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Nucleare? No basta!

Saverio Craparo

 

Dopo una lunga e costante, anche se lieve, tendenza al ribasso, il prezzo del petrolio ha cominciato una fase prolungata di rialzi, al continuo inseguimento della lievitazione dei prezzi dei prodotti dell'industria manifatturiera: prima, dal 1973 al 1980, con bruschi e clamorosi incrementi in concomitanza di particolari congiunture di politica internazionale; poi, dal 1980 al 1985, come beneficio derivante dal continuo aumento del valore del dollaro sui mercati valutari. Nel 1985 la fase del prezzo crescente del petrolio, che tanto allarme aveva generato, ha subito un'inversione di tendenza non congiunturale, che deve essere analizzata e compresa al fine di collocare il problema delle fonti energetiche nel quadro della situazione economica che stiamo attraversando.

Il trascorrere del tempo ha rivelato inequivocabilmente la natura allarmistica ed infondata delle notizie relative ad un imminente esaurimento delle risorse mondiali di greggio, la cui origine è da ricercare nello studio del Club di Roma "I limiti dello sviluppo", ma la cui natura e motivazione politica trova fondamento nel bisogno di rendere competitive altre fonti energetiche in una prospettiva strategica tendente a ripristinare l'egemonia statunitense in via di rapido ridimensionamento. Si può paradossalmente affermare che i limiti maggiormente evidenti, più che allo sviluppo, inerivano alle analisi correnti in quegli anni, tutte basate su di un'estrapolazione acritica dei modelli vigenti all'epoca, che portavano fatalmente a divergenze esponenziali. Era lontano dalla consapevolezza degli "esperti" la possibilità di modelli di sviluppo differenti, più attenti ai modi di utilizzo delle fonti energetiche e centrati sui profondi cambiamenti delle tecniche produttive fortemente "energy saving".

E' così successo che i consumi petroliferi sono andati decrescendo, anche in presenza di accelerazioni produttive, che nuovi produttori si sono affacciati sul mercato (Gran Bretagna) o vecchi hanno teso ad espandere il proprio peso (URSS), che nuove fonti energetiche sono divenute competitive (carbone), di modo che, nonostante la costante depressione volontaria o coatta delle quote produttive dei paesi dell'OPEC, l'offerta è venuta vistosamente sopravanzando la richiesta, con crollo dei prezzi prima sul mercato spot e poi con lo scollamento totale del cartello dei paesi produttori, tradizionale centro di determinazione dei prezzi ufficiali.

I contraccolpi della nuova situazione saranno notevoli: da un lato la strategia imboccata dal capitalismo mondiale di commercializzazione di carbone incontrerà difficoltà sul piano della competitività, il che tenderà inevitabilmente ad aumentare le tensioni sul petrolio contribuendo a stabilizzarne i prezzi non troppo al ribasso. Dall'altro nuovi giacimenti, di recente sfruttamento perché divenuti competitivi, perderanno tale caratteristica fondamentale, deprimendo l'offerta e stabilizzando, anche in questo caso, al ribasso i prezzi (la Gran Bretagna già oggi spende più nell'estrazione del petrolio del Mare del Nord di quanto non spenderebbe nell'acquisto di altri paesi produttori, il che rappresenta un colpo mortale per la già compromessa economia britannica).

E', comunque, palese, ad oltre un decennio dalla prima crisi del petrolio, che quest'ultimo rappresenta l'elemento centrale di qualunque strategia energetica basata sul profitto, che la presunta alternativa nucleare più che a decollare tende a declinare. Nonostante i radiosi futuri prospettati dai cantori dell' "atomo di pace", i mastodontici programmi di nuclearizzazione varati alla metà degli anni '70 sono falliti: negli USA le ordinazioni di nuove centrali nucleari sono da anni quasi inesistenti; Gran Bretagna e RFT hanno costantemente rivisto al ribasso le proprie esigenze di impianti nucleari; persino il "tutto nucleare" francese incontra sempre maggiori difficoltà e minori adesioni entusiastiche. La Francia è rimasta l'unica (con l'Italia e Germania) l'unico paese a puntare ancora sui surgeneratori veloci (il Superphenix è entrato da poco in funzione) tecnologicamente immaturi e scientificamente superati, mentre le prospettive di una rapida realizzazione commerciale della fusione nucleare vanno sfumando in un futuro sempre più remoto.

In questo quadro il dibattito attuale sulle scelte nucleari italiane si configura sempre più fatalmente come una discussione subalterna in funzione di una scelta arretrata e di pura ricezione di impianti obsoleti privi di mercato internazionale, se si escludono i paesi del Terzo Mondo, dove spesso prevalgono scelte di tipo militare. In altri termini l'energia nucleare ha perso la propria presunta collocazione centrale nella strategia di ristrutturazione del capitalismo e nella strategia del controllo imperialistico statunitense, e si configura come merce di seconda categoria da vendere solo per la necessità di rientrare in termini economici nelle spese ingenti a suo tempo sostenute.

Se tramontano i miti negativi dello "Stato atomico" e perdono di significato i paventati legami tra energia nucleare e forme di centralizzazione, quasi militari, della società e della produzione, appare ancora più insensato accettare i costi economici, ambientali e di sicurezza di una scelta senza futuro, accolta solo in funzione di una ribadita sudditanza strategica del nostro paese.

La congiuntura economica

L'elemento caratterizzante della prima metà degli anni ottanta è il pieno ristabilimento dell'egemonia statunitense sul mondo occidentale e la crescita dell'influenza USA sui paesi del Terzo Mondo. Gli anni settanta sono stati invece percorsi da tentativi continui di ricostruire quell'egemonia che era venuta appannandosi alla fine del decennio precedente.

Come detto, solo negli ultimi cinque anni gli sforzi intrapresi sono stati coronati da un indubbio successo, basato non sulle mosse attivate in precedenza, di cui il ricatto energetico è stata la più clamorosa, quanto sulla riproposizione del dominio monetario e militare, ma con contraccolpi, profondi ed ancora in fase di evidenziazione, su altri tradizionali settori egemonici del capitalismo nord-americano, quali la tecnologia di punta, l'alimentare e la stessa credibilità del sistema economico, minato da un deficit commerciale senza precedenti.

Nella situazione economica determinatasi negli anni settanta, l'Italia ha goduto inizialmente di tre fattori positivi: una ristrutturazione produttiva precoce e profonda, che ha costretto sulla difensiva il movimento operaio, grazie al ricatto occupazionale e che ha reso agile la produzione, comprimendone anche i costi; un continuo deprezzamento della lira, che ha reso competitive le merci prodotte; ed infine un notevole elevamento degli standard tecnologici, che ha aperto nuovi e promettenti settori di mercato, esauriti i tradizionali mercati mediorientali per la loro crisi interna di approvvigionamento di valuta, unica prospettiva resta la collocazione in un mercato internazionale a tecnologia medio-alta, favorita dall'elevata dinamica delle forze produttive, grazie ad un modello affermatosi nel decennio scorso, basato sul decentramento e la parcellizzazione del ciclo.

In quest'ottica il controllo non può essere attuato con la centralizzazione di alcuni settori, quali quello energetico, ma può realizzarsi solo concentrando l'informazione. Se a questo si aggiunge che le nuove tecnologie sono a basso dispendio energetico, emerge con tutta chiarezza l'arretratezza della scelta nucleare, il cui sopravvivere, come detto, è da vedersi tutto all'interno di una subordinazione imperialistica.

La sinistra storica ed il nucleare

E' tanto già sconcertante, quindi, la posizione delle forze della sinistra storica e del sindacato sulla questione energetica, quanto più non sono in gioco modelli di sviluppo differenti, con l'implicita ed esplicita accettazione da parte loro di un modello tipicamente capitalistico, come potevano essere visti i termini del dibattito soltanto dieci anni fa.

Per la verità, mai il contrasto è stato tra l'accettazione di un modello capitalistico di sviluppo, fatto di centralizzazione e di sprechi, ed un modello alternativo, fatto di energie dolci ed un corretto rapporto uomo-natura, dato che dalle scelte energetiche non nasce la società socialista, ma viceversa solo nuovi rapporti di produzione legittimano scelte energetiche "diverse". Le scelte possibili allora erano tra modelli entrambi capitalistici, ma con ricadute profondamente diversificate sia a livello di impatto ambientale, sia a livello di rapporti sociali, sia, soprattutto, per ciò che concerne la "razionalità" economica, con i connessi problemi di sudditanza strategica di un paese come l'Italia.

Questa battaglia ha interessato la nuova sinistra (ed avrebbe dovuto interessare quella storica) soprattutto per i risvolti in essa impliciti di presa di coscienza dei legami profondi tra energia, scienza ed organizzazione sociale e quindi per la creazione di un movimento che divenisse in grado non solo di identificare l'irrazionalità della scelta nucleare, ma anche di demistificare la "presunta razionalità" delle scelte "alternative" all'interno del sistema di produzione capitalistico.

Ma oggi, abbiamo visto, l'opzione nucleare appare sempre più immotivabile all'interno di un qualsiasi modelli di sviluppo e l'adesione ad essa si configura non come l'accettazione erronea di un sistema il più estraneo possibile agli interessi delle classi subalterne, ma come la sottomissione ad un ricatto lontano da una qualsiasi logica, anche di tipo capitalistico.

E' sintomatico, ad esempio, che il PSI, dove più forti erano state le tentazioni antinucleari, fino alla proposta di moratoria a suo tempo avanzata, sia ora, in concomitanza con l'ingresso a Palazzo Chigi, senza ombre schierato sull'accettazione del PEN, mentre il PCI, allontanato dall'area del potere, mostra divaricazioni tra dirigenze nazionali e locali ancora proiettate verso l'assunzione di "atteggiamenti responsabili" e movimenti giovanili e di base orientati sempre più nettamente in senso antinucleare.

La posizione del sindacato

Discorso a parte merita il sindacato, dove tradizionalmente pià forti sono state le divisioni su questo tema. Caduti i miti occupazionali e palesatasi falsa l'equazione tra energia e sviluppo, la tematica antinucleare ha trovato nuovi spazi dentro il sindacato, non più, come un tempo, ai vertici della UIL allora critici ed ora schierati compattamente anche su questo a favore di Craxi, ma alla base e soprattutto nelle categorie industriali. E' per questo che nelle mozioni predisposte per l'XI Congresso Nazionale della CGIL esisteva la possibilità di opzione tra tesi nucleare e tesi antinucleare; ma, nonostante che la maggioranza della base si sia ovunque espressa per la tesi antinucleare, e che questo orientamento sia prevalso in moltissimi congressi camerali ed in molti congressi nazionali di categoria, la logica della burocrazia ha finito per prevalere, legando ancora una volta il sindacato ad una scelta sciagurata e dimostrando che l'apertura "democratica" era pura parvenza.

Occorre oggi ricompattare le forze, i movimenti sinceramente antinucleari, ma soprattutto contrari alla logica capitalistica dell'uso dell'energia, per demistificare fino in fondo la scelta nucleare in Italia e nel mondo, mettendo in luce il costante pericolo che grava sia per l'uso militare che per quello pacifico dell'energia nucleare.

Una proposta di lavoro

Occorre passare al contrattacco: rafforzare l'opposizione di massa al nucleare sì, ma sensibilizzare anche la gente sui rischi per la propria vita e la propria salute creati dalle lavorazioni adottate in molti altri settori produttivi, e dall'organizzazione stessa della produzione e della vita quotidiana.

I rischi ambientali ormai sono ad un livello impressionante. I rischi da radioattività vanno a sommarsi a molti altri derivanti dal degrado dell'ambiente terrestre globale: "dalle piogge acide alla diossina che distrugge le nostre foreste modificando drasticamente il microclima; al costante aumento dell'anidride carbonica nell'atmosfera, che comporta un aumento globale della temperatura sulla crosta terrestre. Nel solo 1984 ad esempio, i prodotti della combustione del carbone, del petrolio e del gas hanno liberato qualcosa come cinque miliardi di tonnellate di carbonio nell'aria che respiriamo e il clima terrestre tende ad un continuo peggioramento". (G. Quintarelli, dell'Istituto Nazionale dei Tumori e della Lega Italiana per la lotta contro i tumori, "Tep" 18.5.86)


Cosa è successo a Chernobyl?, Antonio Politi

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