Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica

Ai compagni: sulla FIAT

 

A cura della Commissione sindacale
Crema 11.1980

 

INTRODUZIONE

La commissione sindacale dell’O.R.A. propone all’attenzione dei compagni questo documento, frutto della riflessione “a freddo” sulla “questione FIAT” e sul problema della trasformazione dei rapporti di classe dopo l’ultima vertenza.

In queste pagine non vogliamo ricadere nella logica semplicistica di voler dimostrare se l’ultima vertenza ha segnato una vittoria o una sconfitta dei metalmeccanici.

E’ invece necessario considerare che:

  1. ciò che determina il corso complessivo dello scontro di classe sono i rapporti di forza particolari e complessivi che si esprimono nei diversi ambiti e settori;
  2. la sconfitta o la vittoria sono relativi a battaglie contingenti; occorre vederne la portata storica e verificare rispetto alla complessità della lotta di classe;
  3. ogni scontro, sia vincente che perdente, va sempre rivisto in termini complessivi al fine di rapportare il fatto contingente alla dinamica complessiva del cambiamento sociale.

Ciò che si tenterà in queste pagine è perciò una riflessione complessiva sul cambiamento dei rapporti di forza tra FIAT e classe ed in seconda istanza verrà analizzata la vertenza in specifico.

E’ solamente attraverso questa analisi complessiva che possiamo così vedere meglio gli errori, i pregi e cosa dobbiamo fare in futuro per sviluppare ulteriormente i rapporti di forza.

Sulla base di questa traccia è necessario capire come si è andata trasformando la fabbrica e perciò la composizione operaia al suo interno. Questo passaggio è fondamentale per capire poi i cambiamenti della coscienza di classe e dei comportamenti operai e della FIAT.

Da questo quadro ne conseguirà un’analisi delle strutture operaie sia di base che di vertice, dalla quale emergeranno le contraddizioni viste nella vertenza e più in generale nel comportamento della classe.

Queste considerazioni finali ci permetteranno poi di individuare alcuni punti cardine fondamentali sui quali sviluppare l’iniziativa politica nella classe.

Diverse parti che compongono questo scritto sono state tratte dal Convegno su “Vecchi e giovani operai nella FIAT che cambia” tenuto a Torino nell’ottobre del 1979 (pubblicato su “INCHIESTA” n. 44 marzo/aprile 1980), da alcuni documenti di dibattito redatti da compagni della FLM dell’area metropolitana milanese e dall’ “Informatore di Parte” trimestrale dei Comunisti Anarchici di Firenze ottobre 1980 n. 7.

 

IL PROCESSO DI RISTRUTTURAZIONE DELLA FIAT: ovvero come la FIAT ha risposto al ciclo di lotte operaie 1968/1973

La direzione aziendale ha condotto diverse strategie di riconversione industriale che possono essere sinteticamente riassunte in:

  1. ulteriore sviluppo organizzativo multinazionale attraverso la costruzione della Holding finanziaria FIAT che garantisce un maggior potere internazionale alla casa torinese;
  2. sviluppo della “robotizzazione” delle catene di montaggio nella FIAT torinese con l’evidente tentativo di rompere e sostituire l’unità operaia dei decenni scorsi cambiando l’organizzazione del lavoro;
  3. sviluppo del decentramento produttivo attraverso lo smembramento di produzioni che prima erano fatte all’interno di grosse fabbriche nelle città ed ora vengono diffuse nella piccola e media azienda. Questo fenomeno si è sviluppato territorialmente investendo quelle aree periferiche e “sottosviluppate” del NORD (Bassa Lombardia, Veneto, marche, Emilia; etc) garantendo una maggiore divisione dei lavoratori sul territorio.
  4. Ristrutturazione produttiva delle aziende del SUD Italia.

Evidentemente queste diverse tendenze ristrutturative sono state finalizzate ai diversi tipi di ambiti territoriali dentro i quali sono inseriti i cicli produttivi della FIAT. Possiamo perciò sviluppare i punti precedenti rispetto ad alcune aree/tipo indicative per capire i diversi comportamenti della FIAT e parallelamente i diversi comportamenti della classe operaia e proletaria.

 

NELL’AREA METROPOLITANA MILANESE

Occorre in questa area distinguere due livelli principali:

  1. La grande fabbrica FIAT (Mirafiori, Rivalta, Lingotto, ecc) con dimensioni attorno ai 30/40.000 operai organizzati principalmente intorno alla catena di montaggio...
  2. La fabbrica diffusa intorno all’area metropolitana di piccole e medie industrie (che però hanno una dimensione media consistente attorno ai 2000/3000 operai) indotta dal decentramento e dalle commesse FIAT.

Nel primo ambito abbiamo assistito ad un grosso processo di automazione delle lavorazioni (robot) che ha relegato l’operaio a mere funzioni di appendice della macchina.
Contemporaneamente si è sviluppato un fenomeno interessante che ha inciso profondamente sulla coscienza di classe all’interno della fabbrica: la formazione di frazioni di tempo libero. E’ bene che si sappia che all’origine di questa possibilità sta proprio il rifiuto operaio di accettare la fissazione di una produzione giornaliera o l’esercizio di un controllo rigido sui tempi scomposti.

Questo fenomeno creato dalla robotizzazione ha un'altra faccia, quella cioè di aver tolto all’operaio professionale degli anni 50 e 60 (protagonista delle lotte operaie) la capacità d’intervenire sul ciclo produttivo. “E’ tutto un patrimonio d’intelligenza tecnico/scientifica, accumulata in anni di esperienza dentro il capitale, fatta di trucchi e saggezza, di espedienti e di raffinata analisi delle mansioni che viene brutalmente raso al suolo”.

La tendenza perciò alla deprofessionalizzazione va ad incidere direttamente sulla capacità d’intervento dei lavoratori e della riappropriazione tecnico/politica del ciclo produttivo (conoscenza/potere).

Vedremo poi successivamente le incidenze socio politiche che questi fenomeni hanno sulla classe.

Nell’ambito della fabbrica diffusa intorno all’area metropolitana torinese si sviluppa il fenomeno del decentramento produttivo.

La FIAT sviluppa questa strategia di divisione operaia per acquisire una flessibilità produttiva che gli garantisce un’enorme capacità di ricatto alla classe operaia nella grande fabbrica.

E’ stato stimato che ad ogni operaio FIAT licenziabile corrispondono tre operai licenziati nell’indotto.

I fenomeni di trasformazione operaia visti nella grande azienda, nell’indotto si accentuano maggiormente poiché esiste una maggiore mobilità dei lavoratori ed un maggiore ricambio dei giovani.

La situazione politica però viene indotta direttamente dai grossi complessi torinesi.

Vi sono parallelamente alla ristrutturazione vista in precedenza, una serie di iniziative del padrone FIAT tese a colpire alcuni punti principali attorno ai quali la rigidità operaia si è consolidata.

Tra gli altri:

  1. La Cassa Integrazione e le successive migliaia e migliaia di ripetuti trasferimenti non solo da reparto a reparto ma da uno stabilimento all’altro che scompongono e ricompongono le squadre, costringono migliaia di operai ad un nuovo lavoro che per un certo tempo non sono in grado di conoscere e controllare come il vecchio;
  2. Le migliaia di licenziamenti per assenteismo che colpiscono in primo luogo gli inidonei e gli invalidi e rimettono in discussione uno degli strumenti fondamentali di difesa della propria condizione in mano ai lavoratori;
  3. Il blocco delle assunzioni che durerà fino a tutto il 1977, dopo la lotta contro gli straordinari al sabato e che chiuderà i cancelli non solo della FIAT ma di quasi tutte le fabbriche di Torino e che avrà come conseguenza una drastica riduzione degli occupati alla FIAT. “La lotta sul salario, come strumento politico di lotta per il potere in fabbrica, si deteriore e perde di incisività proprio a partire dal ‘73/’74. L’uso selvaggio della inflazione, infatti, cui i meccanismi automatici della scala mobile riescono parzialmente a far fronte, sposta fuori della fabbrica il terreno di definizione del reddito operaio, ancora una volta contrapponendo la generalità e l’astrattezza dell’universo sociale alla particolarità dell’iniziativa di fabbrica”.

 

I NUOVI OPERAI

E’ in questa fabbrica, sottoposta alla ristrutturazione del padrone, nella quale il “vecchio operaio di massa” comincia a stare con la testa rivolta ai problemi che ha fuori, che entrano i “NUOVI OPERAI”, circa 12.000 a Torino, a partire dall’inizio del ’78.

In FIAT ciò che costituisce il mercato del lavoro operaio nell’area metropolitana e cioè soggetti che per diversi motivi accettano il lavoro operaio. Rispetto alla composizione della forza lavoro dominante nella fabbrica degli anni ’60 cioè giovani, immigrati, maschi, non scolarizzati provenienti dall’agricoltura, le assunzioni recenti utilizzando un mercato del lavoro di tipo urbano, scolarizzato, mobile, di provenienza industriale e terziaria; lo stesso presente nella “fabbrica diffusa” sul territorio articolato però essenzialmente in due categorie: donne e giovani.

Sulla base di questo tipo di ristrutturazione occorre analizzare che cosa cambia a livello di coscienza operaia e della sua omogeneità.

“Se nel centellinarsi il lavoro, nel controllo sistematico della quantità di lavoro erogata, da una parte del vecchio operaio c’è una consapevole amministrazione di una lunga vita lavorativa in fabbrica, nel modo di lavorare a scatti prolungati, intervallati da lunghe pause o che sboccano nell’accumulazione a fine turno di quote di tempo risparmiate, da parte di molti giovani è presente la concezione della fabbrica come situazione provvisoria, punto di passaggio che non implica una programmazione a lungo termine di se stessi.

E vicino ai giovani che lasciano la fabbrica dopo poche settimane ci sono quelli che dentro il tempo di lavoro, dentro le otto ore, tendono a costruire spazi di libertà, momenti da usare per sé, per costruire relazioni, amicizie per fare politica, per conoscere la fabbrica”.

“Sono questioni nuove, ma che fino a ieri erano considerate assolutamente individuali e che invece un’esperienza giovanile formatasi sul territorio e che oggi entra in fabbrica pone in termini diversi. (...) Soggetto della validazione consensuale non è più il gruppo omogeneo, la squadra, ma un’aggregazione su altra base”.

Di fronte a questi fenomeni parrebbe di essere di fronte ad una spaccatura nella classe operaia tra i comportamenti sociali e culturali tra la vecchia e la nuova generazione proletaria. Tra una classe operaia sindacalizzata - che ha fondato la sua capacità di contare sul lavoro, sull’attaccamento al lavoro, sull’orgoglio di essere casse operaia e di essere classe produttrice – e una classe operaia che porta una cultura “del rifiuto al lavoro”, non orgogliosa di essere classe operaia essendo ultra secolarizzata, spesso diplomata. Questo a smarrito per strada le certezze di raggiungere le conquiste di libertà e di mutamento reale che sembravano a portata di mano dal 1969 in poi.

 

IL PROBLEMA DELLA TRASFORMAZIONE DELLA COSCIENZA OPERAIA

E’ sempre molto pericoloso schematizzare le condizioni di classe come si è fatto in precedenza anche perché nella realtà complessiva le sfumature sono molto più evidenti di quanto qui non appaia. La situazione descritta in precedenza ha una serie di fondamenti reali che si verificano anche nella quotidianità. Occorre però riflettere sulle cause che hanno prodotto questo apparente dualismo di soggetti operai.

  1. la cultura contadina è stata sostituita dalla cultura del consumismo e della nuova borghesia fascista e di conseguenza questi nuovi soggetti (oltre che nei vecchi) si portano dentro questi anni di modelli culturali metropolitani;
  2. la cultura della classe subalterna che in questo dopoguerra (e soprattutto negli ultimi cinque anni) è stata sviluppata dalle avanguardie della sinistra erano di di due tipi:

E’ mancata nella sostanza la presenza teorico strategica di sindacalisti che il movimento comunista anarchico aveva invece prodotto nei primi trenta anni di questo secolo.

Di fronte a questi elementi l’esperienza di controllo basata sulla rigidità incentrata sulla fabbrica (strategia della centralità operaia tipicamente marxista) è costretta ad un bilancio ed una scelta; così come l’abbiamo conosciuta negli anni scorsi non ha più base sociale e quindi prospettiva.

Riprendono corpo in questi contesti gli elementi strategici dell’anarcosindacalismo, dell’autogestione e della centralità della condizione proletaria sul territorio (negazione dell’operaismo) dell’unità di classe.

“Quello che è caduto, a me pare definitivamente, è la possibilità di individuare in una sola figura operaia il soggetto capace di unificare intorno alla propria cultura e ai propri comportamenti l’insieme della classe operaia, come fecero prima gli operai professionali, poi l’operaio di linea.

Bisogna ribellarsi da una parte alla cultura del rifiuto del lavoro e dall’altra alla cultura – ad essa contrapposta – dell’essere orgogliosi di far parte della “classe operaia”, del fare una bandiera dell’etica del lavoro. Bisogna lavorare per l’unità e l’unificazione sociale della classe operaia; riconoscere le diversità vuol dire proprio fare il primo passo per costruire livelli più avanzati di unità e di lotta”.

 

CONTINUA L’ATTACCO POLITICO DELLA FIAT

In questo contesto si inseriscono i 61 licenziamenti.

Il licenziamento è lo sbocco, in qualche modo il catalizzatore, di un triplice processo in corso da anni: la ristrutturazione della grande industria che a un certo momento richiede di fare i conti con la forza lavoro nella sua nuova composizione; l’affermarsi graduale e spesso contraddittorio di una nuova soggettività operaia nella forma di una nuova visuale del lavoro e del rapporto fra tempo e contenuto del lavoro e tempo e contenuto della vita; il logoramento di numerosi strumenti, storicamente collaudati a livello aziendale e a livello politico, di controllo padronale della forza lavoro e di mediazione istituzionale come controllo sindacale dei conflitti.

Si deve capire che dietro a questa operazione c’è un operazione di attacco che è molto più vasta. Essa mira a ristabilire le condizioni “vallettiane”, mira semplicemente a fare in modo che, di fronte a tutta una serie di interventi all’interno dell’organizzazione di fabbrica, manchi quell’elemento che può far si che i nuovi gruppi funzionali diventino fattore di opposizione.

Il secondo attacco portato avanti, in maniera più pesante, riguardano i licenziamenti di massa e la cassa integrazione.

Siamo oggi di fronte ad una iniziativa intrapresa dalla FIAT che percorre anche linee d’intervento culturale, teso ad accerchiare e ad emarginare un intera leva di lavoratori, le cui aspirazioni, i cui comportamenti, nei confronti della fabbrica ristrutturata, della sua gerarchia interna, del lavoro con tutta la sua scala di valori, di identità personali e sociali, sono incompatibili con il funzionamento dell’impresa ristrutturata, dove si ritorni a produrre senza quelle strozzature del ciclo dovute alla conflittualità interna.

L’attacco della FIAT non è rivolto solo contro i giovani, contro i nuovi operai coi loro nuovi sentimenti e bisogni, ma è rivolto anche contro quei punti della struttura sindacale di fabbrica, contro quei delegati che non si pongono come strumenti della produzione o come emanazione di forze politiche esterne, ma che costituiscono un raccordo fra l’esperienza acquisita di fabbrica e i nuovi operai, i giovani coi nuovi problemi.

 

LA REAZIONE OPERAIA

All’indomani della prima crisi energetica, nell’inverno ’74/’75, ha inizio alla FIAT una lunga fase di trasformazione nel corso della quale si modificano profondamente composizione tecnica del capitale e composizione sociale della classe operaia. In questo periodo, che durerà fino alle lotte contrattuali della primavera/estate del 1979, mutano radicalmente le condizioni che avevano permesso lo sviluppo del ciclo di lotte precedente. La classe operaia della FIAT, e con lei l’insieme della classe operaia dei grandi poli industriali, perde quella capacità di parlare che l’aveva caratterizzata negli anni precedenti.

L’attacco FIAT all’occupazione – come atto limitativo della possibilità di mobilità, non solo della FIAT, ma nell’insieme del mercato torinese, mette il nuovo assunto (giovani) davanti alla necessità di rivedere le sue prospettive, lo costringe a prendere in considerazione l’idea che la sua permanenza in fabbrica possa divenire più lunga di quanto aveva preventivato e a rimettere di conseguenza in discussione le sue scelte e i suoi comportamenti.

In quelle situazioni infatti nella quale la completa sostituzione di nuovi operai ai vecchi aveva fatto sperare in una possibilità di ripristinare i vecchi rapporti di lavoro ciò non è passato, dimostrando la non disponibilità dei neo assunti a tornare indietro, anche se il percorso della loro politicizzazione ha una direzione inversa a quella degli anni ’60; non più dalla fabbrica al territorio, ma dal territorio come fabbrica totale, al singolo segmento lavorativo.

E’ indicativa la reazione degli operai di fronte al nuovo attacco FIAT (licenziamenti 15000 e 24000 in C.I.).

Da una parte abbiamo avuto il riemergere di vecchi quadri professionali in gran parte legati al PCI che hanno fin da subito tirato i momenti di lotta iniziali (si ricordino già le avvisaglie per la lotta dello 0.50%) e dall’altra la presenza nuova e diversa dei giovani all’interno delle mobilitazioni.

Per capire perciò la dinamica dell’ultimo scontro FIAT/lavoratori occorre tener presente:

  1. come abbiamo visto la ristrutturazione ha inciso profondamente sull’unità e le strutture di base dei lavoratori;
  2. si è sviluppata enormemente la capacità della FIAT di imporre la mobilità aziendale (grazie anche ai vertici sindacali) e di licenziare forti quote di lavoratori per “inidoneità” ed assenteismo. Si parla di più di 5.000 lavoratori in due anni;
  3. esiste una dichiarata “inidoneità” per altri 12.000 lavoratori alle catene FIAT Mirafiori che potrebbero essere licenziate con i meccanismi normali di fabbrica;
  4. negli ultimi contratti il padronato e la FIAT non sono stati sconfitti dal momento in cui non era mai successo da molti anni che alla conclusione delle lotte contrattuali così aspre e così dure il grande padronato fosse in grado di porre problemi generali di strategia con tale violenza e brutalità come li ha posti in queste settimane;
  5. molti anni di politica fallimentare dei vertici sindacali hanno inciso sulla capacità organizzativa e di lotta nonché hanno di fatto visto portare avanti una politica di cogestione della crisi e di compressione del salario reale.

 

LA RICOLLOCAZIONE DEI CICLI PRODUTTIVI DELLA FIAT

La strategia del decentramento attuata dalla FIAT negli ultimi 10 anni non si è sviluppata solamente nell’area metropolitana torinese, anzi ha avuto uno sviluppo soprattutto nelle aree “depresse” del Nord Italia sia nello stesso Piemonte che nella Bassa Lombardia. Si è in sostanza assistito allo smantellamento di alcune grandi fabbriche a Milano (OM) e nella stessa Torino le cui lavorazioni sono state suddivise in fabbriche minori fatte nascere in posti più “tranquilli” e su di un nuovo tipo di organizzazione del lavoro.

Nelle zone “periferiche” delle aree industriali si è sviluppata una piccola e media industria (dall’artigianato all’azienda con 150 dipendenti max.) – durante il periodo di crisi – legata al ciclo produttivo FIAT ma “autonoma” nell’apparenza dalla stessa azienda.
Lo sviluppo dell’occupazione locale si è inserito su un tessuto ancora contadino ed ha fatto si di assorbire manodopera ulteriormente espulsa dalle campagne.

I livelli di coscienza di classe che vengono espressi in questo tipo di zone non possono essere assolutamente paragonati a quelli delle aree metropolitane. La dimensione di vita e delle contraddizioni sociali vengono stemperate in mezzo al verde delle campagne garantendo così un grosso isolamento della classe.

Malgrado che il sindacato sia riuscito malamente a costruire collegamento fra le maggiori fabbriche, la presenza notevole di lavoratori artigiani non permette all’organizzazione operaia di coprire vasti strati di classe operaia.

Non a caso di fronte alla vertenza FIAT vi sono stati si mobilitazioni di avanguardie, ma la gran parte dei lavoratori ha risposto molto disinteressatamente a quello che stava succedendo a Torino vivendo da “esterni” un attacco che sentono lontano.

La dispersione della classe operaia attuata dal padronato ottiene così l’obbiettivo di divisione della classe e l’abbassamento della potenzialità di aggregazione e di crescita della classe.

E’ proprio in questo ambito che risulta ancor più necessario ripensare alle possibilità di aggregazione di classe ed alla riorganizzazione degli organismi operai sul territorio.

 

LA RISTRUTTURAZIONE PRODUTTIVA NELLE AZIENDE DEL SUD

La realtà di alcune grosse fabbriche al sud ha fatto emergere le contraddizioni della politica assistenzialistica attuata per finanziare il padronato multinazionale.

Nella FIAT al sud abbiamo assistito a forti fenomeni di ristrutturazione produttiva interna alla fabbrica ed, a differenza del nord, intervenendo soprattutto sulla forza lavoro come sul capitale fisso.

In altri termini non si è assistito, come al nord, a fenomeni come la robotizzazione (visto che le aziende erano di recente costruzione) ma si è assistito ad una grande propaganda del padronato per lo sviluppo della produttività aumentando i ritmi, combattendo l’assenteismo, etc.

Con il ricatto del posto di lavoro, del licenziamento, della cassa integrazione, il padronato ha sviluppato una campagna diffamatoria tesa a screditare la classe operaia ed a giustificare i licenziamenti politici, la cassa integrazione e l’aumento dei ritmi.

In questa chiave viene sviluppata la campagna contro l’assenteismo che costringe anche il sindacato a posizioni difensive mettendolo nell’impossibilità (o non volontà?) di intervenire sulle reali cause dell’assenteismo: la qualità del lavoro e l’organizzazione produttiva.

 

LA VERTENZA FIAT ED IL RUOLO DELLE OO.SS.

Tutta la ristrutturazione FIAT vista in precedenza si è sviluppata grazie ad una compiacente politica di cogestione e subalternità dei vertici sindacali.

Le responsabilità di questa situazione vengono da lontano e sono ben rintracciabili; basti pensare alla linea dell’EUR, linea sindacale costruita in funzione dell’ingresso del PCI al governo, che pur di perseguire questo fine ha permesso al padronato di riacquistare quella immagine arrogante che aveva negli anni cinquanta; ed in questo processo il sindacato, che negli anni sessanta aveva riconquistato la fiducia della base proprio dopo il periodo della gestione da parte di Valletta della FIAT, ha rischiato di ricadere nella stessa situazione di allora.

In queste condizioni si è articolato l’attacco FIAT così sintetizzabile:

  1. attacco diretto alla classe operaia in fabbrica con la minaccia del licenziamento e ora della cassa integrazione individuale;
  2. attacco alle avanguardie in fabbrica con i 60 licenziamenti prima e la cassa integrazione nominativa poi. In questo senso il sindacato non è stato in grado di garantire nemmeno i propri militanti.
  3. attacco alla credibilità della classe operaia e alle sue rivendicazioni attraverso la propaganda dell’assenteismo, della bassa produttività, del terrorismo e della criminalizzazione;
  4. isolamento della classe operaia sul territorio sia attraverso il decentramento produttivo sia attraverso la rottura della politica delle alleanze che la classe operaia era riuscita a sviluppare nel ciclo di lotte precedente (impiegati, tecnici, ecc);
  5. criminalizzazione della lotta attraverso la gestione della politica del terrorismo e l’uso degli strumenti classici della repressione giuridica. Si ricordi l’ultimatum ai picchetti.

Abbiamo parlato prima di politica delle alleanze e ricordiamo le lotte per l’inquadramento unico nel tentativo di saldare i ceti impiegatizi alle lotte operaie.

Finché questo tentativo si è sviluppato come progetto egemone della classe operaia, cioè fino al contratto del 1972, esso ha registrato degli indubbi successi. Di tutto altro segno è stato invece il progetto del PCI e poi delle OO.SS., che proprio da quel contratto hanno cominciato a svendere le lotte ed a penalizzare le strutture di fabbrica e di zona, fonti pericolose di conflittualità unitaria di base, che da una parte ha inseguito i ceti medi sul corporativismo, riscoprendo la professionalità e gli effetti “perversi” dell’appiattimento egualitaristico, e dall’altra ha sacrificato gli stessi ceti ad una politica produttivistica e di risparmio per il risanamento della pubblica amministrazione, penalizzandoli sul salario.

Politica quindi contraddittoria, che da un lato non legava i ceti medi ad un progetto globale di trasformazione in grado di far digerire una maggiore funzionalità dei servizi per il timore di un saldarsi di un fronte unico come era avvenuto tra il 1969 e il 1974, ma dall’altro li sacrificava in nome di efficientismo privo di qualsiasi respiro strategico, inseguendoli poi nelle richieste più corporative. Ma la DC ed Agnelli sono più bravi del PCI e del sindacato sul corporativismo e sul clientelarismo, e così i ceti su cui si basava la strategia del compromesso storico, abbandonando il PCI, hanno monetizzato la lotta e sono scesi in 40.000 (ma le prime notizie della Prefettura di Torino parlavano di 12.000/15.000 persone, poi i mass media hanno fatto il resto) al suo fianco.

A questo punto le OO.SS. si sono trovate imbottigliate nella loro miopia, con l’aggravante che il PCI era ormai definitivamente allontanato dall’area del governo dall’accordo Craxi/Longo/Pannella, ed hanno firmato un accordo che segna una sconfitta difficilmente recuperabile.

Anche col senno di poi; è ormai evidente che il capitalismo italiano si è servito del PCI come di un comodo alleato momentaneo, per attuare la fase più delicata della propria ristrutturazione, chiudendolo nel vicolo cieco sopra accennato, e scaricandolo al momento più opportuno. Questo è tanto vero che nelle trattative per il nuovo governo il PCI, nonostante l’aggressività crescente dell’ultimo anno, è stato coinvolto solo di striscio per chiedergli un’opposizione più accomodante.

Ma se la sconfitta della FIAT viene da lontano, non per questo minori sono gli errori recenti. Abbiamo già detto della realtà della crisi internazionale, ma quello che è veramente straordinario è che le OO.SS. abbiano avvalorato la tesi della crisi FIAT. L’azienda aveva recentemente chiesto un prestito alla Medibanca, che per concederlo ha voluto come garanzia una rivalutazione del capitale azionario da 165 a 337.5 miliardi, che la FIAT ha fatto con l’emissione di nuove azioni che sono state subito acquistate al mercato azionario, salendo subito di valore; mai si è visto un’azienda in crisi rivalutare il capitale e farlo con tale successo.

D’altra parte la FIAT ha distribuito nel 1979 ottimi dividendi e si appresta a ridistribuirli questo anno: infatti il fatturato dell’azienda è passato dai primi sei mesi del 1979 ai primi sei mesi del 1980 da 7311 a 8976 miliardi, ma anche il tanto vituperato settore auto non va poi così male se nello stesso periodo il suo fatturato è passato da 3754 a 4463 miliardi (1). A conclusione della vertenza è comunque evidente che l’attacco della FIAT è anche soprattutto politico: Agnelli vuole liberarsi e ricostituire un sindacato giallo, sindacato che è già sceso in piazza contro i lavoratori.

Infatti, ammettiamo che la crisi fosse veramente grave, come la FIAT dice. Allora l’azienda avrebbe richiesto 24.000 CIG a zero ore, al massimo specificando i gruppi omogenei interessati al provvedimento. Ora invece le richieste di CIG sono nominali, vere e proprie liste di prescrizione e passano attraverso i gruppi omogenei smembrandoli; ma il senso politico dell’operazione osservando che i lavoratori interessati dal provvedimento sono per lo più attivisti sindacali o militanti dell’estrema sinistra. E’ allora evidente che dopo aver espulso i 61 nell’ottobre scorso, sotto il sospetto di terrorismo, saggiando il terreno della resistenza sindacale e della disponibilità della magistratura che prontamente anche questa volta è corsa in aiuto, decretando la smobilitazione forzata dei picchetti operai, la FIAT ha tentato il colpo grosso per cancellare con un colpo di spugna ogni forma di opposizione, vanificando anche la flebile pretesa delle OO.SS. sulla programmazione e sul controllo degli investimenti. Non è un caso che la gran parte della trattativa, una volta caduto il falso problema dei licenziamenti, si è incentrata sulla CIG nominale voluta dalla FIAT o sulla CIG a rotazione voluta dalle OO.SS.

Ed è proprio su questo punto che i sindacati hanno ceduto, accettando l’espulsione dei propri quadri a tempo indeterminato, e giocandosi la propria possibilità di permanenza alla FIAT e forse conoscendo un pesante ridimensionamento di presenza all’interno della classe operaia: chi si impegnerà più per un sindacato che non solo non è più in grado di difendere gli interessi dei lavoratori, ma neppure i propri attivisti e militanti dall’espulsione?

Questa operazione ha visto gli Agnelli riaffermare il proprio ruolo indiscutibile di padroni, diventando la spina dorsale della nuova aggressività padronale che ne farà un esempio da imitare. Tanto è vero che dopo la vittoria la FIAT ha chiamato alcuni operai a fare lo straordinario festivo: la beffa si aggiunge al danno, a significare inequivocabilmente che il vincente può permettersi tutto, anche il comportamento più contraddittorio, perché la controparte è ormai senza prospettive.

Quali sono allora le vie perseguibili dal movimento di classe per uscire dalla morsa di un revisionismo pronto a svendere le lotte e che sta ormai mostrando impietosamente la propria cecità strategica ed un capitalismo aggressivo che prova nel PSI di Craxi il proprio interprete?

 

I PROBLEMI DELLA RICOSTRUZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE E DELL’UNITA’ DELLA BASE OPERAIA

Siamo convinti che la crisi che sta passando il sindacati sia sostanzialmente dovuta ad un continuo mutamento delle proprie funzioni e ruoli, andate sempre più a limitarsi a “patronato assistenziale”, utilizzando solo idealisticamente, in speciali occasioni quei concetti che caratterizzano la struttura organizzativa del proletariato.

Struttura con un progetto politico di trasformazione che faccia partecipare realmente la classe unita nell’organizzazione dei propri interessi storici e immediati.

La nascita dei Consigli di Fabbrica, dei C.U.B., dei Comitati di Sciopero, la conquista delle assemblee, che cosa era nei fatti se non una rivolta di massa contro il “padrone”, ma anche contro un modo vecchio di “fare sindacato”?

Questo nuovo protagonismo della gente, dei lavoratori, questo gusto di riprendersi la parola nelle assemblee e nelle lotte, fu un salto qualificativo che spinse, non senza traumi ne manovre in senso inverso, gli apparati a seguire l’onda, ad adattarsi, a modificarsi per rimanere al passo con un movimento che esprimeva, nella pratica di ogni giorno, il rifiuto della delega; lotte autogestite dal basso, dai reparti, dalle linee, dagli uffici e dalle fabbriche.

Detto questo pensiamo che gli errori politici, i verticismi, la gestione autoritaria delle nostre organizzazioni sono strettamente collegate al tipo di struttura che esiste nel sindacato.

Se il nostro obbiettivo è il controllo reale, come lavoratori, delle nostre organizzazioni, dobbiamo dire che gli attuali apparati: il sindacato nuovo, il sindacato dei consigli, il sindacato dell’autogestione delle lotte, che si affacciava allora sulla scena con qualcosa che, partendo da strutture di base realmente rappresentative, unificava lotta economica e lotta politica, non voleva solo aumenti salariali, ma rivendicava più potere in fabbrica e fuori.

Era quindi, in prospettiva, quel sindacato che unificava la classe sui bisogni, superava steccati e divisioni ideologiche delle organizzazioni tradizionali; non più quindi comunisti, socialisti o cattolici divisi in parrocchie di appartenenza, ma lavoratori che lottano per modificare la propria realtà, crescevano e realizzavano unità reale a partire dal semplice fatto di essere lavoratori e, quindi, al di la della ideologia, di essere classe, di essere sfruttati.

Unità per noi non significa prendere dieci o mille o centomila tessere UIL, sommarle ad altrettante CISL e a qualcuna in più della CGIL; è anche, in parte, tutto questo, ma è anche molto di più: è la volontà e la pratica reale di fare e costruire assieme PARTECIPAZIONE, LOTTE e ORGANIZZAZIONI AUTOGESTITE.

 

RIVEDERE IL RAPPORTO TRA APPARATO E LAVORATORI

Dobbiamo innestare, quindi, delle controtendenze: una proposta potrebbe essere quella della rotazione delle cariche.

La ROTAZIONE – Finora l’unica rotazione che vediamo nel sindacato è quella verso l’alto; sembra quasi che anche il sindacato sia uno tra i tanti modi di fare carriera.

Da operatore si passa a segretario di zona, da segretario di zona a segretario provinciale, dal provinciale al regionale, al nazionale, ecc.

La rotazione che vorremmo vedere noi però non è solo questa: perché non innestare meccanismi di rotazione verso il basso? Innestare questa rotazione significa:

  1. Modificare i rapporti tra base e apparato. Oggi l’apparato dirige indisturbato perché è elemento di continuità. Con la rotazione verso il basso l’apparato avrebbe una forte mobilità e quindi la vera continuità verrebbe mantenuta dalle strutture di base.
  2. Questa rotazione tende ad eliminare il “leaderismo”, cioè la tendenza, per alcuni, a diventare capi naturali e quindi a gestire autoritariamente l’organizzazione, favorita dall’attuale tendenza dei quadri di base a delegare ai capi le scelte importanti.
  3. Questo metodo impedisce il formarsi di gruppi di potere e di clan chiusi.
  4. La rotazione apre l’apparato con il ricambio continuo e lo obbliga a vivere e a pensare come lavoratori.
  5. Organizzandoci in questo modo, ci saranno nelle fabbriche quadri maggiormente preparati dall’esperienza fatta a tempo pieno nel sindacato e in grado di gestire l’organizzazione pur restando in fabbrica.

La verità è che la ricostruzione dell’ipotesi del sindacato autogestito non può che passare dalla nostra pratica di ogni giorno, dal rapporto, il più aperto e costruttivo possibile con i nostri compagni di lavoro, con la costruzione di assemblee di fabbrica che non siano passerelle per il delegato o per la star sindacale di turno, ma momento serio di confronto e di crescita comune.

 

Per la rifondazione delle strutture di base

Crediamo che il discorso dell’unita di classe passi attraverso la rifondazione dei Consigli di Fabbrica, intendendo con questo la necessità che i lavoratori si riapproprino di questi organismi nati dalle loro lotte del ’68/’69, che i riformisti stanno trasformando, riuscendovi in parte, in rappresentanze sindacali aziendali.

Nostro obbiettivo è combattere questo per riaffermare la necessità che i CdiF siano organismi controllati direttamente da assemblee generali dei lavoratori.

Crediamo idonei a questo scopo i CdiF perché radicati tra i lavoratori e da essi riconosciuti, anche se non abbiamo pregiudizi nei confronti di altri organismi, purché siano eletti dall’assemblea generale dei lavoratori.

Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica

 

Nota:

1. G. MONTI, Conferma del dividendo FIAT, in “La Nazione”, 26.IX.1980, p.12


(Originale ciclostilato presso il Centro di Documentazione Franco Salomone, Fano.)