LA DEMOCRAZIA DI BASE NEL MOVIMENTO DEI LAVORATORI

Passato e futuro degli organismi di fabbrica e territoriali del sindacato in relazione alla struttura dei processi produttivi

di Saverio Craparo

(in "Homo Sapiens - Materiali della sinistra libertaria" n° 4, Bari 1988)

 

1. PREMESSA

L'inizio del 1984 ha visto crescere rapidamente e, per certi versi, inaspettatamente un movimento di lotta di notevole estensione e determinatezza. Era da oltre un decennio che masse di lavoratori non si muovevano al di fuori delle direttive sindacali e che non producevano, nelle punte più consapevoli, una linea organica di proposte, evidenziando in particolare i limiti della gestione verticistica delle Confederazioni (carta della democrazia di Brescia). Ma con la stessa rapidità con cui era sbocciato, il movimento degli autoconvocati è scomparso, ed il fatto che schemi di ragionamento e di gestione sindacale antecedenti al 14 febbraio si siano riaffermati dopo la tempesta pressoché intatti rende necessaria una riflessione strategica sul ruolo attuale e futuro dei CdF. Appaiono infatti evidenti fattori contrastanti. Da un lato la positività del fatto che l'insofferenza operaia nei confronti della linea di continui cedimenti, inaugurata ufficialmente dalle OO.SS. alla conferenza dell'EUR, abbia trovato un autonomo spazio di manovra, cosa che non era mai riuscita in occasioni precedenti, anche se nel corso degli anni precedenti è possibile rintracciare una stratificazione di esperienze di opposizione via via più organizzate, senza la quale i fatti della primavera del 1984 risultano inspiegabili; e questa autonomia di manovra trova la sanzione ufficiale nella rincorsa cui fu costretta la CGIL. La vicenda fu tanto più positiva quanto più profondamente la si metta in relazione proprio ai problemi dei "rapporti unitari": infatti, al di là delle retoriche confederali, la sostanziale rimessa in discussione della linea dell'EUR è un potente fattore di coesione tra i lavoratori; proprio perché forse più che una politica costituzionalmente cedevole, la strategia delle compatibilità, prefigurando un ruolo diverso del sindacato (divisione tra i lavoratori della quota complessiva contrattata), un rapporto conflittuale tra le categorie ed all'interno delle categorie stesse tra i singoli lavoratori (professionalità) ed in sostanza uno sgretolamento dell'unità di classe, rappresenta in realtà un'opzione apertamente padronale nel movimento sindacale. D'altronde è proprio nelle vicende legate al taglio della scala mobile che sono da rintracciare le prime incrinature di quei "rapporti unitari confederali", gabbia burocratica di una reale spinta all'unità dei bisogni dei lavoratori, la cui prima libera estrinsecazione è comunque da individuare non negli ambienti operai, ma nelle lotte recenti di alcune categorie del pubblico impiego.

Dall'altro lato non può sfuggire ad una valutazione critica e responsabile la preoccupazione per l'estrema velocità con cui la CGIL ha stroncato il movimento degli autoconvocati, recuperandone in modo distorto le istanze e cooptando le forze, inizialmente liberate, apparentemente in una logica di cambiamento, ma nella sostanza quale peso da far valere in una nuova fase di mediazioni all'interno dei "rapporti unitari" tra Confederazioni e con le controparti. Se parte di questo progetto è totalmente fallito, perché proprio questo tentativo di incanalare forze spontaneamente dirompenti dentro gli ambiti delle mediazioni istituzionali ha segnato l'inizio della profonda crisi delle Confederazioni, crisi sempre più accelerata, d'altra parte verità innegabile il successo rapido e momentaneamente indolore della cooptazione del movimento all'interno di logiche preesistenti. Da quel momento infatti il disagio dei lavoratori nei confronti della politica sindacale prende altre forme dalle fisionomie ancora poco chiare e che comunque necessitano esami ed indagini attente, valutazione che per essere solidamente fondata deve essere costruita su di una indagine che ponga tale ruolo in rapporto ad un'analisi della struttura produttiva e della sua evoluzione.

Se si vuole infatti capire la matrice strutturale della debolezza mostrata in quella fase dai coordinamenti spontanei che non volevano, è vero, essere strutture di un sindacato alternativo, ma neppure volevano rifluire all'interno di logiche precostituite di gestione rinunciando ai propri principi ispiratori, per capire questa debolezza la strada dell'investigazione della funzione oggettiva delle strutture di democrazia di base all'interno di una certa organizzazione della produzione è l'unica che consenta di giungere a conclusioni sensate, al di là degli ideologismi e che consenta altresì la costruzione di una linea strategica dei comunisti anarchici.

Poiché, inoltre, i Cdf sono comparsi nella storia del movimento operaio in momenti e situazioni produttive e sociali profondamente diversi, l'analisi proposta ha un senso e può dare indicazioni positive per il futuro, solo se di queste variegate apparizioni si individuano tratti comuni e demarcazioni reali, collegando gli aspetti permanenti e quelli mutevoli al perdurare ed al trasformarsi dei fattori strutturali, per dare oggi indicazioni credibili sulla eventuale vitalità di ognuno di essi.

 

2. STORIA DEL LAVORO E CONSIGLI DI FABBRICA

 

2.1 Periodizzazione della storia della prestazione lavorativa

E' ormai scontata la periodizzazione della storia del lavoro operaio in tre momenti distinti, che è opportuno richiamare brevemente come schema di riferimento all'analisi da sviluppare.

Il primo periodo è quello che intercorre tra la prima rivoluzione industriale e l'avvento della taylorizzazione, ed è contraddistinto dall'esistenza del "mestiere" di operaio: l'operaio si presenta sul mercato del lavoro come portatore di una abilità lavorativa acquisita con l'esperienza e l'apprendistato; è di questa capacità che necessita l'industria ed è questa competenza professionale che viene pagata e che rende possibile una contrattazione da posizioni di forza relativa per la classe operaia, o meglio per il singolo operaio. E' l'epoca in cui nel panorama del movimento operaio dominano figure mitiche di mestieri sindacalizzati: prima i tipografi e poi, con la seconda rivoluzione industriale e l'avvento dell'industria elettromeccanica e meccanica, i tornitori.

Il secondo periodo è quello compreso tra l'introduzione della taylorizzazione e la fase apertasi negli anni settanta, che potremmo definire, come già si tende a fare, "terza rivoluzione industriale": l'operaio di mestiere tende a scomparire per cedere il posto all'"operaio massa", che si presenta sul mercato del lavoro solo con la propria forza lavoro che viene applicata al processo produttivo proprio nella sua veste meno qualificata. L'organizzazione scientifica del lavoro scompone il mestiere operaio in mansioni e separa l'esecuzione dalla progettazione, concentrata nell'ufficio studi. L'operaio di linea opera una prestazione dequalificata, per cui centrale diviene il tempo di lavoro e non i contenuti dello stesso, ogni operazione viene scomposta in movimenti elementari di cui viene rigorosamente quantificata la durata dell'esecuzione. Emergono quali nuclei centrali del movimento operaio le "categorie" ed in particolare i metalmeccanici.

Il terzo periodo è quello in corso, tutto da definire e da analizzare: l'informatizzazione dei processi produttivi e soprattutto degli aspetti gestionali sia della produzione sia della società, cambia ancora una volta le modalità di erogazione della prestazione lavorativa in un senso che deve essere tuttora compreso. L'individuazione delle linee portanti della ristrutturazione in atto, della rivoluzione informatica, o almeno di quelle tendenze che appaiono emergere dagli attuali contorni indefiniti e sulle quali si può ragionevolmente operare un investimento politico, è essenziale ai fini della definizione, che qui interessa, del ruolo e delle caratteristiche che devono assumere gli strumenti di democrazia di base al suo interno.

A tal fine, quello cioè di profilare i connotati degli organismi di democrazia diretta dei lavoratori nella fase cui andiamo incontro, sono perciò individuabili alcuni invarianti di tendenza già operanti e così riassumibili:

  1. decentramento produttivo e concentrazione gestionale;
  2. controllo flessibile della produzione in fabbrica e nell'intero ciclo produttivo non più concentrato in una singola unità aziendale;
  3. ulteriore dequalificazione della prestazione lavorativa, con abbassamento dei valori conoscitivi professionali richiesti all'ingresso, maggiore disponibilità al cambiamento di mansione in relazione alla rapida obsolescenza tecnologica, restringimento della quota professionale dovuta all'esperienza lavorativa;
  4. omogeneizzazione delle prestazioni lavorative che tende a superare le tradizionali distinzioni tra lavoro operaio e lavoro impiegatizio.

Non è scopo di questo lavoro entrare nel merito di questi rapidi accenni, per cui le tendenze individuate vengono nel seguito assunte per valide, rimandando per una loro discussione ad analisi specifiche (1). Vale però la pena soffermarsi brevemente su due cose. La prima è che, sempre, quando si fanno nella storia delle periodizzazioni le linee di demarcazione si presentano tutt'altro che nette: anche quando sistemi organizzativi di una fase sono dati per affermati, sopravvivono quelli relativi alla fase precedente in una rilevanza non certo marginale. La seconda è che le epoche di transizione sono differenziate da paese a paese, come pure lo sono le modalità specifiche.

Discorso a parte merita l'estensione del taylorismo. E' un fatto che l'organizzazione scientifica del lavoro, per sua natura, si è estesa solo alle grandi aziende e non in tutti i settori produttivi. All'inizio degli anni settanta la grande industria occupava in Italia il 20% della forza lavoro operaia, e da tutto ciò si potrebbe dedurre una perifericità del taylorismo come struttura dell'organizzazione produttiva. In realtà la sua penetrazione come filosofia e come metodo dell'organizzazione del lavoro, sia come applicazione di parziale parcellizzazione delle mansioni, sia come utilizzo di macchine che incorporavano i suoi principi basilari, tanto nella media quanto nella piccola azienda, va molto al di là delle cifre suaccennate, di modo da farne concretamente il sistema dominante, pur in presenza non del tutto secondaria della sopravvivenza dei "vecchi mestieri".

 

2.2 I CdF come organismi di base insostituibili

Abbiamo già visto che i CdF si sono presentati nella storia del movimento operaio in periodi diversi, e più precisamente nelle diverse fasi precedentemente accennate, mantenendo costanti alcune caratteristiche e variandone altre. Per prima cosa ci soffermeremo sulle strutture invarianti, che sono di tale genere da renderli organismi insostituibili per una reale democrazia di base dei lavoratori. Due mi paiono essere questi invarianti strutturali: l'elezione si scheda bianca dei delegati di parte del "gruppo omogeneo" composto da lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati; la revocabilità dei delegati in qualsiasi momento. Va da sé che queste caratteristiche, a causa della loro "scarsa compatibilità" con una struttura sindacale che si vuole eterodeterminata dal politico, nella sua prevalenza sia rivoluzionaria che di controllo riformista, hanno avuto vita difficile e contrastata. Per la verità tra i due poli, nonostante pretese affermazioni in contrario, ha sempre prevalso quello del controllo di una base non riducibile alle istanze di una strategia estranea ai bisogni espressi, e questo anche nella Russia del 1917-1918 nel rapporto tra Comitati di fabbrica e PCR(b) (2)

E' comunque sintomatico della rispondenza di questi organismi alle esigenze dei lavoratori il fatto che a distanza di mezzo secolo essi si presentino con formule simili; e ciò è attribuibile, a mio avviso, più che alla memoria di classe o alla mitica "vecchia talpa", all'inesistenza di alternative concrete laddove la democrazia di base dei lavoratori debba realmente esprimersi. Se da un lato, comunque, l'elezione dei delegati da parte del gruppo omogeneo, tutto da definire all'interno della contingente organizzazione del lavoro, risponde ad una norma elementare di democrazia che si combina con l'esigenza della revocabilità, la caratteristica scardinante rispetto alle tradizionali concezioni del sindacato è l'individuazione dell'elettorato attivo e passivo nell'intera base operaia, indipendentemente dal possesso di tessere di organizzazioni sindacali. E' infatti individuabile in quest'aspetto il nodo che fa dei CdF non solo l'organismo principe della democrazia di base dei lavoratori, ma anche e soprattutto il luogo privilegiato e unico dell'unità di classe, il luogo in cui le divisioni ideologiche e politiche trovano il terreno appropriato di confronto.

Questo mi sembra realmente importante, perché proprio in base a questo si può affermare che le lotte della primavera scorsa erano l'affermazione dell'unità, e ne erano invece la negazione le "ricomposizioni unitarie" tra componenti e Confederazioni, sulla cui assenza si è soffermata con insistenza e rimpianto l'azione della terza componente della CGIL che fa capo ad Antonio Lettieri. Nei fatti, appunto l'unità che si può costruire all'interno dei CdF non è qualcosa che sta al di sotto, come livello di coscienza, all'unità che è ottenibile nel confronto fra le Confederazioni, in quanto sarebbe la negazione dell'ideologia e quindi segnerebbe tutta l'incapacità di inserire l'azione in un piano strategico che le conferisca dignità politica. Infatti l'ideologia non è negata, ma assunta come termine di confronto all'interno della risoluzione di problemi reali posti nell'unico luogo in cui lo scontro di classe concretamente si sviluppa: la produzione.

Questo è il parametro efficace di valutazione delle ideologie, in cui esse possono mostrare funzionalità ed inadeguatezze, forza propositiva ed interpretativa da un lato e dall'altro sclerosi e staticità, mentre elevando la presunta "politicità" del confronto esse si cristallizzano in visioni del mondo inconfrontabili, congelandosi burocraticamente in rapporti di forza presunti e fruttificando mediazioni inservibili, se non per la perpetuazione dello status quo ed, in ultima analisi, per l'arretramento della coscienza di classe.

Nel caso citato della terza componente il meccanismo che gioca a difesa delle mediazioni di vertice non è certo la distorta difesa dell'ideologia, ché anzi una delle sue bandiere è l'assenza di impostazioni ideologiche, ma la convergenza su posizioni di conservazione dei metodi di formazione delle decisioni trova motivazioni diverse: l'assenza di un luogo di dibattito per i suoi componenti fuori dal sindacato, da cui consegue una verticalizzazione incontrollabile dei processi decisionali, con conseguente veicolazione di linee strategiche dal centro alla periferia, che, per non avere momenti di dibattito certi né metodi di trasmissione definiti (spesso sono affidate ad interviste dei leader a giornali o sindacali o della sinistra), non sono altro che indicazioni e suggerimenti a cui si aderisce spontaneamente; in questo quadro l'identità del gruppo non trova altra sostanza che l'occupazione dei posti dirigenti e quindi esso identifica la propria esistenza solo nella propria legittimazione come componente.

Le discriminanti politiche su cui la componente è nata la portano ad esaltare il ruolo dei Consigli, ma nel contempo al suo interno essa non trova identità, il che comporta nella pratica una delimitazione del ruolo degli organismi di base, tramite da un lato un'autonomia vincolata alle politiche strategiche in altre sedi decise (3), e dall'altro un depauperamento degli elementi più coscienti a favore degli organismi esecutivi confederali, che permette il perpetuarsi della componente stessa.

 

2.3 I CdF come stadio maturo dell'organizzazione operaia

Se l'individuazione delle costanti storiche dei CdF è utile, ciò che interessa ai fini dell'analisi intrapresa è l'investigazione delle caratteristiche mutevoli, perché queste sono tutt'altro che marginali, anzi sono quelle che rendono utilizzabili in fasi strutturalmente diversificate organismi validi solo in linea di principio. Sono proprio queste caratteristiche variabili che ci permettono di parlare di "riscoperta" dei CdF a distanza di mezzo secolo e non di semplice "riproposizione" di uno strumento obsoleto; e sono ancora esse che aprono la strada ad una ulteriore riflessione.

Per ben due volte, nel 1920 e nel 1969, i CdF si sono ripresentati sulla scena del movimento operaio nel culmine di una ben precisa modalità storica dell'organizzazione del lavoro. Si può affermare allora che i Consigli rappresentano la struttura organizzativa di base che i lavoratori giungono a darsi nel momento in cui si sono perfettamente appropriati del processo produttivo esistente, nel momento cioè in cui la classe operaia, modellata completamente da un determinato ciclo lavorativo, prende coscienza del fatto che esso non è ineluttabile. Proprio per questo ho parlato di "culmine", perché è dall'affacciarsi dei Consigli nel panorama organizzativo della classe, la struttura della produzione entra in rapida obsolescenza, in quanto i lavoratori divengono in grado di negare gli aspetti specifici del funzionamento, riassumendo il potere di una contrattazione offensiva e poi la capacità di opporre un'alternativa globale.

I CdF sono quindi lo stadio maturo dell'organizzazione operaia all'interno di uno dei periodi suaccennati, poiché rappresentano a tempo stesso l'inizio di una reale presa di coscienza da parte della classe ed il sorgere dell'esigenza da parte del padronato di cambiare le regole del gioco per sopravvivere. Ovviamente, sia detto per inciso, questo è solo uno degli aspetti determinanti delle ristrutturazioni capitalistiche, in quanto esse coincidono anche con l'esaurirsi di determinati modelli di accumulazione; ma la coincidenza storica di questi fattori pone un'ipoteca interessante sul nesso possibile tra organizzazione del lavoro e macromodello di accumulazione ed, in ultima analisi, tra rottura delle relazioni industriali e crisi di ristrutturazione, rilanciando la contraddizione di classe come perno dell'instabilità capitalistica, ben più profondo delle contraddizioni presenti nei meccanismi di formazione del profitto.

Quanto detto sembra però in contrasto con gli eventi da cui hanno preso avvio le considerazioni, in cui i CdF sono stati protagonisti di una stagione di lotte all'avvio di una fase di ristrutturazione ancora ben lontana dal concludersi, e di conseguenza in presenza di una classe operaia sulla difensiva in attesa di assestarsi all'interno del nuovo modello produttivo. Sono proprio considerazioni di tal genere che iniziano a fornire una prima risposta alla domanda posta all'inizio, circa le ragioni del rapido scomparire del movimento degli autoconvocati. Una risposta più ampia ed articolata cercherò di darla al termine di questo lavoro: a questo punto è possibile solo abbozzare delle linee di analisi. I CdF, centro dell'iniziativa della primavera, non rappresentavano il sorgere di strutture nuove della classe operaia nel pieno della ristrutturazione capitalistica in atto, ma solo gli organismi sopravvissuti al precedente ciclo di lotte, legati alla fase di accumulazione antecedente il nuovo modello organizzativo.

Se da un lato, quindi, è comprensibile la tenacia con cui la classe operaia ha tenuto in vita questi organismi, unico baluardo di difesa del proprio ruolo politico all'interno di una linea strategica confederale che ha il suo asse per l'appunto nell'espropriazione di questo ruolo, dall'altro la nuova realtà produttiva li ha resi incapaci di costruire un'alternativa duratura, organizzativa e strategica, per la classe nel suo complesso. Al di là del rappresentare, cioè, la comparsa delle strutture adatte ad una nuova fase di lotte, il movimento degli autoconvocati ha rappresentato il canto del cigno di strutture legate ad un'altra fase storica ormai superata.

Per ricostruire una strategia di classe alternativa in grado di incidere sulla struttura produttiva che si viene determinando, è necessario "reinventare" dei Consigli, delle strutture di democrazia di base del movimento operaio, che, senza rinunciare a quelle caratteristiche storicamente invariate che ne fanno strumenti insostituibili, siano in grado di operare positivamente all'interno dei nuovi processi di produzione. Come detto, il senso compiuto delle affermazioni che precedono sarà chiaro solo al termine di un'analisi dettagliata delle manifestazioni storiche reali dei CdF e della nuova struttura dell'organizzazione del lavoro all'interno della rivoluzione informatica.

 

3. IL PRIMO DOPOGUERRA

3.1 I CdF e l'autogestione

Nella crisi complessiva del sistema capitalistico seguita in Europa alla prima guerra mondiale, il movimento dei Consigli si sviluppa poderosamente e contemporaneamente in molti paesi. Come già detto, il tipo di classe operaia artefice di questa stagione è quella di "mestiere". Questa semplice constatazione ha due grosse conseguenze. La prima è che il Consiglio diviene, per sua natura, lo strumento di controllo complessivo sull'intero ciclo di produttivo, grazie alla sommatoria che in esso può avvenire delle conoscenze dei singoli spezzoni di lavorazione da parte dei singoli operai; è per questo che automaticamente il Consiglio si pone quale organo di "autogestione", passando attraverso le mediazioni del "controllo" sulla produzione e dell'eventuale abbandono (volontario o coatto) dell'azienda da parte del padrone o dell'espropriazione o occupazione di essa.

L'autogestione è quindi lo sbocco pressoché obbligato e diretto dell'azione dei Consigli dal momento in cui essi, differenziandosi dalle precedenti tipologie di organizzazione operaia aziendale, abbandonano il semplice terreno della contrattazione giornaliera in fabbrica. E' la forma organizzativa stessa, già discussa, che conduce i CdF sulla strada dell'allargamento progressivo delle proprie competenze, in una visione espansiva del proprio ruolo sul terreno sindacale e politico, proprio perché, rovesciando i termini, questa nuova strutturazione per "commissari di reparto" è frutto di una crescita delle esigenze della classe operaia, che non possono più limitarsi alla gestione economica aziendale degli accordi col padronato.

La seconda conseguenza è che l'operaio delegato, il "commissario di reparto", entra nel CdF già fornito di un ragguardevole bagaglio politico: sono le avanguardie di fabbrica quelle che costituiscono i Consigli, perché esse riscuotono la fiducia dei lavoratori; ma proprio perché avanguardie storiche sono anche portatrici di radicate posizioni ideologiche. Se questo, come già rilevato, favorisce il confronto sui temi concreti, concorrendo alla creazione di un'unità reale, sulle cose da fare ha però altri riflessi. In sé funzioni sindacali e funzioni politiche contemporaneamente. Se questo, da un lato, nel momento dell'incalzare degli eventi e della lotta di classe accelera la presa di coscienza rivoluzionaria in senso autogestionario, ponendo subito il Consiglio come frammento elementare della nuova struttura sociale post-rivoluzionaria, dall'altra rende ibridi i rapporti tra esso e le strutture storiche preesistenti e consolidate della classe: il sindacato ed il partito.

Il sindacato, ancora organizzato per mestieri, ed il partito affondano profondamente nella coscienza operaia quali strumenti di identificazione sia nella propria qualità di forza lavoro professionalizzata da un lato, sia, dall'altro, in quella di cittadini della nuova società. E' sintomatico che i CdF, strutture cellulari della società comunista, nella consapevolezza dei protagonisti più attenti, non divengano mai strutture base di organismi antagonisti ai sindacati; vi è, semmai, collateralità e distinzione dei compiti, anche se poi i compiti del sindacato restano quanto mai vaghi e incerti. (4)

Analogamente per quanto riguarda il partito, nei confronti del quale permane una delega, non totale e quindi in grado di giustificare tentennamenti e distacchi, ma pur sempre una delega.

E' così che il ruolo dei CdF, in teoria, riassuntivo, non si dispiega mai in senso tutto sindacale e tutto politico, e dalla tendenziale assunzione al proprio interno dei compiti complessi inerenti all'intera costruzione e gestione sociale, ripiega nel confinamento aziendale, delegando ad altri la conduzione più generale della lotta e della società. Qui forse sta uno dei germi del fallimento cui va incontro il movimento dei CdF, sia laddove la rivoluzione è sconfitta dalla reazione, sia dove, inizialmente trionfante, rapidamente ricade sotto una nuova forma di espropriazione, senza ovviamente voler negare altre e forse più importanti cause: la stanchezza di un decennio di dure lotte, con l'intervento bellico che ha fortemente provato soprattutto le classi subalterne; l'inadeguatezza delle direzioni riformiste e la scarsa capacità politica di quelle minoritarie rivoluzionarie; il crescere politico ed organizzativo dell'antagonista di classe, che avvia strutture proprie di coordinamento dell'azione e nuovi strumenti di gestione economica della crisi e dell'organizzazione del lavoro, che ne sono il supporto ideologico; ed infine il ruolo che può aver giocato il tradizionale attaccamento dell'operaio di mestiere al proprio lavoro, che se da un lato volge orgogliosamente verso l'autogestione, dall'altro scivola mestamente nella cogestione.

3.2 Il panorama internazionale

E' un fatto estremamente significativo che l'esperienza consiliare trovi realizzazione quasi contemporanea in molti paesi nell'arco di pochi anni. Se, senza dubbio, ha giocato un ruolo in questa simultaneità di eventi un fenomeno di imitazione o di semplice propagazione di proposte, è, comunque, anche evidente che la struttura Consiglio si impone per forza intrinseca di aderenza alle esigenze presenti nella classe operaia, altrimenti non si riuscirebbe a comprendere la vastità e profondità del movimento ed anche alcune cronologie non troverebbero spiegazione. Infatti, se da un lato è palese il carattere di impostazione dei Consigli nella rivoluzione ungherese di Bela Kun, tanto è vero che l'esperienza ha incontrato grosse difficoltà di penetrazione, dall'altro già prima della rivoluzione russa del 1917 il movimento degli Shop-Stewards Committees nel Clyde viene assumendo le caratteristiche proprie più sopra delineate.

In Italia, in particolare, è facile constatare come la propaganda sovietista abbia sì iniziato un dibattito fecondo, ma abbia soprattutto trovato terreno fertile nella sentita inadeguatezza, da parte dei lavoratori, delle vecchie Commissioni Interne, di modo che la nascita dei Consigli nella Torino del 1919 è un miscuglio di spontaneità delle masse e di progettualità delle avanguardie.

Esistono delle circostanze che accomunano tutte le vicende in campo internazionale e che forniscono, quindi, delle giustificazioni plausibili della contemporaneità dei movimenti consiliari. Dalla Russia all'Inghilterra, dall'Italia all'Ungheria, dovunque, i Consigli si sono sviluppati nei settori più avanzati della produzione industriale: nella Ruhr ed a Berlino in Germania, nelle industrie belliche in Inghilterra, nelle industrie meccaniche in Italia, nella sola capitale in Ungheria ed inizialmente nelle concentrazioni operaie in Russia. Tutto ciò a riprova del legame intimo tra Consigli operai e struttura dell'organizzazione del lavoro, e più precisamente del loro essere punto di arrivo della presa di coscienza della classe operaia del ciclo produttivo.

Non è un caso, ad esempio, che il socialismo austriaco, pur dominando a Vienna, non abbia avuto se non un timido accenno di movimento consiliare, a riprova della natura prevalentemente "terziaria" della capitale dell'impero. Parallelamente, infatti, il movimento consiliare stenta a propagarsi alle campagne, incontrando anzi in Russia ed in Ungheria soprattutto un'opposizione nel settore agricolo, a dimostrazione, ancora una volta, del suo carattere tipicamente industriale, del suo legame cioè con il ciclo produttivo aziendale, che ne misura tutta la distanza dal modello della "Comune", organo più di gestione delle risorse, che di organizzazione della produzione, legato al mondo contadino. Il non essere riusciti a legare queste due forme di autogestione delle classi subalterne ha costituito uno dei limiti dei movimenti rivoluzionari del primo dopoguerra; anzi la mancata comprensione della loro necessaria complementarietà ha segnato il fallimento dell'esperienza ungherese e l'involuzione di quella russa verso il "socialismo di guerra". In Italia i movimenti industriale e delle campagne si sono mossi spesso in coincidenza temporale, ma con scarsa reciproca interazione, mentre sono ancora le campagne che hanno contribuito all'isolamento materiale della "Comune di Monaco di Baviera" e dell'effimero esperimento viennese.

Il caso inglese è per natura un fenomeno estremamente localizzato, seppure fortemente significativo dal punto di vista strutturale ed organizzativo, in quanto è forse l'unico (se si esclude ovviamente la Russia) in cui si sia spontaneamente andati verso forme di coordinamento territoriale dei Consigli.

La Russia, comunque, rimane l'esperienza più studiata, come pure, forse, la meno compresa. E' forse opportuno soffermarsi un po' su di essa per chiarire alcune questioni non secondarie, prima fra tutte la distinzione tra Soviet e Comitati di Fabbrica. Si è detto Comitati e non Consigli sia per una distinzione terminologica storicamente effettiva, visto che Soviet in russo significa proprio Consiglio, ma anche e soprattutto per una questione di sostanza: non a caso Gramsci distinguerà i due termini ed insisterà per chiamare quelli italiani Consigli. (5)

Mentre, infatti, i Comitati di Fabbrica rispondono ai tratti precedentemente delineati, i Soviet sono veri e propri parlamenti proletari, che si distinguono da quelli borghesi (non piccola distinzione) solo per l'individuazione dell'elettorato attivo e passivo, individuato solo tra coloro che vivono senza sfruttare in alcun modo il lavoro altrui. Sono quindi organismi territoriali in cui non sussiste alcun riflesso della struttura dell'organizzazione del lavoro ed anche se, in linea di principio, in essi vige la perpetua revocabilità dei delegati, questa viene nella sostanza vanificata dal mancato contatto quotidiano tra delegato e deleganti, che si realizza invece naturalmente nella struttura per Commissari di reparto o delegati di gruppo omogeneo.

I due organismi convivono parallelamente nella rivoluzione del 1917 (nel 1905 esistevano solo i Soviet) e questo ha teso a marginalizzare l'esperienza dei Comitati all'interno della fabbrica riducendone la funzione al solo controllo della produzione su piani predeterminati in sedi del tutto esterne (il Soviet Supremo dell'Economia nazionale). I Comitati, in quanto tali, non avevano rappresentanza nei Soviet e gli stessi lavoratori eleggevano i due organismi con diverse modalità. E' evidente che i Soviet, come struttura erano più facilmente egemonizzabili da un partito di quadri esterno alla classe, e per questo tendenzialmente i Comitati di Fabbrica hanno tenuto sempre minore capacità decisionale, fino alla loro totale evirazione con la nomina di buona parte di loro membri da parte di organismi superiori (6).

3.3 Il dibattito italiano

Di fronte al movimento consiliare il marxismo, nel suo complesso, si presenta impreparato se si esclude la terna Lenin, Luxemburg, Gramsci, sui quali è opportuna una riflessione più specifica. E' un fatto, comunque, che la parte maggioritaria dei marxisti di formazione secondointernazionalista è incapace di comprendere il fenomeno, quando non lo avversa decisamente e militarmente, come Scheidemann e Noske in Germania; e ciò non può che essere messo in relazione con la lunga pratica istituzionale e politica, che ha spostato l'interesse dei partiti socialdemocratici dal terreno della lotta economica giudicata secondaria, al terreno amministrativo-elettorale.

E' così evidente l'estraneità del marxismo al nuovo movimento dei lavoratori, che nuovi filoni di pensiero devono nascere al suo interno per adeguarsi alla sua realtà. Infatti Lenin trova non poca opposizione all'interno dello stesso partito bolscevico per fare accettare la parola d'ordine "tutto il potere ai Soviet!" nell'aprile del 1917, a riprova del profondo ribaltamento di vedute che egli viene operando, senza voler entrare nel merito della strumentalità tutta tattica di questa nuova impostazione leninista, che ha comunque lontane origini nell'esperienza del 1905; è da rilevare, comunque, che sempre i bolscevichi parleranno di Soviet, tendendo a trascurare volutamente i Comitati di Fabbrica.

Dove l'indirizzo teorico e strategico cambia notevolmente è nella sinistra marxista tedesca, cui può essere fatto risalire il filone consiliarista (Luxemburg, Leibkenecht, Pannekoek, Ruehle, Gorter), che elabora sulla base dell'esperienza consiliare, una nuova impostazione politica che coniuga coerentemente il più sfrenato determinismo economico con la centralità rivoluzionaria dello spontaneismo delle masse, negando ogni ruolo al partito.

In Italia, in assenza di una corrente marxista rivoluzionaria che potesse seguire il percorso dei consiliaristi tedeschi, assenza dovuta al disfacimento della componente sindacalista rivoluzionaria operata dall'interventismo, la bandiera dei CdF fu alzata da Gramsci e dal gruppo raccolto attorno a "L'Ordine Nuovo" di Torino. Il Partito Socialista infatti è, nelle sue correnti storiche, nella sostanza estraneo alla tematica consiliare. Si va dalla netta contrapposizione dei riformisti (Turati, Treves) e dei dirigenti confederali (D'Aragona, Buozzi) all'accettazione puramente verbale dei massimalisti (Serrati, Bombacci), che nel Congresso di Bologna dell'ottobre 1919 propongono e votano una mozione per la creazione dei Soviet in Italia, cui non verrà dato alcun seguito pratico.

La distinzione tra l'economicismo dei Consigli di Fabbrica , in contrapposizione agli organi politici che sono i Soviet, terreno naturale di lavoro del nascente Partito Comunista, è il tema centrale della polemica che la sinistra astensionista di Bordiga, buon conoscitore dei meccanismi della rivoluzione russa, intreccia dalle pagine del "Soviet" con il gruppo de "L'Ordine Nuovo". Bordiga non esclude la validità dell'intervento nei CdF (ed alcuni esponenti astensionisti, come Parodi, saranno al centro dell'attività del movimento consiliare torinese), ma ne limita drasticamente la portata e gli sbocchi, negando sulla base dell'esperienza leninista e di una rigida ortodossia, la loro funzione di base della nuova organizzazione sociale post-rivoluzionaria.

Come già detto, l'unico assertore della centralità dei CdF sia nel compito di preparazione della rivoluzione, sia nel ruolo di ricostruzione della società comunista, è in campo marxista Antonio Gramsci. Mentre, però, in alcune fasi della polemica i CdF hanno per Gramsci il ruolo totalizzante suddetto, in altri la tipica indeterminazione dei rapporti fra questi organismi di base ed i sindacati affiora, anzi proprio questa sarà il motivo della presa di distanza dal gruppo di Angelo Tasca, il quale vedeva un rapporto di subordinazione netta. In contrapposizione Gramsci scivola su posizioni "anarchiche", senza però operare il salto verso una nuova concezione del sindacato: in sostanza, il gruppo de "L'Ordine Nuovo", pur criticando ferocemente le vecchie organizzazioni sindacali, perché rappresentanti del salariato e quindi dell'operaio come prodotto dell'ordine borghese, non elaborerà mai una nuova visione complessiva del sindacato, tanto è vero che nella stessa Torino i CdF non costituiranno mai una struttura di raccordo stabile in grado di contrapporre la propria volontà a quella confederale. C'è, è vero, un tentativo ci convocare una conferenza dei delegati di tutta Italia, firmata anche dal gruppo Libertario di Torino, ma esso cadrà nel vuoto.

Altra grave carenza del gruppo comunista torinese è quella del rapporto con il Partito, cui prima si disinteressa, poi in realtà delega la gestione politica complessiva degli eventi, in perfetta consonanza con le tesi della neonata Terza Internazionale. Questa delega arriva fino all'inazione nel settembre del 1920, quando Togliatti, interpellato quale segretario del PSI torinese, si rifiuta di prendersi la responsabilità di iniziare l'insurrezione, come richiestogli dalla Direzione Nazionale, e Terracini, membro di quella Direzione, non si oppone all'abdicazione del Partito a dirigere la lotta iniziata con l'occupazione della fabbriche, in favore dei riformisti della CGdL.

In sostanza, la concezione del ruolo dei CdF del gruppo de "L'Ordine Nuovo", pur affascinante e per certi versi profetico, assomma i vizi di tutte le indecisioni a suo tempo individuate, costituendo un esempio emblematico delle confusioni teoriche che il marxismo attraversa se pretende di coniugare al suo interno gli strumenti di democrazia di base dei lavoratori, senza adagiarsi nello spontaneismo luxemburghista da un lato o dall'altro sul giacobinismo leninista e bordighiano.

In contrapposizione alle tensioni teoriche che i CdF provocano in campo marxista, in campo libertario, e comunista anarchico in particolare, essi si inseriscono naturalmente, come nuovi e più adatti strumenti, sia di crescita della lotta di classe, sia come organismo elementare dell'autogestione post-rivoluzionaria. In tutti i paesi i Consigli vedono la rapida ed entusiastica partecipazione degli anarchici al loro interno e la loro naturale assunzione nel bagaglio politico delle organizzazioni quali elementi centrali e non certo secondari. I CdF, per natura organismi di autogestione delle lotte e della società, si inglobano senza difficoltà alcuna nelle teorie anarchiche dell'azione diretta e del comunismo autogestionario. Ma anche nella concezione degli anarchici esistono dei limiti: e questi non sono tanto quelli individuabili nell'enunciazione di Garino, che enfatizza il ruolo rivoluzionario dei CdF, ma mette in guardia sui pericoli di cogestione che essi presentano in fase di riflusso della lotta di classe, pericolo reale, visto quanto detto sul rapporto tra operaio di mestiere ed il proprio lavoro, ma che non si presenta solo nei CdF, quanto in tutte le organizzazioni di resistenza dei lavoratori.

I limiti reali, e che hanno pesato proprio nella situazione "prerivoluzionaria" del settembre 1920, risiedono nella sottovalutazione delle difficoltà di generalizzazione dei CdF quali strumenti specifici della classe operaia di mestiere e quindi della necessità di approntare strumenti collaterali, soprattutto per il movimento bracciantile, di modo da non farli esistere solo come momenti puramente solidaristici. D'altra parte l'operaio di mestiere nella sua ambivalenza poteva sì costituire il fulcro dell'azione rivoluzionaria, ma poteva anche costituirsi come autentica "aristocrazia operaia", ed in questo, e non nei CdF in quanto struttura, va individuato il pericolo di cogestione indicato dagli anarchici.

A questi limiti palesi c'è da aggiungere una concezione riduttiva del ruolo unitario dei CdF all'interno della classe, ruolo che se non viene negato esplicitamente, anzi a parole viene enfatizzato, non doveva essere realmente assunto con convinzione quale potente fattore di coesione: ne sono riprova le titubanze mostrate dagli anarchici nelle giornate cruciali dell'occupazione delle fabbriche, titubanze che li portarono a non prendere l'iniziativa e ad attendere le decisioni del PSI e della CGdL.

 

4. I NUOVI CONSIGLI DI FABBRICA

4.1 I CdF come riscoperta autonoma della classe

Dopo una parziale eclisse di mezzo secolo il tema consiliare si ripresenta con forza trainante nelle lotte del 1969-1972. In campo internazionale si era verificata la tardiva, ma interessante, esperienza spagnola; tardiva rispetto al ciclo precedentemente esaminato, ma ancora tutta interna alla fase precedente dell'organizzazione del lavoro, anche per ritardi strutturali del capitalismo iberico. Altra breve parentesi di un certo rilievo nell'Italia del secondo dopoguerra, anche se tale da non incidere profondamente e da non lasciare tracce rilevanti. A differenza del precedente, questo nuovo irrompere del consiliarismo all'interno del movimento operaio ha un carattere estremamente localizzato all'Italia. Esistono anche esperienze in Francia, ma queste non sono in grado di apportare mutamenti duraturi nella prassi sindacale e per di più, nei casi più noti ed emblematici (Lip), sembrano maggiormente legate alla nota sopravvivenza di certe fasce di mestiere operaio.

La particolarità del caso nazionale non va ricercata tanto in elementi strutturali, ché anzi la "crisi" in cui si dibatte il capitalismo italiano non è unica, ma elemento di un più vasto esaurirsi di un modello di accumulazione, quanto nelle peculiarità del movimento operaio, che, pur nelle contraddizioni, mantiene un'autonomia rispetto alle istituzioni borghesi, inimmaginabile in altri paesi. E' a ragione di questo che la viscosità che le classi lavoratrici iniziano ad opporre al funzionamento del capitalismo keynesiano, che qua e là assume anche caratteristiche traumatiche ma di breve respiro, pur costituendo elemento spia della fine di un sistema di rapporti economici e sociali ed anzi in gran parte agente attivo delle "crisi" e dell'innesco di processi di revisione a livello internazionale, solo in Italia acquista la capacità di produrre strumenti concreti di antagonismo non episodico ed epidermico. E' a questo punto che l'analisi si restringe solo all'esperienza italiana, per cercare di trarne le conseguenze qui utilizzabili in futuro.

Ancora una volta, comunque, come già detto, i CdF si presentano al culmine di una fase di sviluppo del capitalismo e nella veste di suoi agenti patogeni e dissolutori. E' però interessante notare che essi vengono reinventati dalla classe operaia praticamente dal nulla, se si eccettuano le teorizzazioni di piccole avanguardie, significative sì, ma non tali da spiegare, come già nell'occasione precedente, la presa immediata e generalizzata che i Consigli fanno del corpo vasto e composto della classe operaia. Ed è ancora più interessante, per i fini preposti all'analisi, constatare come tale reinvenzione nella sostanza autonoma lasci inalterate alcune caratteristiche, quelle individuate come invarianti storiche, perché rispondenti a criteri fondamentali di democrazia di base, andandone a mutare altre nella direzione dell'adattamento degli strumenti di lotta alle mutate condizioni strutturali ed alle nuove forme di organizzazione del lavoro che regolano la prestazione lavorativa.

E' infatti quasi sorprendente, per limitarsi al primo dei due aspetti, come con naturalezza si ripresentino al dibattito e nella pratica le esigenze fondamentali che fanno dei Consigli lo strumento ideale ed insostituibile della democrazia di base del movimento dei lavoratori: l'elezione su scheda bianca da parte di iscritti e non iscritti al sindacato, e la delega del gruppo omogeneo. Questo secondo aspetto merita una riflessione più attenta, perché è in grado di qualificare inequivocabilmente il discorso più volte avanzato sulla democrazia di base. Infatti la delega del gruppo omogeneo, che ricompare nella fase tayloristica dell'organizzazione del lavoro, non è più inquadrabile come risposta speculare del mestiere operaio all'organizzazione capitalistica del lavoro, al tempo stesso forza della comprensione totale del ciclo produttivo e limite corporativo; essa può solo, a questo punto, essere inquadrata come la naturale esigenza di un controllo diretto ed immediato, quotidiano e dialettico, tra deleganti e delegato, accomunati da una medesima condizione di lavoro. E' proprio grazie a questo aspetto che il concetto di gruppo omogeneo può sopravvivere al "mestiere", ripresentandosi in una validità che travalica le differenze strutturali derivanti dalle variazioni dell'organizzazione del lavoro.

4.2 Il CdF come collettivo di sintesi

Le differenze strutturali apportate all'organizzazione del lavoro dall'avvento del taylorismo comportano, come detto, delle mutazioni nel ruolo dei CdF. Il singolo operaio, non più di mestiere, non è più portatore all'interno del Consiglio di un bagaglio conoscitivo concernente una fase complessa del ciclo produttivo. La separazione tra "intelligenza" della programmazione ed operazione parcellizzata rende impossibile la ricostruzione del ciclo produttivo in quanto sommatoria di mestieri, come mezzo secolo prima, ma neppure come sequenza di azioni elementari attribuite ai singoli lavoratori. E' solo l'ufficio studi che possiede per intero la chiave di interpretazione in grado di collocare ogni mansione all'interno della programmazione complessiva. Se in una fabbrica metalmeccanica è possibile ai lavoratori ricostruire la successione degli atti necessari all'ottenimento del prodotto finito, senza per altro essere in grado di stabilire automaticamente, anche se collettivamente, quali di essi siano essenziali e quali accessori, oppure comprendere l'oggettività o meno della successione stessa, laddove il progresso scientifico penetra più profondamente nella produzione anche l'operazione parcellare non trova collocazione in alcuna sequenza ricostruibile ed essa stessa perde ogni significato per una classe operaia privata di ogni cultura di mestiere: si pensi, ad esempio, al ciclo produttivo di una azienda chimica.

In sostanza, la scomparsa del "mestiere" operaio, con la conseguente separazione tra progettazione ed esecuzione, rende inattuabile una ricostruzione del processo di produzione nelle sue varie fasi, a partire da una semplice giustapposizione all'interno dei Consigli delle varie mansioni lavorative, od anche della sommatoria delle ricostruzioni delle trasformazioni complessive che il prodotto subisce nei vari reparti. I compiti che i CdF vengono ad assumere nella nuova situazione sono quindi ben diversi: la ricostruzione del ciclo produttivo e la riappropriazione da parte operaia delle conoscenze ormai alienate non è più compito automatico derivante dalla semplice presenza al loro interno dei delegati dei singoli reparti. Il Consiglio diviene allora luogo di una sintesi superiore, che riassume le conoscenze presenti tra i lavoratori dell'azienda, ma da questa base parte per riconquistare un livello di sapere che non esiste più e che diviene frutto di un grosso lavoro di ricerca. (7).

E' grazie a quest'aspetto che i CdF divengono nei primi anni settanta, il centro di una "scienza alternativa", mitizzata come controproposta operaia alla "scienza borghese", che gioca il suo ruolo nella direzione aziendale e sociale. In realtà, non di una "scienza proletaria" si tratta, ma della ricostruzione all'interno degli organismi operai di una conoscenza non più patrimonio naturale della classe, ricostruzione che essendo ovviamente di parte è atta a mettere in luce, quale meccanico contrappeso, gli aspetti partigiani della scienza ufficiale, le sue inadeguatezze per un uso diverso da quello per cui è stata concepita, la sua subalternità, nel metodo e nel contenuto, ai rapporti sociali all'interno dei quali si è sviluppata.

E', d'altra parte, questa tensione ad una riappropriazione di conoscenze ormai maturate all'esterno della classe, questa tendenza ad una loro ricomposizione critica all'interno degli organismi di base dei lavoratori che rende particolarmente fecondo l'incontro che avviene in quegli anni tra i Consigli ed i movimenti intellettuali e studenteschi. La saldatura di questi momenti diversi dello scontro di classe in Italia, avvenuta con una vastità mai precedentemente verificatasi, si spiega proprio a partire dalle considerazioni suesposte: da un lato la classe operaia necessita di un apporto esterno per operare il proprio compito di sintesi in virtù dell'inadeguatezza delle conoscenze consentitegli dall'organizzazione scientifica del lavoro, dall'altro i ceti intellettuali e studenteschi, scossi dall'erosione di privilegi secolari, cercano un diverso perno per la propria azione di ricerca, che gli permetta una critica complessiva di una scienza che di per sé non è più in grado di fornire risposte alle perdite di ruolo che vengono verificandosi.

La scollatura di interessi tra ceti dominanti e ceti intellettuali rende ragione del carattere di massa del movimento studentesco, in contrasto con la forma individuale in cui la trasmutazione di classe ha avuto luogo sempre precedentemente. Comunque, la ricettività operaia a determinate tematiche ha reso possibile un connubio di classe per certi aspetti duraturo, fungendo da volano ad un movimento di ceti medi di per sé destinato a breve vita, come dimostrano gli analoghi esempi francesi e tedeschi. Il recupero delle classi dominanti, non a caso, batterà la strada della ricostruzione di privilegi effimeri, ma non per tutti, grazie al ricatto occupazionale; e ciò per scindere, oltre al fronte operai-intellettuali, quello interno stesso degli intellettuali, mentre un attacco massiccio ai livelli di vita, combinato con una nuova profonda ristrutturazione, costringerà sulla difensiva la classe operaia, ripiegandola su problemi basilari, lontani dalla riappropriazione del sapere. Non è strano, quindi, che il nuovo moto studentesco del 1977, non trovi orecchie attente, da un lato, ripiegando in un antioperaismo privo di sbocchi, e dall'altro resti minoritario, segnando nel tempo una rapida involuzione ed una pressoché totale scomparsa come movimento di massa.

4.3 Il CdF come collettivo di elaborazione

In funzione di questo ruolo non puramente ricettivo i CdF assumono, in maniera più marcata, la veste di organismi dirigenti della classe operaia. E' in questo quadro, infatti, che la parola d'ordine di un "Sindacato dei Consigli" prende consistenza ed apre la via ad un concreto e reale rinnovamento del sindacato che non lascia inalterate le sue strutture, ma che pone in discussione la stratificazione gerarchica storicamente tradizionale. Il fatto che quest'operazione non abbia mosso che passi incerti in breve tempo vanificati, non toglie che mai come in questo periodo è divenuta coscienza di massa e proposta politica coerente la necessità di una revisione totale dei meccanismi decisionali all'interno delle organizzazioni sindacali, revisione che poneva al centro di ogni innovazione la centralità dei CdF come strumenti al tempo stesso di elaborazione e di decisione delle linee strategiche del sindacato, in un ribaltamento sia delle consolidate prassi di trasmissione degli orientamenti dal centro alla periferia, sia della logica stessa di un ceto "sindacalista" professionista e stratega delle lotte rivendicative dei lavoratori.

Per capire fino in fondo come questo ribaltamento sia stato possibile all'inizio degli anni settanta e non durante il "biennio rosso", e per comprendere anche la relativa fragilità mostrata dalla coscienza largamente di massa che ne ha intravisti prima e teorizzato poi la necessità, occorre proprio soffermarsi sulla diversa natura della classe operaia in relazione alla mutata condizione della prestazione lavorativa. Sono considerazioni largamente note e che qui interessano solo nel loro rapporto con la struttura ed il ruolo degli strumenti di democrazia di base del movimento dei lavoratori. Mutata l'organizzazione del lavoro è mutata anche la natura della classe operaia che, con la scomparsa del mestiere, ha perso qualsiasi forma di identificazione col proprio lavoro, divenuto insignificante e ripetitivo. Soprattutto, i lavoratori protagonisti delle lotte di questo periodo provengono direttamente dalle campagne, sono arrivati al lavoro di fabbrica senza il lungo e formativo periodo di apprendistato, inutile nelle nuove condizioni dell'organizzazione aziendale. In un certo senso, è una classe operaia priva di storia, ma anche di miti e di tabù. Per essa non vale ciò che è stato detto circa la classe operaia protagonista delle lotte del primo dopoguerra, ed in particolare l'affezione alle strutture storiche di organizzazione: il sindacato ed il partito. Ne discende un atteggiamento "laico", che considera il sindacato come strumento di lotta, valido finché in grado di svolgere un ruolo reale di difesa degli interessi dei lavoratori, e non come fortezza da difendere nel bene e nel male, perché si è sperimentato i guasti derivanti dalla sua inesistenza.

I Consigli perdono così la veste ambigua di strutture ulteriori, atte a scopi diversi dal sindacato ma complementari, per divenire il fulcro di un nuovo modo di concepire il sindacato. Anche il partito perde gran parte del suo fascino, soggetto a critiche, a ribellioni, a scissioni. I Consigli escono quindi dal limbo descritto, che non ne faceva né strutture puramente sindacali, né strutture puramente politiche: divengono le cellule elementari di un nuovo organismo sindacale, ed è in funzione dei nuovi compiti di elaborazione e decisionalità che acquistano connotazioni squisitamente politiche. Al loro interno e, tramite loro, all'interno della classe operaia nelle fabbriche, l'acquisizione di coscienza prima degli interessi immediati ed, attraverso la difesa di questi, degli interessi storici dei lavoratori diviene naturale patrimonio collettivo, stimolando ulteriormente da parte di essi l'assunzione in proprio di compiti via via più complessi e articolati di gestione delle lotte e di elaborazione politica. Il Consiglio è strumento politico in quanto strumento sindacale, confermando la naturalità del trapasso da lotte economiche a lotte politiche da parte della classe.

Questa "estraneità" alle tradizioni, forza che spinge all'assunzione in proprio della gestione della conflittualità, è per altri versi debolezza, e come è naturale passare da lotte sindacali alla rimessa in discussione del sistema di sfruttamento in una fase offensiva, altrettanto naturale è il ripiegamento in una lotta sindacale alla lunga priva di sbocchi, al presentarsi di una fase difensiva. Lo schermo di una preesistente coscienza politica, se costituisce spesso un diaframma all'intuizione di novità, diviene in altre situazioni scudo protettivo di una visione strategica che non smarrisce l'obiettivo storico. Questo sia detto senza trascurare l'importanza dell'assenza, in quella fase difficile seguita al 1972, di un nucleo di avanguardia all'interno della classe operaia, in grado di individuare la convergenza degli attacchi padronali (ricatto salariale ed occupazionale) e dei cedimenti riformisti (compromesso storico ed austerità).

4.4 I Soviet ed i CdZ

La maturità politica del movimento dei Consigli degli anni settanta si esprime nella creazione di uno strumento del tutto nuovo: il Consiglio di Zona. Prima di analizzare brevemente le caratteristiche di questo nuovo istituto occorre fare alcune precisazioni storiche, necessarie a ristabilire alcune verità che la complessità degli eventi ha reso difficilmente decifrabili nella memoria. Si è detto, infatti, che i CdZ, in particolare quelli intercategoriali, furono fervide invenzioni delle dirigenze sindacali, atte allo scopo di annacquare e disperdere la combattività operaia, estraendola dalla fabbrica e diluendo categorie avanzate nella palude di altri lavoratori non ancora, e a volte difficilmente, pronti a scontri radicali. In altri termini il possibile contatto all'interno dei CdZ tra classe operaia ed altri ceti meno assimilabili a dinamiche di classe, sarebbe stato favorito dalle OO.SS. allo scopo di coartare su logiche di ripiegamento spezzoni di lavoratori su cui era difficile esercitare un controllo verticistico, ma che dovevano risultare impaniati nelle reti di ceti sociali meno dinamici e più corporativi.

Non è possibile negare che questo progetto sia esistito, né che poi esso si sia col tempo ribaltato all'interno della fabbrica stessa, andando a recuperare con politiche di ristratificazione gerarchica quei settori di lavoratori (tecnici, impiegati, quadri), che in una prima fase avevano subito, ma anche seguito e in maggioranza approvato, la spinta egualitaristica delle lotte dell'operaio-massa. Ma tutto ciò è avvenuto, per l'appunto, dopo che questa spinta aveva cominciato ad esaurirsi, innestandosi proprio su quegli che erano gli anelli più deboli della costruzione organizzativa che i lavoratori avevano operato negli ani precedenti: i CdZ. Più deboli per tre ordini di motivi: primo, la scarsa chiarezza che accompagna sempre i parti delle novità, favorita dall'assenza. già ricordata, di un'avanguardia cosciente od anche dalla insufficiente comprensione del fenomeno da parte dei frammenti di avanguardia allora esistenti; secondo, lo stadio primordiale di sviluppo cui erano arrivati i CdZ, su cui occorrerà tornare, anche grazie agli ostacoli che fino ad un certo momento i sindacati confederali hanno frapposto alla loro creazione; e terzo, la totale disomogeneità del loro sviluppo territoriale, che, tra l'altro, rappresentava la condizione base per la riuscita della loro funzione.

In effetti, nati attorno ai nuclei più forti di classe operaia (Zona Sempione di Milano), i CdZ si sviluppano quasi esclusivamente come organismi di raccordo sul territorio, categoriali e in particolare metalmeccanici. Questo non per scelta di isolamento, ché anzi il dibattito per la creazione dei CdZ intercategoriali è fervidissimo e questi ultimi sono visti come sbocco necessario di quelli categoriali, ma per difficoltà operative di una classe operaia che andava ad inventarsi una struttura organizzativa del tutto inedita e che con le sole proprie forze stentava a generalizzarla territorialmente e ad altri spezzoni di lavoratori meno coinvolti nel processo di assunzione di coscienza dei propri bisogni. Le OO.SS., costrette a subire l'iniziativa prorompente dei CdF, trovarono terreno più facile nell'ostacolare per anni i CdZ, non ponendo a disposizione dei lavoratori le proprie risorse organizzative, anzi ostacolando ciò che di buono si veniva facendo e con particolare accanimento i CdZ intercategoriali, isolando nell'indifferenza le esperienze più significative ed intervenendo di autorità contro quelle più vicine ad una generalizzazione. Tutto ciò salvo poi, una volta finita l'avanzata della base, appropriarsi della parola d'ordine dei CdZ in funzione di quanto appunto lamentato più sopra.

Ho detto che i CdZ rappresentano una novità assoluta nel panorama delle strutture organizzative del movimento operaio, ed addirittura che costituiscono il simbolo della maturità raggiunta nelle lotte di quegli anni. Infatti i CdZ non hanno nulla a che vedere con i Soviet della rivoluzione russa del 1905 e del 1917; questi ultimi sono organismi eminentemente politici, eletti da tutti i lavoratori (e solo dai lavoratori, unica distinzione dalle attuali assemblee elettive delle amministrazioni locali) di un determinato luogo, senza alcuna relazione con i posti di lavoro, ed è proprio questo l'aspetto che li ha resi lo strumento di crescita e di consolidamento del Partito Comunista Russo (bolscevico) in contrapposizione ai Comitati di Fabbrica. In realtà tentativi di coordinamento tra i CdF erano esistiti anche in Italia nel "biennio rosso", ma erano abortiti proprio per la mancata rimozione dell'identificazione operaia con la propria forma tradizionale di organizzazione: il sindacato. Non a caso le forme più simili ai CdZ che storicamente è possibile riscontrare sono gli Shop-Stewards Committees inglesi, frutti cioè di una classe operaia per la quale le Trade Unions sono è vero l'organizzazione unica, sostitutiva anche del partito, ma nella quale permane una forte esigenza di autonomia, sia politica che organizzativa, dalla propria Union; d'altra parte sarà poi ancora la difficoltà a generalizzare l'esperienza al di fuori dei distretti minerari, dovuta ad una residua fedeltà tradizionale alle preesistenti forme sindacali, a far morire d'asfissia i Committees.

Ed è, in quest'ottica, ancora meno un caso che la nascita dei CdZ si accompagni, e ne sia anzi l'asse, all'impostazione di una nuova forma organizzativa del sindacato, che va sotto il nome di "sindacato dei Consigli". I CdZ, infatti, nella loro impostazione originaria, non rispondono solo ad un bisogno di coordinamento locale di lotte, ma sono le strutture ideali per iniziare una discussione necessaria alla costruzione di una strategia della classe operaia, che per non venire ancora una volta dall'alto, deve trovare organismi adatti ad una sua elaborazione, e che per essere una strategia complessiva deve coinvolgere tutte le categorie di lavoratori ed uscire dall'orizzonte limitato della fabbrica. I CdZ non rappresentano quindi l'uscita dalla fabbrica di un movimento ormai condannato alla sconfitta al suo interno; sono invece le proiezioni coscienti di una lotta aziendalmente vincente, ma che deve trovare in un quadro strategico più ampio la propria collocazione finalistica. Ma i CdZ hanno rappresentato qualcosa di più; da un lato la cooptazione di categorie ancora in ritardo all'interno di logiche di scontro ed in questo senso si misura tutta la distanza dal Soviet russo: l'egemonia va dalla fabbrica al territorio, dal lavoro al sociale, dalla condizione di classe alla presa di coscienza politica, in assonanza con una società dei produttori, e non viceversa dall'assemblea elettiva al luogo di lavoro, dalla complessità della classe alla determinazione del singolo processo produttivo, dall'opzione politica alla dinamica dello scontro quotidiano aziendale. Dall'altro, se il compito più profondo che è stato individuato per il movimento dei Consigli degli anni settanta era quello della ricostruzione di un sapere antagonista espropriato e se questa ricostruzione necessitava dell'apporto di ceti intellettuali e studenteschi, anch'essi in movimento, i CdZ rappresentavano gli organismi ideali in cui quest'incontro poteva avvenire nel mantenimento delle relative specificità sociali, ma anche nella chiara posizione egemonica della classe operaia, cosa impossibile nel sindacalismo del funzionariato e nel partito, in particolare in quello "dell'intellettuale organico".

 

5. L'INFORMATIZZAZIONE DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI E SOCIALI

5.1 Dal 1972 al 1984: da soggetti ad ingranaggi

Dall'epoca del massimo sviluppo dei Consigli ad oggi, il panorama sindacale è moto cambiato. Via via che la spinta della base operaia verso l'autonomia è venuta calando, a causa delle sconfitte, della lunga lotta, dell'attacco padronale, del ricatto occupazionale e salariale, e soprattutto della rivoluzione produttiva che ha mutato le condizioni di lavoro in fabbrica sconvolgendo i presupposti strutturali che avevano consentito le lotte del 1968-1972, via via che i Consigli perdevano forza propositiva per l'esaurirsi sia della molla ideale, che aveva dominato il periodo antecedente, sia della figura dell'operaio-massa, che aveva caratterizzato la fase tayloristica dell'organizzazione del lavoro, i sindacati confederali sono venuti esautorando gli organismi di democrazia di base di ogni potere decisionale e propositivo, di ogni ruolo e funzione all'interno dell'organizzazione tradizionale. Ripercorrere con storica scrupolosità le tappe di questa lenta ma inarrestabile marginalizzazione, dai primi tentativi di regolamentazione al depauperamento di risorse umane con la cooptazione di molti quadri attivi a "responsabilità più elevate" e con esse alle logiche dei vertici, dal Convegno di Montesilvano di Pescara sulle strutture organizzative del sindacato ai sempre più pesanti attacchi ai Consigli come inattendibili rappresentanti della volontà dei lavoratori, dalle interferenze elettorali per escludere i non sindacalizzati e soprattutto i non allineati, garantire i rappresentanti imposti dall'alto, rompere il rapporto diretto tra deleganti e delegato, imporre una composizione corporativa del Consiglio contemplante la presenza di ceti filopadronali più sollecitati dai vaneggiamenti sulla "professionalità", ripercorrere questa via è agli scopi del tutto inessenziale.

Sta di fatto che oggi le strutture sopravissute a questo decennio di pesanti e continue ostilità da parte dei vertici sindacali, a dispetto della continua esaltazione verbale di cui il loro ruolo è stato fatto oggetto, non sono che pietose caricature dei Consigli di Fabbrica. Da strumenti diretti di espressione della volontà dei lavoratori, essi sono divenuti, salvo rare eccezioni, esecutori e propalatori del verbo sindacale in fabbrica; da soggetti in grado di imporre una rivoluzione nelle strutture organizzative del sindacato, si sono ridotti ad appendici esterne, spesso inefficienti, di un organismo su cui non hanno alcun modo di incidere; da centri di elaborazione di una linea sindacale e strategica, sono scivolati verso una stanca e non originale rimasticatura grottesca di dibattiti che avvengono altrove. Tutto questo nonostante che l'incessante lavoro di esautoramento condotto dai vertici delle organizzazioni confederali abbia trovato resistenze ed ostacoli, senza riuscire a dispiegarsi fino ai livelli desiderati. Esso, comunque, è stato reso possibile proprio dalla sostanziale censura di quel rapporto diretto tra deleganti e delegato, patrimonio ineliminabile del concetto di gruppo omogeneo, che, se pur non si è realizzata formalmente, nella maggioranza ha reso i CdF repliche minori del parlamento sindacale, rappresentazione farsesca delle confederazioni e delle loro correnti interne, immagini a volte peggiorative di ciò che avviene fuori della fabbrica invece che specchio della sua situazione interna.

E' ovvio che in questo processo ha pesato la stanchezza della base per un lungo periodo di lotte, e la delusione per sconfitte che hanno iniziato a sconvolgere la morfologia stessa della classe; ma le lotte del movimento degli autoconvocati, per la loro vastità, più che esemplari focolai di resistenza, indicano che la reattività della base, pur indebolita e resa meno attenta, è pur sempre superiore ad ogni ottimistica previsione, e che, quindi, non nella sua mancanza va cercata la ragione di quanto avvenuto, ma nelle mutate condizioni strutturali, in quel terremoto nella geografia dell'organizzazione del lavoro, cui sopra accennato, dati questi che sono in grado di fornirci giustificazioni profonde delle difficoltà che oggi i Consigli attraversano, ed anche della discontinuità della combattività operaia, al di là di ricostruzioni puramente volontaristiche, legate alle perversità umane, ai tradimenti soggettivi ed alle insufficienze teoriche, pur importanti, ma concorrenti a delineare un quadro che deve trovare altrove le proprie determinazioni fondamentali.

D'altra parte, infatti, se le motivazioni fossero rintracciabili subito e solo nella soggettività, seppure di massa e collettive, nessuna indicazione operativa potrebbe essere tratta, se non quella di una pura azione di propaganda ideologica, in attesa di una futuribile reviviscenza delle lotte legata ai bioritmi della classe.

5,2 Vitalità senza concorrenza

Ebbene, se la situazione è quella appena descritta, resta da chiedersi come sia possibile che ancora nel 1984 i Consigli riescano a farsi interpreti in una qualche misura delle esigenze della classe operaia e come abbiano potuto costituire il centro di aggregazione del movimento sviluppatosi nella primavera di quell'anno.

Trascuriamo momentaneamente il fatto che proprio dalla considerazione della scarsa tenuta di questo movimento ha preso le mosse questo lavoro, anche in ragione dell'idea di fondo che non in una caduta di coesione tra base operaia e Consigli vada ricercata la debolezza manifestata, quanto in una causa strutturale in grado di spiegare sia il rapido arretramento delle lotte, sia questa stessa cesura tra lavoratori ed organismi sindacali di base.

Occorre allora distinguere tra alcune situazioni esemplari, la maggioranza delle situazioni in cui esistono i CdF e la condizione del movimento operaio in Italia.

Nelle prime la persistenza di una spinta operaia alla lotta aveva permesso il permanere di un CdF attivo ed in perenne scontro con le direttive sindacali, ma tale condizione era limitata a pochi casi eccezionali (Alfa Romeo di Arese, Italsider di Bagnoli, etc.) ed è da sottolineare che si verificava solo in realtà aziendali di notevoli dimensioni.

Nella stragrande maggioranza dei casi i CdF, dove esistevano, si erano ridotti, come detto, a persuasori della bontà della linea propugnata dai vertici sindacali, riproducendo al loro interno le divisioni correntizie come riflesso indotto, grazie al controllo che i sindacati verticali riescono ad esercitare sulle elezioni in virtù della stanchezza e dell'arretratezza ei lavoratori dell'azienda. E' questo il caso più rilevante ai fini della domanda posta: perché se in questo caso è facile constatare l'assenza di un rapporto di fiducia tra lavoratori e delegati membri del Consiglio, nel senso paradigmatico constatato, nelle fasi di lotta rimane incontestabile che, nonostante tutto, la base operaia ancora si identifica nel Consiglio o quanto meno continua a sentire il Consiglio come un proprio strumento di lotta, spesso in contrapposizione alle strutture orizzontali e verticali delle organizzazioni confederali viste, quale più quale meno, come istanze estranee alle esigenze di classe, almeno laddove il filtro ideologico, ancora possente, non impedisca non tanto la formulazione di tale estraneità, quanto la sua aperta professione. In realtà, questa parziale persistente identificazione tra lavoratori e Consigli è frutto in gran parte della prossimità fisica: l'operaio di reparto sente che ancora può influire nella vita politica del proprio CdF in relazione alla coabitazione quotidiana con il proprio delegato; vede cioè, non a torto, il Consiglio come una struttura vicina e perciò stesso influenzabile dalla propria volontà, a differenza del sindacato di cui non è in grado non solo di controllare, ma neppure di comprendere i meccanismi decisionali. E' per questo che le patenti insufficienze dei Consigli vengono dimenticate in funzione dell'episodica possibilità di incidere direttamente sulle loro scelte; non a caso laddove la sclerotizzazione di questi organismi aveva raggiunto punte tali da impedire loro la presa di coscienza di quanto profondamente la lotta antidecreto fosse sentita dai lavoratori (come segnale di disponibilità ad un continuo cedimento, più che per la sostanza salariale), essi sono stati costretti alle dimissioni, in gran parte parziali, mentre nulla di tutto ciò si è verificato in una qualsiasi altra istanza; e altrove i CdF riluttanti a prendere posizione, per un malinteso concetto di unità sindacale, sono stati costretti a prenderla. Si può riassumere il tutto nella constatazione, esperibile nei fatti, che i Consigli sono più manovrabili dalla volontà di base, nonostante il loro mutamento, e che questo avvertono i lavoratori che a dispetto di esso continuano ad identificarcisi, ed anche i vertici che, comprendendone la natura forzatamente parziale, vorrebbero eliminarli dal panorama sindacale.

Ma la molla fondamentale della permanente vitalità dei CdF va ricercata nell'esistenza, largamente maggioritaria, di situazioni di lavoro in cui essi non esistono neppure. In analogia col fatto che i lavoratori tendono persino a sostenere e difendere il sindacato di fronte all'attacco padronale, per quanto non ne condividano le scelte strategiche e spesso a queste facciano risalire la causa delle proprie reiterate sconfitte, e lo difendano in base all'elementare principio che è meglio un cattivo strumento che nessuno strumento, in analogia con ciò che i lavoratori vedono nell'esistenza dei CdF quella garanzia di poter in un certo modo contare, che manca agli altri privi di questa struttura, perchè laddove i Consigli non esistono la base operaia non ha strumenti organizzativi diversi e perciò la sua insoddisfazione trova ancora minori canali per potersi esprimere.

I Consigli, quindi, sopravvivono al proprio declino perché non esistono organismi in grado di far esprimere le esigenze di base dei lavoratori, e perché quindi, bene o male, rappresentano l'unico canale, anche se imperfetto, per questa espressione.

La considerazione che si presenta necessaria a questo punto è se i Consigli siano alla vigilia di una fase espansiva o se anche la forma storica in cui li abbiamo conosciuti si avvii verso l'esaurimento, e questo non in relazione alle volontà od alle condizioni politiche, ma nella sua connessione sostanziale con la struttura produttiva. Perché, nel primo caso si potrebbe ancora pensare che un'estensione ed una capillarizzazione dei Consigli, portando alla ribalta il protagonismo di un numero crescente di lavoratori, possa costituire un valido antidoto alla loro sclerotizzazione in ruoli subalterni alle strategie sindacali ed anche un argine effettivo ad ogni serio tentativo di un loro ridimensionamento o di una loro totale eliminazione. Nel secondo caso si renderebbe necessario una loro sostituzione con organismi più idonei agli scopi della democrazia di base, perché una loro difesa ad oltranza sarebbe votata alla sconfitta.

5.3 L'elaboratore ed il controllo statistico della produzione fuori dalla fabbrica

Ancora una volta, un'analisi della "terza rivoluzione industriale" esula dai limiti del presente lavoro; ma anche se essa è tutta da completare, è possibile riassumere brevemente alcune caratteristiche e tendenze sufficientemente delineate ed in particolare quelle che hanno riflessi rilevanti sull'organizzazione del lavoro. E' appena il caso di premettere che tutti gli sviluppi connessi alla profonda ristrutturazione in atto sono resi praticabili solo dall'esperienza dell'elaboratore elettronico, strumento centrale della trasformazione informatica, sia a livello specifico della produzione e della distribuzione, sia infine della stessa organizzazione sociale.

La risposta capitalistica al ciclo di lotte degli anni settanta è stato il decentramento produttivo, e questo lungi dal rivelarsi un espediente momentaneo, viene assumendo sempre più le marcate caratteristiche di un assetto stabile della struttura produttiva italiana. Questo fatto è di gran lunga il più rilevante per la comprensione del ruolo degli organismi di democrazia di base dei lavoratori nella nuova situazione, più di quanto non lo siano, ad esempio, quelli per altri versi fondamentali delle possibilità di controllo sociale ed individuale delle prestazioni lavorative del singolo operaio che l'introduzione dell'informatica consente. E', comunque, l'esistenza dell'elaboratore elettronico che permette la gestione di un sistema produttivo fortemente decentrato, in cui le singole aziende svolgono le funzioni di reparti di una struttura di produzione unica con diramazioni fisicamente molto lontane. Tramite di esso, infatti, le produzioni delle singole fabbriche-reparto possono essere raccordate tra di loro in funzione del raggiungimento di un traguardo produttivo prefissato.

Fondamentale in questo schema è l'introduzione del "magazzino automatizzato", evoluzione tecnologica del "polmone" che aveva permesso alla FIAT di neutralizzare alla fine degli anni sessanta gli scioperi articolati. Si realizza così quello che già è stato individuato come "controllo statistico della produzione", con l'avvertenza che tale statisticità vale non per i singoli reparti di un'azienda, ma per il complesso delle aziende-reparto afferenti alla produzione della medesima merce.

In altre parole, il controllo dell'obiettivo produttivo non si realizza più all'interno della fabbrica, ma all'esterno di essa, o meglio, rimane all'interno solo il controllo dell'obiettivo parziale ad essa assegnato con tempi che sono, ovviamente, tutt'altro che identici a quelli generali.

Per ciò che concerne l'impatto delle tecnologie elettroniche sulle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, più che l'aspetto concernente gli aumenti di produttività, sono rilevanti, ai fini propostici, quelli relativi alle capacità professionali richieste, sia nei loro riflessi sulle conoscenze operaie del ciclo produttivo, sia nei riguardi dei differenziali cognitivi inerenti all'esplicazione di mansioni differenziate all'interno di un sistema produttivo complesso, articolato in produzione di merci e servizi. In entrambi i casi un'analisi attenta fornisce, al di là della propaganda, risposte univoche: sia le conoscenze patrimonio delle classi lavoratrici, sia le tradizionali differenze tra prestazioni lavorative manuali e prestazioni lavorative intellettuali tendono a diminuire drasticamente (8). Da un lato la rivoluzione informatica non è che una tappa del lungo ed incessante processo di depauperamento subito dal lavoro operaio nell'arco del secolo (9); dall'altro l'operare ad una consolle tende ad uniformare lavoro operaio e lavoro impiegatizio, spostando in maniera sempre più accentuata il momento della progettazione al di fuori del loro controllo, con un ulteriore differenza rispetto alla fase tayloristica dell'organizzazione del lavoro: mentre prima l'ufficio studi e progetti era, bene o male, ancora un reparto della fabbrica, adesso il lavoro ingegneristico tende sempre più, salvo rare eccezioni, ad essere appaltato al di fuori di essa a strutture di servizio i cui lavoratori, altamente professionalizzati, assumono sempre più marcatamente la veste di liberi professionisti.

5.4 Isolati

Le conseguenze di quanto appena detto avvalorano l'ipotesi che il ciclo storico dei CdF sia in esaurimento e che quindi la loro delimitazione aziendale e territoriale non sia un ostacolo sormontabile con la coscienza e la volontà politica, ma risponda a situazioni strutturali non aggirabili e che richiedono nuovi e più idonei strumenti per l'applicazione della democrazia di base dei lavoratori. L'isolamento dei CdF all'interno delle grosse aziende, in particolare l'isolamento di quelli più attivi e perciò meno allineati, corrisponde specularmene all'isolamento delle grosse aziende nel panorama produttivo generale, residui dell'epoca dell'economia di scala destinati, se non all'estinzione, ad una sopravvivenza confinata.

Soprattutto i Consigli limitati dal perimetro della fabbrica non hanno più nessuna capacità, neppure con l'elaborazione collettiva, di ricostruire il ciclo produttivo per due distinti, ma convergenti, motivi: la riduzione della fabbrica a frazione di detto ciclo, a reparto di un'azienda più vasta; la fuoriuscita della fase di progettazione dai limiti anche gestionali dell'azienda, che rende non ipotizzabile il coinvolgimento, fosse anche individuale, dei tecnici all'interno del Consiglio in funzione di arricchimento del bagaglio conoscitivo di questo organismo.

Il configurarsi dei tecnici informatici, non solo come ceto esterno alla fabbrica, ma, nelle linee fondamentali, come liberi professionisti (come un tempo potevano essere i progettisti dell'organizzazione del lavoro, i commercialisti, gli esperti in ricerche di mercato, i pubblicitari, etc.), se da un lato vanifica la possibilità dei CdF di riappropriarsi della conoscenza del ciclo produttivo, dall'altro ridicolizza la linea strategica sindacale, che attraverso la "professionalità" punta dichiaratamente ad agganciare questi strati al proprio carro.palesando un'ottica distorta che assimila questi ceti a quelli impiegatizi precedenti l'informatizzazione delle prestazioni lavorative.

Basta, comunque, il fatto che i CdF non corrispondono più alle esigenze per cui erano nati e si erano sviluppati, sopravvivendo a se stessi, anche nella coscienza operaia, per l'assenza di strumenti organizzativi antagonisti più idonei a realizzare, nella nuova situazione, gli obiettivi di democrazia di base e di potenziale autogestione. Proprio in queste considerazioni è possibile rintracciare la ragione del rapido espandersi e dell'altrettanto rapido esaurirsi del movimento della primavera 1984.

Incalzati da una politica di continua svendita delle proprie esigenze i lavoratori hanno trovato nei CdF gli unici canali per affermare la propria volontà; mai come in quei momenti è stata larga la coscienza della necessità di una struttura sindacale profondamente diversa (basti pensare alle dichiarazioni contenute nel documento di Brescia). Se, però, il coordinamento dei CdF non ha sedimentato una struttura alternativa alle Confederazioni, la causa non può essere ricercata solo nell'abilità della CGIL, prima sostegno e poi fossa del movimento; e neppure bastano le tradizionali remore operaie all'abbandono della propria organizzazione storica; la cosa che più è mancata è stata la possibilità di generalizzare il movimento, di uscire dalle grandi città e dalle isole felici, di coinvolgere la grande massa dei lavoratori sparsa per la "provincia", solidale sì ai temi della lotta, ma esclusa dai collegamenti, dai flussi di informazione e che ha trovato nella locale CdL l'unico punto di riferimento, facilitando il recupero della CGIL.

Il milione di lavoratori convenuto a Roma per la manifestazione del 24 marzo, avanguardia di un esercito ancora più imponente, non si era mosso per sostenere la linea Lama-Del Turco, o per ascoltare i toni ispiratamene cattolici di Lama; ma è un fatto che il Coordinamento dei CdF, confinato al nord e nelle grandi città, non ha saputo o potuto fornire una base logistico-organizzativa alternativa a quella capillarmente messa in moto dalla CGIL. E diversamente non poteva essere in corrispondenza ad una analisi, seppur superficiale, della struttura produttiva quale si viene configurando all'interno della "terza rivoluzione industriale".

5.5 Quale struttura organizzativa per la nuova democrazia di base?

E' allora evidente che i CdF non possono più essere, all'interno della ristrutturazione produttiva che si delinea con la rivoluzione informatica, le strutture in cui si realizza la democrazia di base dei lavoratori. Ciò non tanto per l'aspetto di democrazia diretta, che anzi li rende insostituibili, ma soprattutto per l'altro compito che organismi di questo tipo sono chiamati ad assolvere: la padronanza da parte della classe operaia della conoscenza del ciclo produttivo, come arma per l'azione diretta nelle lotte e come strumento per l'autogestione nella società post-rivoluzionaria.

Non è facile individuare quali possono essere le forme che devono assumere dei nuovi organismi di base; non è facile anche perché, se è vero che la classe è capace di dotarsi di essi in fase di lotte montanti, è anche vero che questa non è la situazione attuale, a riprova del permanere residuale dei CdF in concomitanza della condizione difensiva vissuta dai lavoratori. Ma se questo compito non è banale e se fare della progettazione organizzativa puramente cerebrale non è compito delle avanguardie, perché le strutture proposte si leverebbero come instabili palafitte prive di fondamenta nella coscienza di classe, pure è opportuno individuare le linee in grado di guidare l'azione di intervento.

Prima di tutto, come già detto, i CdF sono strumenti insostituibili per garantire la partecipazione attiva e cosciente di tutti i lavoratori e perché ciò continui ad essere vero occorre combattere ogni tentativo di ridurli sotto un controllo verticistico oppure, ed è lo stesso, di separarne la vita da quella dei lavoratori mutando i meccanismi elettorali ed esautorando l'Assemblea di Fabbrica, unica istanza veramente decisionale. Ma per il secondo compito i CdF risultano impotenti, o meglio non basta un loro semplice coordinamento per superare le limitazioni viste. Occorre invertire la logica. Come il CdF non è mai stato il coordinamento dei delegati di reparto, ma l'organismo centrale di dibattito a cui i reparti apportavano il proprio contributo, nella nuova struttura produttiva il Consiglio della fabbrica-reparto non può più essere la cellula base su cui si costruisce il nuovo sindacato. E' necessario un organismo più vasto, in grado di recepire le istanze della fabbrica e di ciò che la circonda (indotto, lavoro nero, etc,), di raccordare i lavoratori la cui distinzione categoriale è sempre più nominalistica e sempre meno legata alla specificità della prestazione lavorativa (operai ed impiegati, ma anche tessili e metalmeccanici sono sempre più simili posti dinanzi ad una consolle), e di raccogliere anche gli apporti individuali dei ceti tecnici ed intellettuali. Di questa struttura i CdF possono essere componente essenziale per il rapporto tra di essa ed i lavoratori, ma si tratta ora di costruire Consigli di Zona, non più come proiezione esterna all'azienda in un tentativo legittimo di egemonia sul sociale, ma dei Consigli di Zona come strutture territoriali in grado di esercitare una funzione di direzione su di una porzione geografica della struttura produttiva di cui la fabbrica è elemento importante, ma non più unico.

L'esempio della vitalità delle Camere del Lavoro, soprattutto al di fuori dei tradizionali poli industriali, è di ammaestramento circa la necessità di strutture territoriali per convogliare una massa di lavoratori che vive una condizione di lavoro quanto mai individualizzata e disseminata. Sono spunti un po' vaghi e forse sarebbe opportuno entrare nel merito della composizione e delle modalità di elezione di un tale organismo, come pure forse ciò è prematuro. Mi auguro solo che su questi spunti si possa iniziare una riflessione in grado di costruire elementi concreti di strategia.

5.6 I cobas

Poche riflessioni finali concernono i movimenti che tanta novità hanno costituito nel panorama sindacale degli anni '87 ed '88. Poche perché i settori coinvolti sono alcuni di quelli del pubblico impiego con i riflessi pallidi e pressoché inesistenti nelle tradizionali categorie operaie. E se è pur vero che la rivoluzione tecnologica tende ad omologare "mestieri" un tempo molto diversi, sono d'altra parte vere altre due considerazioni: la prima è che i settori del pubblico impiego non hanno subito ancora il ricatto occupazionale, la seconda è che i settori che hanno dato vita ai COBAS sono per l'appunto quelli meno coinvolti nell'informatizzazione delle prestazioni lavorative. Ma pure ciò che è accaduto offre ancora qualche spunto di analisi. E' infatti interessante notare che categorie lontane dalle tradizionali forme organizzative della classe operaia, come quella dei lavoratori della scuola, anche perché modellate in organizzazioni del lavoro completamente diverse, abbiano immediatamente dovuto affrontare il problema della democrazia di base, problema restato in gran parte non risolto e che è stata una delle difficoltà incontrate dai movimenti.

La non semplice riproposizione di modelli quali quello consiliare sia per la polverizzazione delle strutture di lavoro (ciò sia per la scuola che per le ferrovie), l'assenza di proposte alternative, ha costretto i movimenti in un'esasperazione assembleare che ha privilegiato le rappresentanze politiche e non quelle dirette; e ciò si è rivelato negativo non tanto nelle fasi di punta delle lotte, ma soprattutto negli svincoli cruciali e nelle fasi in cui più dura è stata l'offensiva delle controparti. Se quindi da un lato le ultime fasi dei conflitti sociali hanno riproposto un'esigenza di protagonismo di vasti settori di lavoratori dipendenti, potremmo dire una forte spinta all'autogestione delle lotte, dall'altro l'assenza di un modello organizzativo in grado di rispondere in maniera soddisfacente alla formazione di esperienze che rompono effettivamente e definitivamente con il sindacalismo burocratico ed istituzionalizzato delle confederazioni.

In particolare l'aspetto della mancata generalizzazione ottenibile da organismi su base territoriale, ha impedito di saldare le lotte dei lavoratori dei servizi con quelle degli altri settori. E' ben vero che le piattaforme centravano quel problema prioritario, la riqualificazione dei servizi, ma in assenza di comunicazione diretta la deformazione informativa ha amplificato i caratteri corporativi delle lotte nei servizi. L'illusione di saldare le esigenze a valle delle lotte contrattuali, strappando modifiche significative sul piano dell'offerta del servizio pubblico, si è scontrata con una controparte pronta a cedere sul piano salariale pur di avere mano libera nell'organizzazione del lavoro. Si ripropone quindi sempre più urgentemente l'esigenza di forme organizzative in grado di saldare la democrazia di base con la conoscenza di un ciclo produttivo diffuso sempre più integrato con l'offerta dei servizi, per superare un modo di fare che dura ormai da molto tempo, di scontri di classe molto duri ma cronologicamente mai coincidenti.

 

Note:

(1) U.C.A.T.-O.C.L. Ai compagni su: professionalità mito sindacale, CP, Firenze 1982. H. BRAVERMAN, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978

(2) Cfr.: A. M. PANKRATOVA, I Consigli di Fabbrica nella Russia del 1917, Samonà e Savelli, Roma 1970, pp.66-72

(3): ".....se i Consigli di Fabbrica non sono più adeguati a questa nuova linea, nel senso che dobbiamo riadeguarli, rimotivarli, renderli più rappresentativi, che è la questione che oggi si sta discutendo, se dobbiamo inserire dentro i Consigli di Fabbrica più tecnici, più impiegati, questo va fatto; questo è necessario." A. LETTIERI, in Atti della Conferenza di Produzione E.C.S., Firenze 1983, p.82

(4): A. GRAMSCI, Sincadati e Consigli, in "L'Ordine Nuovo" dell'11.10.1919, riportato in A. GRAMSCI, A. BORDIGA, Dibattito sui consigli di fabbrica, Samonà Savelli, Roma 1971, pp.22-27

(5): A.GRAMSCI, Soviet e Consigli di Fabbrica, in "L'Ordine Nuovo", 1920, I, 43, p.340, riportato in P. SPRIANO, L'Ordine Nuovo e i Consigli di Fabbrica, Einaudi, Torino 1971, pp.242-246.

(6): A.M. PANKRATOVA, I consigli di Fabbrica... cit., pp. 78-79

(7): Si veda, come esempio limite ma significativo, la quantità e la qualità del materiale prodotto, per una conoscenza di parte operaia del ciclo produttivo della chimica e per il problema della tutela della salute in fabbrica, dal Consiglio di Fabbrica della Montedison di Castellanza: GRUPPO DI PREVENZIONE ED IGIENE AMBIENTALE (P.I.A.) DEL CONSIGLIO DI FABBRICA MONTEDISON DI CASTELLANZA, L'esperienza dei lavoratori, in "Sapere", n.779, febbraio 1975, pp.41-42; GRUPPO P.I.A., B. MAZZA, V. SCATTURIN, Icmesa: come e perché, in "Sapere", n.796, novembre-dicembre 1976, pp.10-36; GRUPPO P.I.A. DEL C.D.F. DELLA MONTEDISON DI CASTELLANZA E DELL'ARIMONTI DI OLGIATE OLONA, La soggettività insegna: due esperienze operaie, in "Sapere", n.799, aprile 1977, pp.36-50. Non sono che esempi di una vasta produzione di conoscenza operaie.

(8): UCAT - OCL, Ai compagni su... cit.

(9): H. BRAVERMAN, Lavoro e... cit.


(Originale cartaceo del 20.12.1988 presso il Centro di Documentazione Franco Salomone, Fano.)