Parte III
L'infrastruttura socialista

 

I - La gestione diretta della fabbrica
II - Socialismo e trasformazione del lavoro
III - L'organizzazione dell'economia
IV - Ecologia e rivoluzione
V - Formazione, istruzione, socialismo

 

La rivoluzione vuol dire il passaggio da un modo di produzione ad un altro, all'occorrenza dal modo di produzione capitalista a quello socialista. Un modo di produzione, essendo definito dallo stato dei rapporti di produzione (proprietà dei modi di produzione, posto della produzione, metodo di ripartizione) e delle forze produttive, rende necessario dunque l'interrogarsi su queste due categorie e sui cambiamenti che interverranno nel loro seno durante e dopo la crisi rivoluzionaria e che conferiranno al nuovo modello di produzione il suo carattere socialista e in seguito comunista. La costruzione del socialismo, a livello di infrastruttura, non potrà avvenire che grazie alla sconvolgimento radicale su tre punti almeno:

Fin da ora, conviene sottolineare la totale interferenza di questi tre aspetti dell'infrastruttura (come la loro indipendenza col resto della formazione sociale). Così anche le scelte tecnologiche hanno una influenza evidente sull'organizzazione del lavoro. Lo stesso, le scelte in materia di consumi influiscono sulla durata del lavoro, etc.

 

I - La gestione diretta della fabbrica

Questione di termini per prima cosa: quale parola bisogna preferire? Gestione diretta, autogestione, gestione operaia…? Dal canto nostro le impiegheremo per il momento indifferentemente. Risolto ciò, la questione principale sembra essere la seguente: i lavoratori, la collettività dei produttori, saranno in grado di gestire essi stessi le fabbriche? Per autogestione si deve in effetti intendere molto di più della semplice auto-organizzazione del lavoro quotidiano in ogni officina, ogni ufficio, ecc., e l'elezione di "responsabili" da parte della base. L'autogestione di cui parliamo qui è l'autogestione integrale. Essa non ha niente a che vedere coi pretesi progetti "autogestionari" (di cui bisognerà fare una critica serrata) che non mirano che a stabilire il potere dei lavoratori in seno alle loro officine, lasciando i compiti di organizzazione e di gestione generale della fabbrica nelle mani di una gerarchia, anche se eletta. Il campo delle decisioni affidate ai lavoratori è allora ancora limitato, poiché i grandi obiettivi, la politica generale della fabbrica, sono discussi altrove, senza di essi, ai quali non resta che condurre il loro lavoro per realizzare questi obiettivi con un margine di libertà dei più ristretti. Per noi l'autogestione implica, al contrario, che la collettività dei lavoratori, nel suo insieme, faccia essa stessa funzionare tutti gli ingranaggi dell'immensa macchina dell'industria moderna. In questo caso, e in questo caso solamente, potremo parlare di riappropriazione dei mezzi di produzione e di cambiamento nei rapporti di classe. In queste condizioni, argomento sovente inteso, la crescente complessità delle attuali unità di produzione non impedisce una reale autogestione? Quest'ultima non è possibile solo nel seno di piccole e medie industrie? L'esperienza storica sembra di poca utilità su questo punto, le esperienze di autogestione messe realmente in atto sono in effetti il più delle volte portare avanti in un contesto industriale differente dal nostro, ciò che non gli impedisce di costituire una risposta -insufficiente- a quelli che affermano che il proletariato è incapace di fare a mano dei padroni (o dei capi) per far funzionare le fabbriche (i padroni hanno bisogno di operai, gli operai non hanno bisogno di padroni). Bisogna essere coscienti che erediteremo, dopo la presa del potere, una dote di struttura industriale che ci si imporrà durante un tempo assai lungo (ristrutturare l'economia di un paese è impossibile in 15 giorni, come in 15 mesi), ed è in questo contesto industriale imposte che l'autogestione dovrà fare le sue prove. La questione della deconcentrazione/decentralizzazione dell'economia resta aperta, ma essa implica un più lungo termine. Per adesso, si tratta di sapere come autogestire una grande fabbrica di migliaia di lavoratori (l'autogestione delle PMI sembra a priori meno problematica).

Il contenuto della gestione operaia

Qual è il contenuto della gestione operaia? In altri termini, quali sono le decisioni, le responsabilità che investono la collettività dei lavoratori nella fabbrica socialista? In maniera generale, conviene, in primo luogo, distinguere fra il che produrre e il come produrre. Se la determinazione del "come produrre" ritorna senza dubbio all'industria, essa può anche pesare sul "che produrre", vale a dire può determinare o partecipare alla determinazione degli obiettivi di produzione in quantità (e nei limiti) e in qualità (tipo di prodotto, ecc.), oppure le decisioni dipendono solo dall'organismo di pianificazione? L'autonomia dell'industria non forzatamente limitata dal piano, vale a dire dalla gestione collettiva della società intera, che impone degli obiettivi da raggiungere, anche se essa viene anzitutto consultata sulle sue capacità e se essa partecipa anche alla determinazione di questi obiettivi? Se è il caso, la gestione operaia diretta si applica dunque principalmente al "come produrre" (come realizzare gli obiettivi) e alla gestione quotidiana dell'industria (approvvigionamento, vendita della produzione, compatibilità, salari, ecc.). L'autogestione deve dunque, in primo luogo, portare all'organizzazione del lavoro, che deve diventare auto-organizzazione del lavoro. La capacità dei lavoratori in questo campo sembra ormai già acquisita ed è facile dimostrare (bisognerà farlo) che la gerarchia e la divisione del lavoro sono produttrici più di disfunzione che di efficacia. Restano da definire le competenze di ognuno in seno alla fabbrica autogestita: ogni servizio, ogni officina, ogni ufficio sarà libero di adottare il suo metodo di lavoro, e questa decisione è di competenza di tutta la fabbrica (possono coesistere forme differenti di organizzazione del lavoro?). Il problema dei servizi centrali, di approvvigionamento, di andamento, di relazione col modello, in breve tutti i servizi non produttivi dell'industria, è più complesso: bisogna mantenere dei servizi specializzati e separati, oppure è l'insieme dei lavoratori della fabbrica che deve assumersi l'insieme di questi compiti, a rotazione? Una tale rotazione è possibile (problemi di formazione)? L'assenza di una tale rotazione d'altronde, non renderebbe illusorio il potere dei lavoratori sulla fabbrica? L'apertura dei libri di conto è sufficiente? Esistono altre possibilità, essendo ben inteso che in ogni modo, l'informazione massima di ciascuno sui suoi problemi deve essere assicurata insieme alla formazione. Poiché si parla di compatibilità, conviene porre il problema del calcolo dei prezzi. Il prezzo del prodotto, all'uscita dalla fabbrica, deve corrispondere al valore della forza lavoro che vi è concentrata (lavoro vivo = salari + lavoro morto = ammortamento delle macchine, materie prima, ecc.). Ma l'impresa deve anche destinare un di più per la sua modernizzazione o per altri investimenti? Spetta a lei decidere l'ampiezza di questo "di più" (che aumenta il prezzo di vendita)? Spetta a lei gestirlo? Ecco una prima idea dei problemi di contabilità che possono nascere in una fabbrica socialista. Oltre ai lavoratori produttivi e a quelli dei servizi, che sono tuttora dei proletari, esistono nell'industria capitalista moderna, delle altre classi. Prima di tutto l'apparato di inquadramento e di controllo che dovrà scomparire. Ecco dunque posta la questione del "riciclaggio" di queste categoria di salariati. Ma anche l'apparato "tecnico" della fabbrica: tecnici, ingegneri, ricercatori, etc. Quale sarà il loro ruolo nella fabbrica socialista? Possiamo fare a meno delle loro competenze? Qual è il loro ruolo nella fabbrica capitalista? L'estrema sofisticazione di certe tecniche moderne che bisognerà senz'altro continuare ad utilizzare, non li rende forse indispensabili? I loro interessi sono gli stessi di quelli dei lavoratori? Quale deve essere il loro potere nelle istanze decisionali della fabbrica? Il loro potere non è in ogni caso soprattutto nel loro sapere? Come controllarli?

La democrazia diretta nell'impresa

Quali saranno le strutture del potere nella fabbrica? Come e da chi saranno presi i differenti tipi di decisioni?

Esiste "divisione del lavoro" tra i consigli locali e quelli di fabbrica: i primi occupandosi dei problemi politici, i secondi relegandosi nella gestione economica? Oppure vi è una miscela di responsabilità, cosa che implica un doppio potere dei lavoratori rappresentati sia nei consigli locali che di impresa. Il problema delle strutture di democrazia diretta non pone delle questioni di taglio (reali e figurate)? La democrazia diretta suppone, oltre la piena informazione di ognuno, la possibilità di uno scambio di idee e opinioni, scambi approfonditi e condotti su una totale parità di tutti i partecipanti. Tali imperativi possono essere soddisfatti in una assemblea generale di 5000 persone? Quest'ultima non rischia di diventare il campo chiuso di una lotta fra leaders, tra i "prepotenti" (sovente membri di organizzazioni politiche), fra lavoratori ai quali non resta altro che votare per uno o l'altro di questi, riproducendo di fatto i meccanismi della delega del potere? Il mandato imperativo così come la rotazione e la revocabilità permanente, sono garanzie sufficienti? Nella cura di non eludere le difficoltà, ecco un estratto del libro di D. Mothè "L'autogestione goccia a goccia" che pone delle questioni a nostro avviso importanti: 

"le tecniche di presa delle decisioni nelle assemblee generali che raggruppano sovente diverse centinaia di persone, non sono proprie della comunicazione, né della creazione di progetti. Solamente una piccola parte della popolazione partecipa alle discussioni, e l'emergere di questa minoranza contribuirà ad accentuare la divisione con gli altri partecipanti. Un'assemblea generale dove i partecipanti superano la ventina rende matematicamente impossibile le comunicazioni fra tutti i partecipanti. Su un'assemblea di 20 persone, supponendo che ciascuno impieghi 5 minuti per esprimersi, si arriva ad un totale di oltre un'ora e mezza, e questo non vuol dire che ogni persona avrà comunicato con le altre per tanto; la formulazione di un discorso non presuppone che coloro che lo ascoltano lo comprendano anche, oppure che colui che lo formula arrivi ad approfondire bene ciò che vuol dire e sappia il significato di ciò a cui mira. Solamente qualche persona si esprime in tali riunioni di solito per le seguenti ragioni:

Sembrerebbe impossibile che le decisioni prese possano essere il risultato di uno scambio di tute le opinioni e un incontro di tutte le esperienze, anche supponendo che certuni esprimano non solo la loro opinione, ma quelle di sottogruppi".

In queste condizioni, la democrazia diretta non passa prima di tutto attraverso dibattiti in strutture più ridotte: officine, uffici, etc.

 

II - Socialismo e trasformazione del lavoro

Il lavoro è l'attività primaria dell'uomo. Oggi giorno è anche la più alienata. La divisione del lavoro è la base stessa dei rapporti di produzione, conferisce a ciascuno il suo posto nella società, determina i rapporti di ognuno verso i mezzi di produzione e i rapporti di classe in generale. Il socialismo non può dunque fare economie in una trasformazione radicale della divisione e dell'organizzazione del lavoro. Senza trasformazione del lavoro, non ci può essere una vera liberazione dell'umanità; senza ribaltamento della divisione del lavoro non ci può essere un cambiamento nei rapporti di produzione. Niente socialismo senza la trasformazione del lavoro, niente trasformazione del lavoro senza socialismo. Ma la divisione del lavoro presenta due dimensioni che conviene distinguere:

La divisione sociale del lavoro è il fatto che certi sono agricoltori, altri metallurgici, altri medici, etc. La divisione tecnica del lavoro è l'organizzazione del lavoro, la maniera di produrre. Quali sono le implicazioni di questi due aspetti della divisione del lavoro sulla natura dei rapporti di produzione? Quali sono i cambiamenti da portare ad ognuno per giungere a dei rapporti di produzione realmente socialisti? In assoluti, dovremmo giungere, nei due casi, ad una non divisione del lavoro Ma questo è possibile? Il problema si pone differentemente a seconda che si parli della divisione sociale o della divisione tecnica del lavoro. 

Verso una "non divisione sociale del lavoro"?

La non divisione sociale del lavoro, spinta agli estremi, significherebbe un puro e semplice ritorno alle società primitive dove ogni individuo (ed ogni comunità) produce per se stesso. Si tratta di auto-produzione (o auto-consumazione). Non è il caso di farne questione. Ma possiamo andare verso una minima divisione del lavoro? La risposta dapprima implica un interrogarsi sul ruolo di questa nella società capitalista (e in quelle che l'hanno preceduta). Per alcuni essa è fattore di progresso, e questo ad un doppio livello: aumenta la efficacia produttiva della società grazie alla specializzazione, rinforza il carattere sociale della produzione mettendo in rapporti di interdipendenza e di scambio l'insieme del corpo sociale. Ma, oltre al fatto che i rapporti di scambio in questione sono dei rapporti di mercanteggio, altri vedono dei gravi pericoli in una troppo serrata divisione sociale del lavoro:

Una minima divisione sociale del lavoro sembra dunque una necessità. Come arrivarci? La riconquista del tempo libero e delle attività culturali da parte di tutti sembra essere pacifica in una società che ha per obiettivo principale lo sviluppo dell'autonomia e la creatività dell'individuo. La radicale rivoluzione del tempo di lavoro, una nuova concezione dell'educazione… dovrebbero portare ad una rimessa in discussione della concezione attuale dell'artista o dello specialista della cultura. La più piccola divisione del lavoro a livello di attività produttiva è più problematica. E' possibile sviluppare una certa forma di auto-produzione a livello di piccole collettività, come suggeriscono certi progetti ecologisti? Non c'è il rischio che queste si rinchiudano in se stesse, senza più partecipare alla vita collettiva della società? La socializzazione del lavoro è, per molti, la base concreta necessaria per la messa in atto dei rapporti di produzione socialisti. L'auto-produzione, che in un certo modo è una "de-socializzazione" del lavoro, non rischia di scalzare questa base concreta atomizzando il tessuto sociale? Questa problematica è strettamente legata a quella della pianificazione: si deve pianificare tutto, o solamente il "necessario", lasciando ad ognuno il compito di produrre il resto; Lille nel suo testo "Noi e il movimento ecologico", dichiara: 

"L'abbassamento del tempo di lavoro obbligatorio per assicurare i vitali bisogni del gruppo, permetterà di vivere diversamente più tempo di distensione, tempo di divertimento per produrre liberamente il "superfluo", migliorare l'habitat e il cibo, dunque ottenere il massimo dei prodotti dai circuiti di vendita (…) Lottare contro la divisione della nostra vita (più tempo riservato al vivere, alle compere, alle vacanze o al tempo libero)".

Si arriva allora al concetto di lavoro legato (lavoro sociale, vale a dire destinato alla società e da essa imposto) e di "lavoro libero" o di "passatempo attivo", in contrapposizione ai passatempi attuali essenzialmente passivi: tempo libero = inattività. Ma in queste condizioni, la riduzione del tempo di lavoro non è uno scacco? (il tempo libero che diventa lavoro). Cos'è il "superfluo" e il "necessario"? (il miglioramento del cibo e della casa sono bisogni superflui?) Non rischiamo di vedersi sviluppare ancor più delle ineguaglianze, secondo le risorse di ogni regione o comune? Non rischiamo, in questa logica, di finire in una società autarchica? ("ogni comune dovrà dotarsi, nel minor tempo, di tutti i mezzi di produzione necessari per ottenere i prodotti di prima necessità" - Lille)? Alcuni propongono ugualmente, per andare verso una minima divisione sociale del lavoro, una poliattività di ciascuno (in seno al tempo di lavoro sociale -obbligatorio-), vale a dire l'esercizio successivo o simultaneo di più mestieri di natura radicalmente differente. Questa proposta presenta il vantaggio di moltiplicare il campo di esperienze concrete di ognuno. D'altra parte pone dei problemi di tempi di formazione e di capacità di ciascuno. Tutti sarebbero capaci di fare tutto? Ecco risorgere allora il tema dell'apparato di formazione e di istruzione. Ma il problema della poliattività non può porsi indipendentemente dall'evoluzione della divisione tecnica del lavoro: deve svilupparsi su un piano unicamente orizzontale, essendo ognuno impiegato necessariamente nell'agricoltura, nell'industria, nei servizi, ecc., oppure verticale, dove ognuno diviene di volta in volta operaio, tecnico, ricercatore...? E' evidente che una tale poliattività non può essere vista che in una fase avanzata del socialismo, dove la trasformazione dell'apparato di formazione e di istruzione permetterà a tutti di esercitare questi ruoli. Ma il problema dei tempi di formazione resta ancora aperto: l'utilizzazione delle tecniche moderne non rende necessaria la specializzazione?

Verso una non divisione tecnica del lavoro

Se l'instaurazione dell'autogestione nell'impresa dovesse limitarsi ad un semplice potere collettivo sulla politica generale di questa, senza toccare l'organizzazione del lavoro stessa, la rivoluzione sarebbe privata del suo senso. Come si potrebbe, in effetti, pretendere l'emancipazione dei lavoratori mantenendoli nella peggior dimensione, quella di un lavoro rutilante e privo di ogni possibilità di riflessione e di azione autonoma, se sono ridotti a semplici ingranaggi della macchina di produzione?? Ma la trasformazione del lavoro non corrisponde solamente a una sollecitudine umanista. Senza di essa, la trasformazione dei rapporti di produzione rimarrebbe uno slogan senza senso. I rapporti di classe nascono nella produzione, e particolarmente nell'organizzazione del lavoro che definisce il posto di ognuno rispetto agli altri e rispetto agli strumenti di produzione. Il mantenimento di un'organizzazione di lavoro capitalista, non soltanto alienata ma anche gerarchizzata e dove l'informazione, il sapere e il potere sono concentrati fra le mani di pochi, farebbe presto a creare una nuova burocrazia, anche se esistessero le più democratiche strutture possibili. La trasformazione immediata e radicale dell'organizzazione del lavoro è dunque uno dei compiti principali della rivoluzione sociale. La divisione tecnica del lavoro gioca un ruolo preciso nel sistema capitalista: ha per scopo di togliere al lavoratore ogni potere sul suo lavoro, obbligandolo così a piegarsi alle norme di produzione imposte dal capitale. La storia della divisione del lavoro è quella di una privazione cresciuta senza sosta. Come la conosciamo oggigiorno, si caratterizza per diversi aspetti:

La riorganizzazione dell'attività produttiva, che deve restituire ai lavoratori il loro potere sul lavoro, passa dunque per 

Si sa che un tale progetto non solo non è mai stato adottato nei paesi "socialisti" (sedicenti socialisti), ma che i principali teorici del socialismo (Lenin, ma anche Marx) hanno inciampato in questa questione, vedendo nella divisione del lavoro, sviluppata dal capitalismo, una forma superiore di razionalità e un male necessario in vista degli imperativi giudicati prioritari: quelli dello sviluppo della produzione e del "livello di vita". All'origine di questa attitudine, troviamo un fondamentale errore, che ancor oggi è condiviso da molti: per Marx e per Lenin la divisione del lavoro è il solo mezzo per l'efficacia (in termini di produttività). Si sa ora che questa idea è falsa. La divisione capitalista del lavoro è, al contrario, il metodo di organizzazione più irrazionale che ci sia: privando il lavoratore di ogni possibilità di iniziativa e privandosi essa stessa di tutto il sapere, l'esperienza e l'informazione che possiede colui che è in contatto diretto con i problemi della produzione, rimettendo tutte le decisioni nelle mani di "specialisti" tagliati fuori dal concreto, essa arriva ad uno spreco colossale della forza lavoro, lasciando non impiegate le capacità dei lavoratori, e producendo sovente delle direttive aberranti che l'operaio deve correggere "clandestinamente". Lo slogan "la gerarchia è come gli scaffali, più sono alti e meno servono" è più che mai da rilanciare. L'instaurazione di una non divisione tecnica del lavoro, dal punto di vista dell'efficacia produttiva, non pone dunque dei problemi, al contrario. Bisognerà nei nostri progetti, passare da queste riflessioni generali a delle proposte concrete per ogni settore e tipo di attività. Ma tutti i problemi non saranno mai risolti completamente. Così esisteranno sempre degli impieghi più o meno attraenti, più o meno scomodi di altri. Come fare di fronte a ciò? L'automazione dei compiti più ributtanti può servire da panacea universale? E' possibile automatizzare tutti i ruoli di esecuzione non lasciando che gli impieghi più qualificati? E poi: l'automazione è una tecnica neutra? (si sa che oggigiorno, nel quadro del sistema capitalista, ha degli effetti contraddittori: soppressione dei lavori pesanti o pericolosi, ma anche dequalificazione accresciuta). Oltre all'automazione, quali altre soluzioni possono essere prese per aggirare questi impieghi? Ancora la poliattività? Possiamo pensare di compensare un impiego meno attraente o più pesante con un salario superiore o con un minimo tempo di lavoro?

La durata del lavoro

Un diminuzione radicale dell'orario di lavoro è imperativa. Non soltanto per aumentare il tempo libero, ma anche per concedere un tempo libero sufficiente perché ciascuno possa dedicarsi alle attività legate a tutti i livelli alla gestione della società. Si immagina male, in effetti, che chi lavora 40 0 anche 35 ore la settimana possa partecipare regolarmente alle diverse istanze della società socialista (consigli, ecc.), Quali sono in concreto le possibilità di riduzione? Conviene per prima cosa precisare che non si tratta soltanto di un problema tecnico di riorganizzazione dell'apparato produttivo. La più o meno grossa riduzione del tempo lavorativo dipende, per larga parte, da altre scelte: quale produzione = quale consumo, quale tecnologia, ecc.? Certi autori avanzano l'idea di 2 ore di lavoro al giorno (o 10 ore per settimana, o 40 ore per mese) combinando tutti i mezzi di riduzione possibili, e ciò nello stato attuale delle forze produttive. Se certe proposte ci sembrano evidenti (anche se forse difficili da applicare):

altre ci sembrano più problematiche e richiedono una riflessione più approfondita. In particolare, ci si può chiedere se l'instaurazione del tempo libero attivo, che entra per buona parte nella riduzione del tempo di lavoro proposta, deve essere contemplata. Anche certi "effetti perversi" sembrano mal individuati:così l'affermazione di un aumento (reale) della produttività con la diminuzione dell'orario di lavoro è certamente un argomento, ma non nasconde forse un aumento dell'intensità di lavoro? Se per lavorare meno ore bisogna lavorare di più per ogni ora...

L'avvenire del lavoro

Più a lungo termine deve essere anche posta la questione dell'avvenire del lavoro. Ben inteso, deve essere distinto da quello del lavoro salariato. Si tratta dell'avvenire del lavoro come attività dell'uomo che agisce sul suo mondo per soddisfare i suoi bisogni. Su questo tema Marx ha oscillato fra due posizioni: nella "Critica al programma di Gotha" dichiara:

"in una fase superiore della società comunista, quando saranno sparite l'osservante subordinazione degli individui alla divisione del lavoro e con essa l'antagonismo fra lavoro intellettuale e manuale, quando il lavoro sarà diventato non soltanto il mezzo per vivere, ma anche il primo bisogno dell'esistenza".

Più tardi, ne "Il Capitale", la sua posizione si evolve sensibilmente:

"il regno della libertà non comincia in effetti che quando non esiste più obbligo di lavoro, imposto dalla miseria o da scopi esteriori; si trovano dunque in natura delle cose al di fuori della sfera materiale propriamente detta (...) In questa situazione, la libertà consiste unicamente in questo: l'uomo sociale, i produttori associati, regolano in modo razionale i loro scambi con la natura e li sottomettono al loro controllo collettivo, invece di lasciarsi dominare da essi; compiono i loro scambi col minimo sforzo, nelle condizioni più degne e più adeguate alla loro natura umana. Ma la necessità esiste sempre. E il regno della libertà non può edificarsi che nel regno della necessità. La condizione fondamentale è la riduzione dell'orario di lavoro".

Ci sono in Marx due differenti posizioni che riassumono bene la questione; in un primo tempo il lavoro deve diventare "primo bisogno dell'uomo", non è più una costrizione (necessità), ma un mezzo di rallegramento, di realizzazione di sé. In un secondo tempo, il lavoro resta di dominio della necessità, è sempre una costrizione quali che siano i cambiamenti apportati nel suo seno e l'uomo può trovare la sua libertà solo al di fuori di esso. Bisogna dunque ridurre la durata al massimo, cercare di farlo sparire...

Marx stesso non crede in questa possibilità (e noi?). Ecco posto allora il problema dell'automazione totale.

 

III - L'organizzazione dell'economia

La complessa questione dell'organizzazione dell'economia autogestita comprende di fatto due distinti aspetti, benché evidentemente complementari:

Consumi e bisogni

Il problema della soddisfazione dei bisogni, per essere risolto, richiede evidentemente una riflessione preliminare sulla nozione stessa di bisogno. Il socialismo, si dice, deve realizzare al più presto il principio "a ciascuno secondo i suoi bisogni". Ma cosa significa tale formula? La completa soddisfazione di tutti i bisogni, si direbbe. Certo. Ma non si avanza di un dito dicendo questo. Esiste una definizione obiettiva dei bisogni? (Ci sono bisogni obiettivi?) Che permette di dichiarare che i bisogni di un popolo sono o non sono soddisfatti, e quindi sono quelli da soddisfare. Al contrario, ogni società non produce essa stessa i suoi bisogni? Sappiamo già che esistono due concezioni differenti di questo problema all'interno dell'organizzazione: per Lille "la produzione commerciale dovrà essere progressivamente ridotta al necessario, sotto forma di prodotti solidi e poco cari" (il superfluo essendo prodotto fuori mercato). Per Nancy "ci saranno può darsi dei buontemponi che si smascelleranno dal ridere davanti a 25 possibilità di tv a colori". La divergenza è chiara? Per alcuni (Nancy), si tratta di sviluppare continuamente la produzione e il consumo, di elevare, senza fine, il livello di vita. Ma non è questa una fuga in avanti verso la società del consumo? I bisogni sono dei veri bisogni o sono creati artificialmente dalla società dei consumi? Le norme di consumo della società socialista non devono essere il semplice prolungamento di quelle della società capitalista? Non bisogna allora, come suggeriscono i compagni di Lille, evitare gli sprechi (che scatenano un aumento dei tempi di lavoro)? Ritornare a norme basate meno sul quantitativo quanto sul qualitativo? Ma non rischiamo di tornare ad un socialismo spartano? Anche se possono essere sviluppate altre forme di consumo (consumi collettivi: macchine da lavoro collettive).

Denaro, salari, prezzi

In ogni caso, sembra improponibile che si possa arrivare rapidamente ad una società di abbondanza totale. Questa abbondanza è dunque rimandata a una data ulteriore. Di conseguenza, di pone la questione della regolamentazione dei mercato dei beni di consumo: come realizzare la mediazione tra i livelli di consumo e quelli di produzione? La stabilità monetaria, dunque quella dei prezzi e dei salari, sembra una necessità. In effetti, l'alternativa sarebbe la remunerazione in natura, vale a dire l'assenza di possibilità di scelta da parte del consumatore. E' solo con l'avvento di una società di abbondanza che moneta, salari e prezzi potranno essere abbandonati, lasciando spazio al consumo senza limitazioni. Ciò detto, certi beni e servizi non devono essere resi immediatamente gratuiti (alloggio, sanità, istruzione, trasporti, beni di largo consumo) ed essere esclusi dalla circolazione delle mercanzie? Poiché per il resto, si tratta giustamente di mercato, anche se il mercato socialista è differente per principio e per funzionamento dal mercato capitalista. Quale può essere il principio di calcolo e il ruolo dei prezzi in questo mercato? Il prezzo dei prodotti di consumo deve essere proporzionato al loro costo di produzione, cioè alla spesa di forza lavoro necessaria ad immetterli sul mercato. Diciamo bene proporzionale e non uguale. In effetti, il prezzo è uguale al costo di produzione nei casi dove non c'è accumulazione, cioè nei casi dove i beni di produzione (la cui usura è integrata nel prezzo dei prodotti finiti) sono semplicemente sostituiti senza essere né aumentati né modernizzati. Nel caso contrario, se la società sceglie un certo ritmo d'accumulo, i prezzi delle mercanzie devono essere superiori al loro costo di produzione. In effetti, la condizione di equilibrio nell'economia socialista sarebbe che il totale delle entrate sia eguale al valore dei beni disponibili sul mercato. Ora, come una parte dei lavoratori riceverà un salario per produrre nuovi beni di produzione, vale a dire senza emettere sul mercato l'equivalente del loro salario sotto forma di beni di consumo, è necessario che i prezzi dei beni di consumo siano aumentati altrettanto, affinché l'equilibrio sia mantenuto. Questo presuppone due annotazioni. Da una parte si vede disegnare meglio il ruolo (tutto sommato assai complesso) che ricade sulle imprese in materia di contabilità. Dall'altra, si constata che le scelte della società, espresse democraticamente, non concernono solamente la mediazione di questo o quel consumo, ma anche quella tra produzione di beni di consumo e beni di produzione (accumulazione). La società dovrà scegliere democraticamente il suo tasso di accumulazione, ciò che implica un'informazione economica avanzata. L'equilibrio qui definito, tra la massa degli introiti (salari e agevolazioni diverse) e valore dei beni è evidentemente un equilibrio ideale che ha poche possibilità di realizzarsi concretamente: in effetti, per questo sarebbe necessario che la produzione coincidesse perfettamente con i desideri dei consumatori, cosa estremamente difficile se non impossibile, anche in un sistema dove la pianificazione parte da una stima dei bisogni della società. Perciò sono necessarie in permanenza delle modifiche. In teoria si possono fare attraverso due meccanismi: attraverso i prezzi o tramite modificazioni per le quantità prodotte. La modificazione sui prezzi consiste nell'aumento dei prezzi dei prodotti, dei quali la quantità prodotta è inferiore alla domanda e viceversa, in modo da modificare i comportamenti d'acquisto. E' ovvio che si tratta di una modificazione a corta scadenza, e che solo le modifiche delle quantità produttive (allineamento della produzione alla domanda e non l'inverso) sono compatibili con gli scopi della società socialista (soddisfazione dei bisogni). Anche se questo tipo di modifica è molto più lungo da mettere in atto, la modifica dei prezzi può essere necessaria a breve scadenza. Se il mantenimento dei salari è necessario al funzionamento dell'economia in un periodo dove la scarsità, anche relativa, continua ad imporre il suo marchio, l'uguaglianza totale dei salari deve essere instaurata immediatamente. In effetti, niente giustifica l'attuale gerarchia. Questa ha innanzitutto un ruolo sociale. Instaurata l'eguaglianza assoluta dei salari, le compensazioni di ordine salariale per i lavori più pesanti o meno attraenti sono escluse. Solo un minor tempo di lavoro è progettabile. Infine, questione spinosa, se il salario unico deve essere senza dubbio garantito a certe categorie inattive (giovani, persone anziane, handicappati, ecc.), deve essere o no subordinato ad un impiego? Chi non lavora non mangia?

La pianificazione autogestita

Dopo tutto quello che si è detto, la pianificazione dell'economia diventa un problema relativamente semplice, almeno sul piano teorico. Data una situazione di partenza (equipaggiamento, stocks, forza lavoro, ecc.) e una volta fissati gli obiettivi da raggiungere, la pianificazione diventa soltanto un problema tecnico (nonché straordinariamente complesso a livello della messa in opera di una economia delle dimensioni di quella francese), che può essere risolto da un organismo specializzato. I progressi dell'informatica rendono ogni giorno più credibile questo tipo di pianificazione. Ma affinché la gestione della società resti nelle mani della società, e non sia accaparrata dall'organismo pianificativi, bisogna che le grandi decisioni, quelle che condizionano l'insieme del progetto siano oggetto d'una procedura democratica:

devono essere determinate dall'insieme della società. Questo presuppone una perfetta informazione di ognuno sulle questioni economiche. In questo insieme di scelte (tutte interdipendenti) quella della struttura (da non confondere col livello) del consumo occupa uno spazio a parte. Si sa che la società socialista dovrà incessantemente tendere ad assicurare a ciascuno la soddisfazione dei suoi bisogni. Ma come conoscerli? Se i bisogni delle industrie e delle collettività locali sono facili da conoscere e centralizzare nell'economia socialista, quelli dei consumatori individuali lo sono molto meno. Per questo ci sembra che possiamo distinguere tre proposte:

Lo sviluppo delle forze produttive

Questo tipo di questione ne implica direttamente altre a proposito del futuro stesso dell'organizzazione dell'economia: grossomodo, è necessario decentralizzare, concentrare o lasciare sensibilmente immutata la struttura produttiva? La gestione diretta dell'unità di produzione ha bisogno di essere alleggerita? ("l'autogestione presuppone strumenti suscettibili di essere autogestiti" - M. Bosquet). Al contrario, lo sparpagliamento delle unità di produzione non complica la pianificazione e anche la gestione politica della società, moltiplicando i luoghi di decisione e le relazioni tra queste qui? L'efficacia (in termini produttivi) dunque la diminuzione del tempo del lavoro è compatibile con il decentramento? Non ci sono a questo proposito risposte differenti secondo i settori e i tipi di produzione? La concentrazione in sé ha anche i suoi inconvenienti: gigantismo e contesto di lavoro immenso. Bisognerà tenere in conto l'aspirazione a vivere e lavorare nel proprio paese, il che implica una redistribuzione geografica. Allo stesso tempo, la concentrazione dell'industria porta con sé l'urbanizzazione. Ma la questione dello sviluppo o dell'evoluzione delle forze produttive non si limita a questo solo aspetto. La società socialista dovrà affrontare (molto più immediatamente) altri problemi: in particolare quello del futuro dei settori "parassitari", che bisognerà ben sopprimere o trasformare, giacché non avranno più spazio nell'economia socialista: banche, assicurazioni, pubblicità, etc. E' un problema delicato. La formulazione del testo di Nancy ("compagni non ripetiamo gli errori") non è quantomeno lapidaria?: "procedere ai licenziamenti degli impieghi inutili". Sembra d'ora in poi evidente che questa procedura non creerà che difficoltà di ogni ordine, e in particolare umane e sociali. Il problema deve anche essere considerato in termini di alleanze: come ottenere dai lavoratori di questo settore l'adesione ad una rivoluzione che sembra condannarli, rifiutarli? Ricordiamo anche che gli impieghi inutili esistono in tutti i settori: la riorganizzazione del lavoro sopprimerà in tutte le imprese i posti di direzione e di controllo. Che si farà di tutta questa gente? In ogni caso una cosa è sicura: la soppressione degli impieghi inutili permetterà per se stessa una notevole riduzione del tempo di lavoro di ognuno. Infine, oltre i settori industriali ed i servizi, sarà necessario risolvere la questione contadina e quella del commercio (come sarà organizzata la distribuzione nell'economia socialista?). La questione dell'evoluzione delle forze produttive comporta ancora molti aspetti: per esempio che tecnologie utilizzare? E' necessario, a questo riguardo, riflettere sul ruolo della scienza e della tecnica nel modo di produzione capitalista. Come sarà organizzata la ricerca? Sarà mantenuta una schiera di specialisti? Costoro andranno a fare "stage" nei campi e nelle fabbriche? Due ore al giorno lasciano il tempo per la ricerca. Due ore al giorno lasciano in ogni caso il tempo per seguire studi approfonditi e specializzati. Tutti studenti a vita?

 

IV - Ecologia e rivoluzione

Sarebbe riduttivo limitare i problemi tecnologici ai soli problemi dell'inquinamento e dell'ambiente o ai tipi di tecnologia da impiegare. L'ecologia è molto più di questo, come la definisce il gruppo di Lille nel suo testo già citato: "l'ecologia è lo studio e la conoscenza delle relazioni dell'uomo con l'ambiente circostante e delle relazioni tra i diversi elementi di questo ambiente". Essendo inteso che l'ambiente è fisico e sociale. L'ecologia deve essere presente in permanenza nel nostro progetto e in effetti l'abbiamo già incontrata:

Tutte queste problematiche vengono direttamente dal movimento ecologista (o almeno da una parte di questo). Non le riprenderemo qui nei particolari. Ma ognuno deve essere cosciente che il dibattito sull'ecologia che avrà luogo in occasione del 3° Congresso, avrà delle conseguenze quanto alla nostra stessa partecipazione d'ora in poi ai movimenti ecologisti (prima della rivoluzione). In effetti, questa non può farsi, a nostro avviso, unicamente sulla base di una nostra lotta ai misfatti dell'odierno capitalismo, ma deve anche essere condotta in funzione del nostro progetto di società e della dimensione ecologica che gli daremo (o no). Il problema è importante, ciò non significa che dovremo avere una pratica opportunista consistente in un progetto che "piaccia a tutti", questo è uno dei principali scogli da evitare. Il dibattito deve essere di fondo e non su considerazioni tattiche e opportuniste. Secondo noi, laddove l'ecologismo c'interpella è sui pericoli d'una società che pur essendo iperdemocratica, sarebbe anche ipertotalitaria, iperburocratica e iperproduttivistica. Una società dove il totalitarismo e la tirannia sarebbero non più l'espressione d'una minoranza su una maggioranza, ma quella della maggioranza (come masse anonime e non somma di individui) su ciascuno. Il nostro progetto non rischia se non facciamo attenzione a scivolare in una società tipo la "migliore del mondo" dove tutti sarebbe pianificato (anche democraticamente) in anticipo, e dove l'individuo, perso nella massa uniforme ed incolore, beneficerebbe d'un "beneficio insostenibile". L'ecologia tenta d rispondere a modo suo a queste domande con delle soluzioni del tipo tempo libero attivo, auto-produzione, ecc., dando agli individui e alle strutture di base un margine di massima autonomia e d'iniziativa. Questi dibattiti non devono essere scartati aprioristicamente e pregiudizialmente come soluzioni "piccolo borghesi". Un tale ragionamento non sarebbe lontano da quello di Lenin quando dichiarava:

"gli operai s'incamminano verso il socialismo (...) attraverso la grande produzione meccanizzata, attraverso le grandi industrie il cui giro d'affari ammonta a diversi milioni annui e solo attraverso la via di questa produzione e di queste industrie. Gli operai non sono dei piccolo-borghesi. Non hanno paura del grande capitalismo di stato".

Questo bisogno d'autonomia e di massima iniziativa, questo bisogno di libertà deve essere anche il nostro, noi che vogliamo creare una società di uomini e donne liberi e autonomi. Il principio federalista corrisponde d'altronde a questo anelito. E' importante stabilire senza possibili contestazioni il diritto all'iniziativa (individuale e collettiva) e il diritto alla differenza, quale che sia. Cos'è una società socialista, se non una società d'individui liberi ed autonomi, dove la libertà di movimento, d'azione e di pensiero è totale. Una società dove tutte le capacità, le potenzialità, le aspirazioni di ciascuno possano realizzarsi? Bisogna rifiutare ogni forma di potere collettivo in nome della sacrosanta libertà individuale? Quando Nancy afferma "la base della società comunista è l'individuo e solamente l'individuo... libero di vivere solo come un orso o di associarsi liberamente ad altri secondo i suoi gusti, le sue affinità, le sue aspirazioni, le urgenze", non si tratta di una messa in causa del socialismo, poiché nel socialismo c'è sociale, o del comunismo, perché in comunismo c'è comune? C'è antinomia tra autonomia individuale e potere collettivo? O al contrario, l'autonomia è anch'essa collettiva? Come è stato detto, l'uomo è prima di tutto un animale sociale.

 

V - Formazione, istruzione, socialismo

L'affermarsi del socialismo come società di individui liberi, autonomi ed uguali, implica una nuova concezione dell'istruzione. In effetti, affinché una tale società possa esistere e mantenersi, è necessario che produca individui effettivamente capaci di assumere la loro autonomia e la loro libertà, e che in più siano individui uguali (il sapere è dunque un potere). In questa prospettiva l'istruzione ha un ruolo centrale; anche se la lotta contro l'ideologia borghese (sessismo, razzismo, nazionalismo, ecc.) sarà situata a tutti i livelli della società (ma l'istruzione non si situerà anch'essa a tutti questi livelli: ci saranno luoghi ed età specializzati?). Ci sarà ancora una scuola, nel senso di istituzione separata dal resto della società? Chi insegnerà? Chi controllerà l'insegnamento e come? L'insegnamento sarà uniforme per tutti (istruzione "nazionale")? La scolarità sarà obbligatoria? E' necessario continuare a fare la differenza tra istruzione e vita sociale? Quale sarà il contenuto dell'insegnamento? Quali "metodi pedagogici"? Quale sarà il ruolo dell'istruzione socialista nella soppressione della divisione sociale e tecnica del lavoro? Il problema dell'istruzione non può essere posto solo a livello del futuro della scuola: cosa diventerà la famiglia nel socialismo? I bambini dovranno restare con i loro genitori o essere affidati alla società? Che diritti? Quale sessualità? I "giovani" lavoreranno (a che età)? Gli corrisponderà, indipendentemente dal lavoro, un salario (a che età)? A livello del futuro della famiglia, si devono imporre soluzioni autoritarie (democraticamente) o lasciare ad ognuno la scelta della sua vita? Il matrimonio sarà abolito in quanto istituzione civile? E l'eredità?

E' finito per adesso.


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