L'Affaire Passanante
(già contributo di Franco Mercurio della redazione di "Crescita Politica", nel n°3 del notiziario omonimo a cura dell'Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica - Foggia, febbraio 1979)
Ricorreva il 17 novembre 1978 il centenario dell'attentato di Giovanni Passanante a Umberto I, avvenuto in Napoli durante un viaggio "promozionale" del nuovo re. L'importanza di queste attentato è stata per decenni sottovalutata dal Movimento Anarchico che, acriticamente, continuava a brindare al gesto dissacratorio come simbolo di negazione del potere, ignorando le cause e gli effetti di tale azione.
Mentre a Napoli fervevano i preparativi per organizzare il soggiorno del re, il cameriere Giovanni Passanante, estremizzando i dettami del III Congresso della Federazione Italiana dell'Internazionale a Vallombrosa, vicino Firenze, preparava il coltello per giustiziare il monarca. Durante la sfilata, staccatosi dalla folla, saltava sulla carrozza del re, ma la reazione di Benedetto Cairoli che faceva da scudo al regnante, evitava l'esecuzione. Volendo parafrasare le parole dei moderni lottarmatisti, Passanante aveva alzato di una spanna il tiro.
La "propaganda col fatto", che fino all'esperienza della Banda del Matese aveva significato proporre le avanguardie politiche come punta della jacquerie contadina, con l'attentato a Umberto I perde ogni velleità popolare, chiudendosi nell'atto simbolico, nel colpire (come si dice oggi) il "cuore dello Stato". Era questa l'estrema conseguenza della strategia politica adottata dal Comitato Italiano per la rivoluzione sociale, gruppo che aveva propugnato tutte le azioni militari compiute dall'Internazionale in quegli anni. Ma, al contrario delle aspettative di Passanante, l'attentato invece di creare nella classe dirigente del paese un momento di disorientamento, accelerò la tendenza repressiva degli apparati statali.
Infatti, le bombe che scoppiano in cortei filomonarchici il 18 dello stesso mese a Firenze e il giorno successivo a Pisa vengono logicamente attribuiti agli anarchici, quando invece si ponevano in una precisa logica di potere, capace di reprimere il movimento di classe che, esprimendosi con strategie di intervento politico nella classe, stava riprendendosi dai colpi inferti dalla repressione a corredo dei moti del '74 e del Matese nel '76.
Inoltre quel gesto che voleva essere almeno simbolico venne snaturato dalla manovra politica del re che, commutando la pena di morte inflitta a Passanante in ergastolo, rafforzò enormemente la credibilità dello Stato. Passanante, rinchiuso in una cella impraticabile, sarebbe morto dopo molti anni, ormai reso folle dalla segregazione, nell'indifferenza di quasi tutti.
Questo episodio, che a nostro modo abbiamo voluto commemorare, si pone a conclusione di una linea strategica che si mostrò fallimentare e fu criticata già all'indomani dei moti del '74. Fino ad oggi c'è stata la convinzione da parte di molti anarchici che la Federazione Italiana dell'Internazionale, almeno fino alla "apostasia" di Andrea Costa, fosse unitaria nelle strategie; o meglio ancora troppi anarchici non hanno saputo vedere una strategia precisa dietro l'insurrezione, così come non hanno mai saputo e voluto spiegarsi l'improvviso calo degli antiautoritari rispetto agli autoritari che nel giro di pochissimi anni avrebbero dato diverse gambe e diverse teste al movimento di classe. Anzi, ad essere più precisi, nessuno ha mai analizzato in concreto quel decennio (1872-1882) in cui la Federazione Italiana di stampo bakuninista si espresse con diverse strategie contemporaneamente -a volte contrastanti- senza porsi il problema di un'omogeneità teorica.
In realtà esisteva una confusione di fondo fra strategia politica e teoria soprattutto nell'ala più nota della Federazione -il Comitato Italiano per la Rivoluzione Sociale- che estremizzando al massimo il rapporto mezzo-fine arrivava a proporre azioni che non erano neanche più esemplari, ma in sé e immediatamente rivoluzionarie. Cioè il pensiero di Malatesta, Cafiero, Costa, ecc. doveva essere all'incirca questo: "Poiché siamo contrari alla concezione machiavellica in cui il fine giustifica i mezzi e visto che il nostro fine è l'anarchia ossia la negazione dell'autorità, il nostro mezzo dovrà necessariamente essere la negazione dell'autorità".
In pratica veniva individuato nella ribellione di massa non un esempio ma la identicità fra mezzo e fine: distruggere l'autorità per distruggere l'autorità. Questa identicità fra mezzo e fine era immediata e non gradualistica, come l'ORA dichiara oggi nelle sue tesi politiche, cioè far sì che con il mezzo dell'azione diretta, del federalismo e dell'autogestione (ossia la negazione dell'autoritarismo) la coscienza della classe cresca autonomamente con tempi e modi suoi per arrivare alla comprensione reale e totale del fine (ossia arrivi alla coscienza rivoluzionaria libertaria) senza che i quadri politici decidano delle scelte e delle scadenze per il futuro.
La crisi di quella concezione politica di sviluppò in termini completamente diversi allorquando la triade famosa si spaccò: Cafiero verso la pazzia, Costa al parlamento e Malatesta sempre più isolato.
Il fautore di una revisione del binomio mezzo-fine sviluppatosi con l'insurrezionalismo fu lo stesso Malatesta che in merito alla questione dell'acquisizione della coscienza politica da parte dei lavoratori espresse in questa metafora l'esigenza di permettere ai proletari di arrivare ad una coscienza rivoluzionaria attraverso un processo abbastanza graduale. La metafora malatestiana era: "l'appetito vien mangiando" applicata alle rivendicazione sociali e politiche del proletariato italiano; questa, tradotta in termini correnti, vuole significare che la rivoluzione anarchica è frutto di un continuo crescere della coscienza individuale in coscienza di classe e poi in quella rivoluzionaria attraverso le sue manifestazioni reali, attraverso la quotidianità delle lotte.
Negli anni '70 dello scorso secolo, invece, questa fusione immediata fra mezzo e fine indicava una confusione fra teoria e strategia e si concretizzava attraverso la presenza di almeno quattro varianti strategiche, che non provocò un dibattito politico fra le sezione della Federazione Italiana, ma diede l'avvio alla concezione pluralistica dell'anarchismo che col passare degli anni scadde in un permissivismo strategico e tattico; lo stesso che ispirò i vari patti associativi delle organizzazioni anarchiche fondati sul presupposto di una teoria unitaria, senza andar più a codificare per iscritto o, quanto meno, verbalmente le discriminanti teoriche anarchiche, che senza ombra di dubbio partivano da precise istanze di totale liberazione da ogni forma di sfruttamento che il proletariato andava sempre più concretizzando nella Prima Internazionale. La grande contraddizione degli anarchici si tradusse allora nell'esigenza di un'unica formula organizzativa che permettesse la convivenza di più strategie e tattiche, molto spesso contrastanti e opposte fra di loro; insomma il pluralismo degli anarchici non si basò sulla possibilità di più organizzazioni anarchiche distinte teoricamente e strategicamente, ma in stretta collaborazione fra di loro, bensì su una fittizia organizzazione che si chiudeva in annosi dibattiti interni e si allontanava sempre più dal principale fattore rivoluzionario, cioè il proletariato, abbandonandolo nelle mani dei riformisti.
Quella concezione pluralistica, inoltre, diede l'avvio ad un modo di fare politica sostanzialmente non molto diverso da quello che correva fino a qualche anno fa nel nostro movimento, ossia la scelta individuale a quella collettiva che si traduceva nella polarizzazione intorno a personaggi autorevoli che fra di loro non si risparmiavano accuse e scomuniche continue, tuttavia sempre contenute in un preciso ambito che rifiutasse ogni rinnovamento metodologico, teorico e strategico all'interno degli anarchici; e in tutto questo alla massa dei militanti non rimaneva che scegliere di parteggiare con l'uno o con l'altro sena potersi individuare in una "corrente" ben precisa. In effetti ogni tentativo che fu portato avanti con la speranza di creare punti fermi teorici e strategici collettivi (ora non stiamo a valutare se le prospettive teoriche e strategiche erano giuste o sbagliate) furono immediatamente stroncati da una sorta di omertà che appariva all'interno del Movimento, fra i settori più disparati e in lotta fra di loro: ricordiamo qui l'isolamento del gruppo Dielo Truda, dei GAAP italiani, degli "archinovisti" post-sessantotto. O del gruppo di Andrea Costa per ritornare al nostro discorso.
Solo la "apostasia" di Costa infatti provocò un dibattito politico, sia perché metteva in discussione la strategia del gruppo leader della Federazione, sia perché la sua scelta elettoralista presupponeva il principio di una revisione teorica; tuttavia nonostante ciò la polemica si incentrò sul fatto che a Costa soprattutto fu contestata la scelta strategica e non quella teorica. Ancora una volta la Federazione Italiana confondeva strategia politica con teoria.
(…)
(Originale ciclostilato presso il Centro di Documentazione Franco Salomone, Fano.)