertari. Ma se in questo caso i due strumenti hanno la stessa base militante, questo non vuoi dire che la scelta dell'uno o dell'altro sia indifferente; infatti i campi di azione sono diversi: l'organizzazione politica (quella bordighista in particolare) è il centro dell'elaborazione e della programmazione dello scontro di classe; il sindacato fa solo la lotta economica ed il fatto che questa lotta sia legata ai bisogni, come in un'organizzazione di massa quale quella delineata da Fabbri, o mediata dalla coscienza libertaria dei militanti, come nel caso della FORA, non cambia molto la sostanza. Resta al fondo l'idea che la lotta economica basti a se stessa per generare coscienza di classe.

Così, mentre Fabbri vede l'esigenza dell'organizzazione politica anarchica che affianca l'azione degli anarchici all'interno di un'organizzazione di massa senza bandiere, dalla CGT alla FORA quest'esigenza viene negata. È un fatto storico che, contrariamente a quanto pensava Monatte, l'esercizio delle lotte economiche senza un progetto strategico preciso, non solo non porta ad elevare il grado di coscienza del proletariato unito, ma persino il "sindacato libertario" smarrisce nel quotidiano il progetto rivoluzionario, che rimane pura pretesa verbale. Così la CGT torna in mano ai riformisti, così sindacati libertari storici, come la SAC svedese, dopo quarant'anni di socialdemocrazia, sono scivolati in un piatto riformismo.

Discorso a parte merita l'esperienza della CNT-FAI in Spagna(11). Circostanze di particolare riuscita hanno occultato i problemi di fondo, che però sono impietosamente emersi più volte. A ben guardare, infatti, il dualismo organizzativo in Spagna nasce con gli stessi vizi di origine visti. La CNT rappresenta una divisione ideologica del proletariato spagnolo, priva di un'organizzazione politica. Il fatto che essa divenisse ben presto l'organizzazione sindacale maggioritaria, e quindi a buon diritto l'organizzazione di massa della classe sfruttata in Spagna, non cancella la tara di origine di sindacato nato libertario. È così che la FAI nasce non come momento di coordinamento e progettazione dei comunisti anarchici all'interno del lavoro di massa, ma per contrastare la tendenza della CNT allo spostamento da posizioni rivoluzionarie a posizioni riformiste, tendenza che non ci sorprende visto quanto detto sopra(12). La FAI diviene così non tanto l'organizzazione politica dei comunisti anarchici, quanto la struttura di controllo sulla CNT ad opera di militanti inseriti ai vertici dell'organizzazione sindacale. Quanto detto non vuol riproporre sterili accuse di "dirigentismo" o di "politicantismo" della FAI, usate in chiave antiorganizzatrice; è un fatto, comunque, che la FAI, nata con i vizi di origine suddetti, ha spesso guidato la CNT in dannosi tentativi insurrezionali, evidenziando una concezione della Confederazione quale proprio sindacato.

Alla luce di quanto detto finora dovrebbero risultare evidenti, da un lato le forme storiche dell'anarcosindacalismo e dall'altro il giudizio dei comunisti anarchici. La storia ha senso quale meditazione atta a correggere gli errori del passato: le esperienze fatte sono tesori di informazioni. Così la posizione dei comunisti anarchici non si appiattisce su nessuna di quelle viste, anche se ritrova nelle pagine di Luigi Fabbri i suggerimenti più proficui. Rifiutando cioè l'impostazione dell'anarcosindacalismo come quella dell'esistenza del sindacato libertario orientato, in quanto ai comunisti anarchici interessa interagire con tutto il proletariato, qualunque sia il suo livello di coscienza di classe, perché si vuole che sia poi esso ad operare la propria emancipazione, rifiutando l'impostazione del sindacato quale unica organizzazione, in quanto prevede un automatismo tra lotta economica e coscienza di classe più affine al determinismo marxista, i comunisti anarchici scelgono di lavorare nelle organizzazioni che il proletariato si dà, indifferenti al controllo riformista su di queste. Per i comunisti anarchici anarcosindacalismo è la pratica della lotta economica quotidiana in mezzo ai lavoratori da strappare alla tutela riformista, grazie ad un progetto strategico che è l'organizzazione politica a possedere.

I tentativi di ricostruire oggi l'USI in Italia, non solo annaspano, nelle varie ipotesi, in tutti gli errori del passato, ma ancora di più rappresentano l'incapacità di gruppi politici minoritari di confrontarsi con le masse. Il riformismo delle OO.SS. è un ostacolo che va affrontato e non può essere evitato con inutili ed inesistenti scorciatoie.

 

1.4. Strategia dei comunisti anarchici

La conseguenza dell'analisi precedente è la necessità, per i comunisti anarchici, di lavorare e di essere presenti laddove sono organizzati i lavoratori e, quindi, ove ricorra questa circostanza, anche nei sindacati riformisti.

È indispensabile sottolineare che, quando parliamo di circostanze in cui nei sindacati riformisti siano presenti i lavoratori organizzati, intendiamo riferirci all'insieme di un territorio omogeneo per interessi economici, storici, etc. Quando in questo territorio non è presente un sindacato riformista, come potrebbe essere il caso di una nazione emergente, non è certo compito dei comunisti anarchici andare a costruirvelo, perché in quel caso è un po' come scrivere su di una pagina bianca. Il compito che può sembrare relativamente più facile, presenta le sue incognite, cioè problemi diversi ma ugualmente difficili da quelli che comporta agire in un paese dove il sindacato riformista è ben radicato nella stessa memoria di classe dei lavoratori come avviene, ad esempio, nei paesi capitalistici.

È proprio per questo che, guardando alla nostra realtà, è alla lunga privo di sbocchi costruire aggregati di lavoratori esterni al sindacato riformista in un paese od in una città siciliana, veneta, laziale, dove questo sindacato riformista per caso non sia presente, di fatto la Sicilia, il Veneto od il Lazio fanno parte e sono inseriti in un territorio per certi versi disomogeneo, ma legato da tutta una serie di fattori economico-politici e, quindi, ciò vorrebbe dire costruire qualcosa di isolato e privo di sbocchi concreti.

Tutto questo potrebbe apparire a prima vista estremamente pragmatico, ed avente come obiettivo un entrismo nel sindacato destinato ad avere come risultato l'appiattimento delle avanguardie sulla strategia riformista; secondo noi tutto questo deriva invece da un'analisi materialistica della realtà e della storia. Ma andiamo con ordine.

Il sindacato è sorto come reazione naturale di difesa delle condizioni del proletariato e, quindi, in periodi diversi del XIX° secolo nei diversi paesi a seconda dello stadio di sviluppo delle rispettive economie. Ha rappresentato quindi, anche nella sua forma di aggregazione più elementare, un notevole passo avanti della classe operaia, perché ha posto le basi per la sua unione.

Il superamento delle contraddizioni più stridenti nella condizione del proletariato, contraddizioni dovute allo sviluppo del capitalismo nella sua prima fase, ha man mano esaltato l'intrinseca natura riformista del sindacato, preso come organizzazione a sé stante, ed ha portato al suo adattamento nell'ambito del sistema capitalistico, di cui anzi è divenuto col tempo - ed in momenti differenti a seconda delle condizioni di sviluppo dei paesi - un elemento di stabilizzazione sociale che contribuisce ad elevarne i livelli produttivi.

Tutto ciò fu facilitato dal formarsi di strati di aristocrazia operaia che sotto la guida dei partiti socialdemocratici, finirono per divenire una delle basi di sostegno del nascente imperialismo. Questa involuzione, pur avendo le sue basi strutturali nella forma specifica dei rapporti di produzione che si vennero a determinare negli Stati capitalistici a seguito della seconda rivoluzione industriale, fu agevolata ed anzi resa possibile dal ruolo negativo svolto dai partiti socialdemocratici aderenti alla IIa Internazionale. La subordinazione dei sindacati riformisti alla logica imperialista degli Stati fu messa in evidenza dalla Ia Guerra Mondiale, in cui essi divennero uno dei sostegni fondamentali dei rispettivi imperialismi, negando ogni forma di internazionalismo ed anzi organizzando (pur con le dovute eccezioni) la produzione a sostegno della macchina bellica.

Uguale funzione di sostegno, anche se con una storia ed una collocazione diversa, hanno sviluppato i burocratizzati ed asserviti sindacati dell'Europa dell'Est e, per altro verso, quei sindacati creati dall'alto ed appositamente in funzione di controllo, nei paesi del Terzo Mondo.

Questo sviluppo nella collocazione del sindacato non è certo stato e non sarà lineare, proprio perché esso è legato alle contraddizioni del sistema produttivo basato sul profitto e quindi non può che risentire dei contraccolpi provocati dalle crisi, siano esse determinate da ristrutturazioni o da conflitti intercapitalistici. Inoltre è necessario sottolineare e ribadire che, se l'integrazione del sindacato trova ragioni nel processo produttivo stesso, è anche vero che essa è facilitata da scelte politiche proprie dei riformisti. Tutto questo mette ancor più in evidenza la necessità della presenza nelle organizzazioni di massa delle avanguardie comuniste anarchiche organizzate politicamente.

Questa impostazione di lavoro politico, ora delineata, nasce dalla convinzione non spontaneistica, quindi non fatalistica, che il sindacato come organizzazione di massa, in quanto tale, non possa fare la rivoluzione e realizzare il comunismo anarchico anche se si dice rivoluzionario; credere ciò sarebbe come credere all'inessenzialità delle avanguardie, in una visione puramente deterministica dell'evento rivoluzionario.

Rimane l'acquisizione che la rivoluzione sociale e la società futura saranno opera, per loro stessa definizione, delle masse organizzate; nei comunisti anarchici non si verifica alcun fenomeno di sostituzione nei confronti della classe: i protagonisti della loro emancipazione devono essere i proletari stessi, che saranno cresciuti anche sperimentando forme di organizzazione diverse da quelle prospettate dai riformisti, se la società deve essere costruzione autonoma e cosciente della classe.

Il ruolo dell'organizzazione politica comunista anarchica resta però fondamentale ed insostituibile, quale levatrice della coscienza di classe, quale enzima della rivoluzione sociale. Per i comunisti anarchici, che pur riconoscendo la necessità che l'organizzazione di massa debba da sola farsi carico della lotta economica e della lotta politica, non esiste alcun automatismo tra classe e coscienza di classe, tra rivendicazioni e distruzione del sistema economico e sociale capitalistico. Il passaggio e la crescita che il sindacato deve fare tra questi due poli è compito inalienabile dell'organizzazione politica comunista anarchica, che lo rende possibile in virtù della presenza qualificata dei suoi militanti all'interno dell'organizzazione di massa e non in virtù di inaccettabili deleghe.

È allora evidente che - essendo la lotta di classe insopprimibile perché è insita nella presenza stessa di proletari e padroni e, quindi, nei loro interessi contrapposti - continuando ad esistere spazi creati dalle contraddizioni stesse del capitalismo, i comunisti anarchici vi si debbano inserire (con tattiche adeguate al momento ed al luogo) per tentare di allargarle.

Anche nei momenti storici in cui i proletari sembrano sposare, ed anzi avere, gli stessi interessi dei loro padroni, questi spazi, seppur ridotti, continuano ad esistere; sta ai comunisti anarchici saperli individuare ed adattarsi a svilupparli tenendo conto che la storia non ha ritmi e tempi paragonabili a quelli con i quali l'uomo è abituato a fare i conti. In ogni caso continua quindi ad esistere una contraddizione tra i capi sindacali integrati e le masse operaie sindacalizzate che possono essere influenzate in senso rivoluzionario.

Non vedere questa contraddizione significa credere il proletariato sostegno oggettivo del sistema, da cui consegue l'inutilità della lotta per strappare le masse all'influenza delle burocrazie sindacali. Da ciò derivano anche delle conseguenze nell'individuazione dei soggetti politici referenti; così, nel momento in cui si accetta che la classe operaia è impermeabile a qualsiasi progetto alternativo al sistema vigente, si cerca automaticamente di trovare un altro referente che può essere individuato, di volta in volta, negli studenti, negli emarginati, etc.

Occorre però individuare i settori e non scambiare per rivoluzionari aggregati che si distinguono solo per la durezza delle posizioni, e non per la loro collocazione di classe. Questo per due motivi: il primo è tattico, ed è che troppo facile sarebbe per i riformisti, a questo punto, criminalizzare ed espellere dalla dinamica dello scontro di classe tali strati; il secondo, teorico, è che la nostra scelta per la centralità proletaria non è dettata dalla "coscienza rivoluzionaria" della classe operaia, nel qual caso saremmo disponibili a sostituirla con la "centralità studentesca" se questi ultimi esprimessero maggiore attitudine rivoluzionaria, ma dalla convinzione che la rivoluzione deve coinvolgere le strutture produttive e dalla consapevolezza della centralità dell'organizzazione economica nella strutturazione di qualsiasi società, che pone la necessità della rottura del rapporti di produzione capitalistici; non è quindi il grado di disaffezione al sistema, tipico di molti strati piccolo-borghesi sotto pressione, che è il parametro fondamentale per lo sviluppo di una coscienza rivoluzionaria, ma la collocazione all'interno dei rapporti di produzione.

Per tutti questi motivi c'è la necessità inderogabile di intervenire laddove si trova il proletariato organizzato e non organizzato, per renderlo tale; una scelta diversa significa l'abbandono delle masse operaie all'influenza delle burocrazie sindacali. Tutto ciò ovviamente sempre nell'ipotesi di organizzazioni di massa costituite su base volontaria e non coatta come avviene in vari regimi totalitari.

L'intervento dei comunisti anarchici si sviluppa essenzialmente per favorire la creazione dell'unità di classe intesa come il ricomporsi dei vari settori del proletariato sulla base dei propri interessi materiali e su obiettivi che, di fatto, vadano in senso opposto alla logica del capitalismo.

Questo per il semplice motivo che fa parte del nostro bagaglio teorico irrinunciabile la consapevolezza che solo la classe potrà fare e gestire la rivoluzione, e nessuna minoranza o frazione o parte di essa potrà fare ciò nell'"interesse" di tutto il proletariato.

Da tale discriminante discende che l'organizzazione politica comunista anarchica interviene per creare tali condizioni ed è presente laddove l'unità di classe di base è operante, nella convinzione che solo su questo terreno è possibile costruire la rivoluzione sociale libertaria.

Per questo la necessità di intervenire dentro il sindacato non è dettata dall'illusione o dalla speranza di recuperare l'organizzazione sindacale, in quanto tale, ad un progetto rivoluzionario, ovverosia dal maggiore o minore riformismo della politica sindacale, ma solo dalla constatazione che il proletariato si riconosce nel sindacato. Laddove questo non avvenisse, come già affermato in precedenza, non vi sarebbe alcuna pregiudiziale all'intervento esterno alle strutture sindacali.

È proprio su di una linea che ricerchi correttamente lo sviluppo dell'unità di classe che dobbiamo fare alcune precisazioni. La prima deriva dal fatto che, indipendentemente dalle nostre posizioni, i riformisti provocano scissioni nei loro sindacati per interessi che non riguardano il proletariato. Ciò è dimostrato dalla sviluppo storico dei sindacati e dalla realtà attuale che vede in molti paesi la presenza di più organizzazioni riformiste e conservatrici che si combattono tra loro.

Una posizione molto diffusa è quella di pensare che, in questa situazione, la spaccatura esiste già e quindi può essere positiva la creazione di un altro sindacato su posizioni di classe; un'altra posizione è quella di scegliere, in questo caso, il sindacato che si avvicina di più a quello di classe o che ne conserva radici e caratteristiche. Secondo noi entrambe queste posizioni non solo sono sbagliate, ma hanno in comune la radice del loro errore. Se infatti andiamo a svilupparle, risulta evidente che ambedue partono dal presupposto di un sindacato che si distingue per le sue posizioni di classe ed attira su queste la parte avanzata del proletariato.

Come abbiamo già detto, le possibilità di uno sviluppo rivoluzionario delle masse, in senso autogestionario e libertario, sono legate al raggiungimento della loro unità prima ancora della loro radicalizzazione, perché sarà dal compattamento alla base dei lavoratori che prenderà forma l'organizzazione di massa autonoma ed autogestita, è per questo che la nostra scelta non cade sul sindacato che è "più di classe" di un altro. Questo non perché non sia evidente che esistono delle differenze fra i vari sindacati, ma perché - per quanto detto sull'unità di classe - la scelta non può essere quella di sviluppare ciò che è "meno peggio", ma bensì quella di promuovere l'unità di classe tra i lavoratori.

Non ci nascondiamo certo che nella nostra realtà italiana ci sono delle differenze sostanziali fra i tre sindacati riformisti ed è chiaro che il nostro lavoro trova spazi più ampi laddove c'è una concezione che affonda le sue radici in una tradizione di classe. Ma, se è vero che attualmente non esiste in Italia un'organizzazione di massa autonoma ed autogestita(13), è anche vero che spazi più ampi possono trovarsi in misura diversa a seconda del momento, del luogo, della situazione categoriale che ci troviamo di fronte(14).

Una seconda precisazione riguarda la scelta che alcuni fanno circa la costruzione di "correnti" o "componenti" rivoluzionarie, in generale, o anarchiche, in particolare, all'interno del sindacato. Questa posizione nasconde un errore di fondo, perché il costituirsi quale componente ideologica all'interno dell'organizzazione di massa non può che rappresentare un ostacolo rispetto al perseguimento dell'unità di classe, e nello stesso tempo nasconde un'insufficiente comprensione teorica del rapporto di dualismo organizzativo che intercorre, per i comunisti anarchici, tra organizzazione politica ed organizzazione di massa.

È evidente a questo punto che la strategia che proponiamo e che ha le sue radici in ben precise scelte teoriche, non può che essere generalizzabile ed allora non possiamo farci spaventare dal grado di riformismo del sindacato, o del sindacati, che ci troviamo di fronte.

Tutto questo non vuoi dire che la tattica non vada invece adeguata di volta in volta alla situazione che i militanti dell'organizzazione politica comunista anarchica si trovano ad affrontare, che cioè non si debba tener conto delle reali contraddizioni dovute al grado dello sviluppo economico di un paese e delle sue strutture.

Questo adeguamento tattico, necessario per poter calare la strategia nelle varie realtà, introduce anche il problema di collegamenti fra avanguardie che abbiano la necessità di coordinarsi dentro o fuori del sindacato, anche se questo problema sarà affrontato nella parte dedicata agli organismi intermedi(15).

Perché questa strategia possa essere articolata nella nostra realtà occorre però partire da un'analisi storica del sindacato in Italia, che tenga conto della fase attuale dello scontro di classe e delle prospettive di lotta, per trarne le necessarie indicazioni operative e verificare gli elementi teorici sul quali ci siamo fin qui mossi.

 

Note:

1. L. FABBRI, L'organizzazione operaia e l'anarchia, CP, Firenze 1975, p. 7.
2. G. CERRITO, Dall'insurrezionalismo alla settimana rossa, CP, Firenze 1977. Vedi anche: M. ANTONIOLl, Bakunin tra sindacalismo rivoluzionario ed anarchismo, in AA.VV., Bakunin cent'anni dopo, Atti del Convegno di studi bakuniniani, Ed. Antistato, Milano 1977, pp. 64-115.
3. M. ANTONIOLI (a cura di), Dibattito sul sindacalismo, CP, Firenze 1978.
4. Per il dibattito sulla "Piattaforma di Archinov" si veda l'appendice documentaria in G. CERRITO, Il ruolo dell'organizzazione anarchica, RL, Pistoia 1973, pp. 263-355.
5. Questo filone di pensiero è sopravvissuto fino ai giorni nostri, ripreso nella teorizzazione di Autonomia Operaia. Non deve ingannare l'attuale contrapposizione alla classe operaia: una volta constatata "l'incapacità" della classe operaia a fare la rivoluzione Autonomia Operaia ha creduto di individuare nuovi soggetti naturalmente antagonisti al sistema, sempre in una visione della rivoluzione come evento a sé stante e finalistico e non come mezzo per un nuovo ordine sociale.
6. L. FABBRI, Su un progetto di organizzazione anarchica, in "Il Martello" di New York, 17 e 24 settembre 1927; ora in G. CERRITO, Il ruolo ... cit., p. 322.
7. Ibidem, p. 321.
8. Ibidem, p, 322
9. Sulla nascita dell'USI scrive Fabbri: "Il movimento dell'Unione Sindacale, ebbe origine da una scissione del movimento operaio, provocata dalle male arti dei riformisti, ma praticamente attuata dagli allora detti sindacalisti. Fu un errore, secondo chi scrive queste righe, ma ormai è cosa fatta e non c'è che da accomodarsi meglio che si può al fatto compiuto e troppo radicato nella realtà. Infatti più volte si è deliberato dai dissidenti di ritornare in seno alla Confederazione del Lavoro, ma le masse che se ne erano distaccate non ne hanno mai voluto sapere. Però la scissione quella volta ebbe carattere nazionale e non locale; i suoi danni non si avvertirono troppo. In ogni località la maggioranza operaia decideva se aderire alla Confederazione o all'Unione Sindacale; e la minoranza accettava la deliberazione, per non scindere localmente le masse. Ma i riformisti della Confederazione, dopo breve tempo, accortisi che località per località perdevano terreno, provocarono e fecero direttamente di propria iniziativa la scissione nelle singole località anche dove erano minoranza. Prima in una, poi in un'altra città, riuscirono a portare la scissione quasi ovunque. Sorse così, per reazione, nei compagni dell'Unione Sindacale la tendenza a fare essi altrettanto dove erano minoranza loro. Ma non credo che ciò sia stato fatto, se non in misura insignificante. Gli è che il sentimento unitario è assai più forte nei compagni anarchici e sindacalisti, che nei riformisti. Così si spiega in parte il fatto che in molte località gli anarchici sono rimasti nei quadri confederali; pur concorrendovi qua e là anche ragioni meno idealistiche e più accomodanti. Con tutto ciò, parecchi compagni continuano ad insistere perché tutti gli anarchici che ancora vi sono escano dalle organizzazioni confederali per entrare nelle sindacali. La loro propaganda è comprensibile e giustificata dall'agire dei dirigenti confederalisti, ma non può che restare pura e semplice propaganda, senza alcuna efficacia di imposizione su coloro che non ne vengono persuasi.
"Ciò non soltanto per le ragioni accennate più sopra, ma anche perché una tale imposizione urterebbe oltre che contro il sentimento anarchico contro lo spirito unitario, che è in realtà il più corrispondente alle necessità della rivoluzione. Se dovessi io dare un consiglio direi ai compagni che essi si astenessero sempre dal promuovere scissioni, nei sindacati, nelle Camere del Lavoro, ecc. cui appartengono, sia che essi siano sindacali e confederali.
" CATILINA (L. FABBRI), Anarchismo e azione sindacale, in "Umanità Nova" del 27 giugno 1920.
10. L. FABBRI, Su un progetto ... cit, p. 323.
11. La CNT, costituitasi nel 1910, diviene presto l'organizzazione di massa maggioritaria all'interno del movimento operaio spagnolo. Egemonizzata fin dall'inizio dagli anarcosindacalisti, nel Congresso del 1919 affermava esplicitamente che il proprio fine era quello dell'instaurazione del comunismo anarchico.
La FAI fu fondata nel 1927 con il proposito di strappare il controllo della CNT alle correnti ritenute moderate.
12. Lo scontro nella CNT tra i faisti, che avevano occupato tutti i posti chiave della Confederazione e la corrente eterogenea dei compagni che erano attestati su posizioni gradualiste, ma tacciati di riformismo, culminò nel 1932 con la pubblicazione del Manifesto dei "trentisti", dal numero dei noti militanti che lo avevano sottoscritto. Questi ultimi criticavano la logica insurrezionalista e spontaneista dei faisti, accusandoli di concezione catastrofica dell'azione rivoluzionaria, che da sola avrebbe dovuto provocare una nuova società.
Contro il "gioco alla rivolta" i trentisti definivano la rivoluzione come movimento che trascina le masse verso la liberazione e proponevano la preparazione rivoluzionaria con ordine e metodo rifuggendo da tentazioni avanguardiste.
13. Si veda il Capitolo II.
14. Così è evidente che, ad esempio, nei Pubblico Impiego gli spazi per portare avanti il nostro lavoro si possono trovare soprattutto nella CGIL, e ben difficilmente nelle altre due Confederazioni, in relazione alla loro caratterizzazione quali autentici sindacati gialli.
15. Si veda il Paragrafo III. 3.


II. Strategia sindacale dal 1945 al 1983

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