Anarchici e organizzazione

 

Mi inserisco nel dibattito scaturito dall'articolo di Manuel Baptista (A Batalha, n.186) in merito all'organizzazione degli anarchici. Sono un militante della Federazione dei Comunisti Anarchici (FdCA) italiana che - al contrario della Federazione Anarchica Italiana (FAI) è un'organizzazione di tendenza e non di sintesi.

Nell'esperienza storica dell'anarchismo come movimento si sono sempre confrontate tre tendenze di fondo con riferimento alla pratica dell'anarchismo stesso: 

  1. quella che rifiuta qualsiasi forma di organizzazione e la creazione di qualsiasi specie di gruppi stabili; 
  2. quella favorevole alla creazione di "gruppi senza struttura", essenzialmente formati da meri raggruppamenti di persone che si uniscono informalmente - evitando l'attribuzione di incarichi e la formazione di comitati - senza regole prefissate, che agiscono in modo aperto, dinamico e personale; 
  3. quella favorevole ad una formale organizzazione anarchica. 

Dobbiamo dire subito che senza la terza tendenza non ci sarebbe stata nella storia nessuna esperienza concreta di rivoluzione anarchica. Non disporremmo, così, di fronte agli avversari - utilizzando dati effettivi - della possibilità, non solo teorica, di costituire e di gestire una società rivoluzionaria libertaria senza Stato né capitale.

La mancanza di organizzazione genera marginalità totale, una deriva in una direzione solamente intellettuale, e non tiene conto del fatto (storicamente incontestabile) che l'essere umano realizza la sua esistenza (materiale o no) attraverso una cooperazione strutturale con gli altri. 

E' una pietosa illusione credere che un gruppo informale sia garanzia di assenza della gerarchia e del potere. Questa illusione si manifesta come tale ogni volta che all'interno di un tale gruppo si devono adottare o concretizzare decisioni, atteso che la formazione di leaders di fatto risulta favorita proprio dalla mancanza di regole condivise circa il funzionamento del gruppo, e di diffusione delle informazioni. Si tratta, nel caso di cui parliamo, di persone che essendo in possesso di informazioni necessarie - e da qui del "sapere"- possono orientare le decisioni e detengono la direzione effettiva del gruppo informale. Si forma allora un nucleo di persone (o una persona) attivo, a margine del gruppo nella sua totalità e con vincoli interni più forti di quello che accade all'interno del gruppo in quanto tale. Le conseguenze sono facilmente intuibili.

Si aggiunga che, in un tale gruppo, quando viene il momento di dare esecuzione alle decisioni (o agli accordi), poiché nessuno è portato a responsabilizzarsi nei confronti del gruppo stesso - per la semplice ragione che non esiste regola alcuna - le possibilità sono due: o uno fa quello che vuole, senza preoccuparsi di quello che fanno gli altri; ovvero si attivano quelli che avevano deciso di agire e gli altri finiscono per contare sempre di meno. Ecco così ricreata una situazione di potere. E la distruzione del gruppo sta dietro l'angolo. Nei gruppi anarchici strutturati (che no per questo cessano di essere anarchici) generalmente ben si conosce la possibilità che alcuni compagni vogliano conseguire un primato, ma non si rinuncia per questo all'organizzazione: semplicemente l'organizzazione viene concepita in modo da evitare, per quanto possibile, la formazione di gerarchie di potere, di coazione, e di leadership, per consentire a tutti i membri di partecipare alla vita del gruppo. L'esistenza di statuti e regole, peraltro, non impedisce assolutamente la realizzazione di attività informali e libere.

Esistono anche gruppi comunisti anarchici caratterizzati da una unità teorica e tattica e dalla "responsabilità collettiva". Questa vuole dire che se il gruppo è responsabile per l'attività politica e rivoluzionaria di ciascun membro, del pari ogni membro è responsabile per la medesima attività del gruppo. Questo ha causato scandalo in vari ambienti anarchici: ma può anche essere letto come una mera esigenza derivante dall'unione tra i membri del gruppo in quanto gruppo.

Anche quest'ultima posizione è - ed è stata storicamente - anarchismo, situandosi in un orizzonte comune alle altre correnti che formano l'anarchismo.

Tuttavia, la presenza di un orizzonte comune coesiste con differenze di posizione che producono incompatibilità reale fra i difensori dell'organizzazione specifica (e particolarmente quelli dell'ultima posizione) e gli individualisti. Il fenomeno non è nuovo nella storia.

Dare un'immagine dell'anarchismo che sia, nello stesso tempo, una e plurale, vuole dire banalizzare la complessità dell'anarchismo medesimo. Realisticamente parlando, un lavoro in comune è sicuramente possibile fra gli fautori dell'organizzazione, per quanto possa essere a volte complicato se alcuni compagni volessero ridurre l'organizzazione a una semplice segreteria di corrispondenza, ed altri invece no. Ma è, e sarà, impossibile fra "organizzatori" e individualisti. In questa situazione è meglio che ciascuno intraprenda il proprio cammino autonomamente, raccogliendo i frutti che sarà capace di raccogliere.

Le modalità di organizzazione degli anarchici sono ben noti, e per questo non dedichiamo soverchie parole sul tema. Diciamo solo che gli anarchici si organizzano stabilendo con spirito libertario le forme di funzionamento del gruppo, la formazione delle decisioni e la circolazione delle informazioni.

A proposito delle decisioni, non c'è alcun dubbio che l'unanimità, quando si devono adottare delle decisioni, sia cosa ottima. Ma quando l'unanimità non viene ottenuta, fra molti anarchici c'è una specie di preconcetto dogmatico (anche degli anarchici hanno i loro dogmi): non si vota, perché se no esisterebbero una maggioranza ed una minoranza, con pericolo di liberismo; e allora sembra preferibile che ogni persona, o gruppetto, faccia quello che vuole.

La cosa risulta semplicista e rigida, poco funzionale e neppure sempre giusta.

Senza ricorrere al voto, non è sempre possibile stabilire quel che pensano tutti i compagni. In una riunione o, peggio, in una assemblea non tutti prendono la parola di fronte agli altri compagni, sia per timidezza, sia per incapacità oratoria, sia per mancanza di tempo (sovente causata dalla terribile figura del compagno logorroico). Se ad un dato momento qualcuno domanda: "siamo tutti d'accordo?", si ha senz'altro una votazione, il cui risultato può essere unanime oppure no (si note che anche l'unanimità è sempre il risultato di una votazione!). Se nessuno fa quella domanda - e per ipotesi gli interventi verbali abbiano manifestato la stessa opinione, non per questo può dirsi che chi non ha preso la parola (magari per le ragioni predette) sia d'accordo con gli oratori. In questo caso non votare costituirebbe una prevaricazione e diventerebbe sterile concludere semplicisticamente "però potevano intervenire".

E se alla domanda "siamo tutti d'accordo?" qualcuno rispondesse "no" e non volesse, alla fine, accettare la decisione della maggioranza, esistendo ancora una unione fra i membri del gruppo, i dissidenti dovrebbero avere - quanto meno - il diritto di non partecipare alla realizzazione di quella decisione.

Tuttavia sembra molto problematico riconoscere il diritto di agire contro le decisioni della maggioranza: questo mette in serio pericolo la vita del gruppo. Coerenza ed equità richiedono che i dissenzienti - qualora pensino di non poter più coesistere con gli altri compagni a causa delle divergenze insanabili su questioni importanti - lascino il gruppo non sussistendo più i vincoli reciproci di prima.

E questi vincoli sono della massima importanza per gli anarchici che, non per caso, si organizzano con frequenza in gruppi di affinità.

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Si dice che un gruppo coeso e liberamente organizzato (che in libertà mantiene la sua organizzazione) è analogo alle dita di una mano unite in un pugno. Bene.. Ma, ci si potrebbe chiedere, per che fare? Facciamo parte di un movimento di opinione? In questa società vogliamo fare una tranquilla propaganda dei nostri ideali di libertà per il genere umano, lavorare in difesa della pace, dell'ambiente, del municipalismo, etc. come un normale movimento borghese? O, conformemente alla tradizione dell'anarchismo, vogliamo partecipare alla lotta di classe, diffondere idee di autorganizzazione dei lavoratori e degli sfruttati, di azione diretta contro lo Stato, i capitalisti, i padroni, gli eserciti, la chiesa, ecc.? 

Vogliamo dare vita a un movimento rivoluzionario o no? Vogliamo cominciare a lavorare nel sociale, nei sindacati, per formar una corrente libertaria che lotti e aiuti a lottare?

Se si, abbiamo bisogno di una organizzazione libertaria similare a quella degli anarchici dell'Ucraina rivoluzionaria, della FAI/CNT in Spagna, dell'Italia prima del fascismo, della FAU uruguayana etc.

Continuiamo pure a fare cultura, propaganda intellettuale, scriviamo libri dando una buona immagine di noi alle persone amate, ai figli, agli amici; ma non dando molto a chi vuole un mondo migliore e possibile e, soprattutto, vuole agire, lottare, al fine di realizzare "il mondo nuovo che portiamo nei nostri cuori" - usando le parole di Durruti, che peraltro in certi ambienti anarchici alcuni considerarono un "cripto-bolscevico"!

E' vero che organizzazioni anarchiche "specifiche" non possono fare molto senza una presenza anarchica nel mondo del lavoro. Le esperienze portoghese, spagnola, argentina e italiana lo dimostrano. E oggi, questa presenza manca in Portogallo. Manca oggi, ma questo non implica che lo stesso accada anche domani. Lo iato di generazioni nell'anarchismo portoghese, nel periodo fra il fascismo e il 25 aprile, costituisce senza dubbio una pesante realtà. Per questo motivo oggi si è costretti a cominciare da un punto "sotto zero", ma "caminando se hace el camino". E' ben possibile che l'anarchismo con la sua prassi rivoluzionaria - e la storia lo dimostra in vari paesi - possa anche cadere in un sonno profondo, e le vecchie bandiere riposare custodite da onorati militanti di una passata, generazione, ai quali non possiamo ragionevolmente chiedere altro lavoro: già hanno fatto quel che dovevano fare.

Ma - come dimostrano attualmente gli avvenimenti dell'America del Sud, accade sempre che una nuova generazione ad un dato momento si guarda attorno, non condivide questa società, non riceve le vecchie bandiere di lotta da nessuna generazione intermedia di anarchici, e allora si fa da sé le proprie bandiere nere e rosse, e in un dato paese la storia dell'anarchismo di classe riprende il suo percorso.

PIER FRANCESCO ZARCONE
militante della FdCA

Dal giornale anarchico portoghese A Batalha, No.199, luglio 2003