I movimenti di massa
La decomposizione dei regimi a capitalismo di stato ed il crollo della storica menzogna del "socialismo reale" ha contaminato anche gli strumenti più costruttivi della teoria marxiana, determinando una diffusa incapacità di analizzare scientificamente la fase attuale.
Conseguentemente, questo spazio è stato progressivamente occupato dalla sociologia borghese e dalle sue elaborazioni, le quali hanno sostenuto e sostengono, peraltro con efficacia, che l'attuale sistema capitalistico, pur con le sue storture, è il miglior sistema attualmente possibile.
L'evoluzione ed il successivo affermarsi dei processi di ristrutturazione su scala mondiale ha ulteriormente rafforzato il sistema capitalistico, indebolendo e disperdendo il movimento operaio ed ogni opposizione di classe.
Ad un simile rafforzamento del sistema capitalistico ha fatto riscontro, in questi ultimi anni, lo sviluppo talvolta rapido ed impetuoso dei movimenti di massa a livello internazionale.
I movimenti di massa si sono costituiti su tematiche ideali e su bisogni concreti e contingenti, i quali come la pace e l'ecologia, finiscono per coinvolgere schiere enormi di individui provenienti da classi diverse. Ciò è assolutamente normale, poiché l'esigenza di vivere in pace ed in un ambiente sano, è condivisa dalla stragrande maggioranza delle persone. I movimenti di massa non si sviluppano quindi all'interno dei rapporti di produzione (come ad esempio la classe lavoratrice), ma sono piuttosto generati dalle contraddizioni generare ed irrisolte da questo modello di sviluppo, il quale per sopravvivere non può fare a meno di determinare inquinamento, devastazione e violenza. L'impossibilità pratica di agire nella sfera dei rapporti di produzione sposta i movimenti di massa sul terreno insidioso e contraddittorio della "contestazione antisistema", all'interno della quale si manifestano i comportamenti più disparati, che vanno dalla scelta istituzionale, che espone i movimenti a forti rischi di recupero, a quel radicalismo borghese ed ascetico che spaccia per realtà il metro quadrato di terreno sul quale si poggiano i piedi. È proprio il fatto che c'è posto per tutti, che consente ai movimenti di svilupparsi, anche quando si registrano fatti che determinano lo sviluppo poderoso dei processi di accumulazione e la sconfitta della classe lavoratrice.
I movimenti di massa, non essendo coinvolti in quanto tali nei processi produttivi, non subiscono direttamente le conseguenze delle crisi di ristrutturazione, ma sono in grado di prosperare con le fasi avanzate dell'espansione capitalistica, così come il riformismo e la democrazia borghese.
Il loro anticapitalismo non è strutturale, non riguarda cioè la fondamentale contraddizione che continua a caratterizzare l'attuale fase storica, quella cioè tra capitale e lavoro, ma risiede piuttosto nella sfera sovrastrutturale.
Simili premesse ci consentono di contrastare efficacemente i contenuti di alcune argomentazioni che si stanno sviluppando anche nella sinistra italiana.
Tali argomentazioni sono schematicamente due:
Ciò significa che la classe lavoratrice dei paesi ricchi è ormai integrata e che ha finito per perdere le proprie caratteristiche anticapitalistiche.
La dissoluzione della contraddizione capitale-lavoro, nonché la fine del concetto di classe, sono argomenti cari alla borghesia, la quale da circa un secolo non perde l'occasione per agitare simili concetti, contaminando anche la sinistra e lo stesso movimento operaio. In definitiva, si vuol sostenere l'inconsistenza di ogni opposizione al capitalismo, ritenuta un modello eterno ed in grado di riprodursi illimitatamente.
Viceversa, il metodo scientifico con il quale si è distrutta la classe lavoratrice in questo ultimi anni, la pervicacia e l'arroganza con la quale si insiste sulla sua dissoluzione, sanno di rimozione del problema: semplicemente si vuol cancellare ogni premessa sulla quale possa di nuovo svilupparsi una opposizione di classe, l'unica veramente temuta dal capitalismo.
Inoltre, la classe lavoratrice è sempre stata "integrata". Lo era ieri all'epoca del capitalismo coloniale (si ricordi l'aspro dibattito che caratterizzò la II Internazionale agli inizi del secolo, nel quale si fronteggiarono, nel movimento socialista, i sostenitori e gli avversari del colonialismo), lo è oggi nell'epoca del capitalismo finanziario multinazionale.
In realtà, gli assertori dell'integrazione della
classe lavoratrice nel modello di produzione capitalistico, non svolgono nessuna
analisi dei processi di produzione, essi giudicano i soli comportamenti di
opposizione e, conseguentemente al radicalismo del quale sono imbevuti,
ritengono antagonistici al capitalismo solo coloro che si oppongono ad esso. È
quindi il grado di opposizione al sistema che definisce le caratteristiche
anticapitalistiche di strati sociali più o meno trasversali, e non la loro
collocazione nel sistema di produzione. È ovvio che una classe lavoratrice
battuta, umiliata e dispersa dalla terziarizzazione dei processi produttivi, non
è nel medio periodo, in grado di lottare efficacemente contro il sistema
capitalistico, perde perciò le proprie caratteristiche "rivoluzionarie" che
passano armi e bagagli a nuovi soggetti.
Questo meccanismo spiega perché si passi con estrema spregiudicatezza dal
femminismo al giovanilismo, all'ecologismo, al terzomondismo, al pacifismo, ecc.
Il capitalismo si caratterizza oggi come sistema mondiale, poiché l'attuale assetto dei rapporti di produzione è internazionale; appare quindi logico che lo scontro di classe si internazionalizzi.
L'assetto capitalistico mondiale non può essere mistificato con una falsa e riduttiva collocazione geografica (nord ricco-sud povero). Tale divisione è solo suggestiva e non risponde assolutamente alla reale dinamica dei fatti, né tanto meno al loro sviluppo storico.
La fase attuale è caratterizzata ad due tendenze complementari: la prima risiede nei processi di concentrazione finanziaria e multinazionali, ai quali fanno riscontro vastissimi fenomeni di decentramento produttivo che si realizzano su scala mondiale; la seconda risiede, come abbiamo già visto, nella sconfitta di ogni opposizione di classe. Tutto ciò ha contribuito ad incrementare la stabilità del modello di produzione capitalistico, cementando il dilagare della sua cultura, senza però scongiurare l'insorgenza di profonde contraddizioni.
Il sistema di produzione capitalistico è caratterizzato non dagli aspetti giuridici e formali (assetti istituzionali, forme giuridiche, proprietà privata e statale dei mezzi di produzione, ecc.). ma bensì dalle leggi interne che regolano i sistemi di produzione, che si basano sullo sfruttamento della forza lavoro e sull'estrazione del profitto. Ma, se questo è un denominatore comune che caratterizza il modello di produzione capitalistico su scala mondiale, sarebbe erroneo ritenere che esso sia configurabile come un sistema economico omogeneo e privo di contraddizioni. Così come afferma la teoria marxiana in alcune sue argomentazioni di maggiore attualità, lo sviluppo del capitalismo non è armonico, né tanto meno può essere ritenuto pianificabile proprio perché è "diseguale".
Lo sviluppo del sistema di produzione capitalistico deve cioè confrontarsi con assetti produttivi, sociali, culturali e di classe, che variano al variare delle aree geografiche in una medesima fase storica. Marx definisce al riguardo la "struttura" economica come l'insieme dei rapporti di produzione storicamente determinati che caratterizzano una fase determinata dello sviluppo capitalistico della società. Appartengono invece alla "sovrastruttura", o ad essa devono essere ricondotte, tutte quelle forme di elaborazione che gli uomini realizzano con la loro elaborazione, siano esse di natura artistica, giuridica, filosofica, religiosa, ecc. (al riguardo, i "marxiani" delle varie scuole ivi compresa quella leninista e stalinista hanno stravolto questi semplici strumenti di indagine, attribuendo alla sovrastruttura un ruolo subordinato e globalmente futile. Già Bakunin ammonì, con parole di mirabile onestà, circa l'insorgere di simili tendenze).
Le aree forti e quelle più deboli, che pure esistono, devono quindi essere ricondotte alle dinamiche internazionali dei rapporti di produzione, e non analizzate in astratto sulla base di argomentazioni geografiche e discorsive.
Tali aree si configurano come fasi diversificate dello sviluppo capitalistico; ciò dipende, oltre dai già visti fattori (storia, cultura, ecc.), anche da questioni "strutturali" quali la composizione organica del capitale, l'organizzazione del lavoro, il conflitto di classe, la presenza di materie prime e di infrastrutture, ecc.
Tali fattori hanno implicazioni sopranazionali; appare allora evidente che alla internazionalizzazione del capitale segua un processo di tendenziale internazionalizzazione del proletariato, poiché sono i rapporti di produzione a costituire ed a modificare le classi sociali e non i singoli confini nazionali e gli assetti giuridici e formali di un determinato paese, anche se questi aspetti influenzano l'evoluzione della struttura di classe.
La penetrazione imperialista si realizza (e si è realizzata), laddove le suddette questioni oggettive la rendono possibile: un paese è vulnerabile non solo perché è appetibile al capitalismo multinazionale, ma soprattutto perché la sua economia è storicamente decaduta. Ciò si è verificato nel caso dell'Africa, Asia ed America Meridionale, laddove fiorirono un tempo civiltà floridissime, le quali decadendo lasciarono in eredità economie ai livelli della sussistenza, esponendole così alla penetrazione imperialista. A questa economia decaduta si è affiancato il capitalismo dei monopoli estrattivi e multinazionali. In tali paesi il capitalismo, nella sua fase imperialista, doveva trovare alcuni alleati, che individuò nelle borghesie nazionali disgregate e decadute.
Tali borghesie si rafforzarono in virtù
dell'affluenza dei capitali stranieri, giungendo a ridisegnare, all'interno
delle rispettive nazioni, nuovi assetti produttivi capitalistici, assieme al
loro ruolo egemone e quello delle nuove classi subalterne.
Questo per spiegare che le borghesie nazionali non sono oppresse dal
sottosviluppo, ma lo creano prosperando in funzione di esso, ricacciando nella
miseria il giovane proletariato del terzo mondo, del quale continuano a
sfruttare brutalmente la forza lavoro.
La debolezza delle borghesie nazionali non consente, in numerosi casi, di superare la fase precapitalistica degli assetti produttivi, che rimane comunque subalterna agli interessi del capitale multinazionale. In altri casi, laddove le circostanze lo consentono, esse tendono assumere un ruolo autonomo dal capitale multinazionale, entrando così, ai vari livelli, in contrasto con esso: l'esempio dell'Irak di S.H. è emblematico.
La rivoluzione socialista, così come si è affermata nei paesi ridotti a economie decadute e alla pura sussistenza (Russia, Cina, Cuba, Vietnam, Cambogia, ecc.), non poteva che riuscire a socializzare la miseria, regredendo naturalmente verso forme più o meno evolute di capitalismo di stato. Lo sviluppo delle forze produttive in quei paesi conduce inevitabilmente all'autarchia e alla costruzione di uno stato autoritario e poliziesco volto a garantire l'accumulazione capitalistica accelerata, nonché la repressione della lotta di classe e di ogni opposizione sociale.
Lo sviluppo del sistema di produzione capitalistico non può quindi essere schematizzato nella formula semplificatoria "Nord ricco e predatore, sud povero e sfruttato". Nei paesi cosiddetti poveri, abbiamo in realtà diverse fasi di sviluppo che corrispondono alla concentrazione del capitale, allo sviluppo dei mezzi si produzione, alla concentrazione della forza lavoro ed alla presenza, più o meno sviluppata, di lavoratori salariati. Anche in questi paesi si verificano, con le naturali diversificazioni, le contraddizioni tipiche dei regimi capitalistici, poiché nonostante il basso Prodotto Interno Lordo (PIL), la scarsa produttività del lavoro e la miseria crescente, si è comunque in presenza di sistemi economici che traggono la loro capacità di riprodursi attraverso l'estrazione del profitto e la divisione di classe. Anche nei paesi "poveri" è quindi presente una borghesia detentrice dei mezzi di produzione ed il proletariato quale classe sfruttata e subalterna. Anche in questi paesi è presente quindi lo scontro di classe, tra proletariato e borghesie nazionali che possono assumere ruoli progressisti o repressivi ed imperialisti, a seconda delle circostanze e delle esigenze dei processi di accumulazione e di concentrazione del capitale. Lo sviluppo diseguale del sistema capitalistico mondiale crea conflitti per la spartizione dei profitti e dei mercati mondiali, da qui la guerra con tutte le sue conseguenze destabilizzanti. Non siamo in presenza di una schematica divisione "Nord - Sud", ma di un ruolo dialettico dei processi di sviluppo capitalistici; essi possono essere definiti diseguali nel senso che un medesimo processo di sviluppo non deve essere analizzato come fine a se stesso, ma nel quadro internazionale dei rapporti di produzione capitalistici, cui tale processo è oggettivamente connesso. Siamo quindi in presenza di fenomeni complessi; ed un medesimo livello di sviluppo, che ad esempio caratterizza l'attuale fase del capitalismo nazionale, non è univoco, ma è a sua volta diviso in aree forti ed aree deboli, in centri e periferie, laddove quest'ultime spesso assumono le caratteristiche del sottosviluppo che le accomuna al terzo mondo (l'analfabetismo, la povertà, la mortalità infantile, la disgregazione di classe, sono fenomeni rilevanti anche nei paesi industrializzati).
Il proletariato del terzo mondo è immiserito, non perché la fetta maggiore della torta è scippata dalla classe lavoratrice dei paesi ricchi, ma perché è un proletariato giovane, inserito in aree economiche deboli e decadute storicamente. In dette aree la contraddizione esistente tra capitale e lavoro non è mediata da rilevanti conquiste operaie ed i livelli di organizzazione sindacale si realizzano in condizioni difficilissime (clandestinità, repressione, mancanza di mezzi, ecc.). È ben vero che il capitalista tende a compensare le eccedenze salariali, percepite dai lavoratori in occidente, con uno sfruttamento sistematico del proletariato del terzo mondo, ma per non cadere nel terzomondismo populista è necessario non limitarsi alla piatta considerazione dei fenomeni.
Il capitale, per riprodursi, ha bisogno di accumulare profitti; per questo tende a sfruttare il più possibile sia i mezzi di produzione sia la forza lavoro umana: l'organizzazione scientifica del lavoro non è altro che l'organizzazione del lavoro in presenza di fasi avanzate dello scontro di classe. Da un punto di vista del plusvalore e della produttività del lavoro risulta essere maggiormente sfruttato un operaio della FIAT perché in grado di produrre maggiore ricchezza, che non un lavoratore del terzo mondo.
Ciò non deve scandalizzare per due fondamentali motivi:
È necessario superare l'epidermide dei fenomeni per indagare nel profondo dei rapporti di produzione; un lavoratore non è sfruttato in assoluto, ma dai rapporti di produzione nei quali egli è inserito. Nel sistema capitalistico, così come si manifesta nei paesi "ricchi", i lavoratori sono sfruttati in modo scientifico: lottando hanno strappato grandi concessioni che hanno migliorato non poco la loro condizione.
Senza queste concessioni, il capitalismo non potrebbe realizzare i suoi processi di espansione (si pensi al New Deal negli USA ed al ruolo della socialdemocrazia in occidente); la democrazia borghese ed il riformismo corrispondono a fasi evolute del processo di produzione capitalistico.
Nel terso mondo, per l'arretratezza dei sistemi di produzione, per l'avidità delle borghesie nazionali, ed in generale per l'arretratezza del modello di produzione capitalistico, i lavoratori sono in una condizione di immiserimento. Ciò dipende dagli equilibri dello sviluppo capitalistico e non certo dall'avidità della classe lavoratrice dei paesi capitalistici.
Rimane, infine, da essere analizzato il problema della scarsa sensibilità che la classe lavoratrice manifesta nei confronti dell'inquinamento e della crescente miseria dei popoli del terzo mondo. Quest'ultimo è un aspetto fondamentale che però riguarda la sfera dei livelli di coscienza di classe, invero molto bassi, che i lavoratori esprimono, nell'occidente capitalistico.
Come d'altronde abbiamo sempre affermato, la radicalizzazione rivoluzionaria segue e non precede lo sviluppo della coscienza di classe. La sinistra sembra avere dimenticato, tra un ammiccamento neoliberale e l'altro, che la lotta per una società che abolisce lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, in altre parole la lotta per il comunismo, è soprattutto una lotta per lo sviluppo della coscienza di classe.
È bene dire chiaramente che tale coscienza non è surrogabile.
Una classe forte è una classe solidale e internazionalista, mentre una classe debole e divisa è esposta ai ricatti, alla svendita dei propri ideali e all'immiserimento culturale. Non dobbiamo dimenticare, poiché Bakunin lo ha chiaramente affermato, che lo sviluppo della coscienza di classe non è automatico; non nascerà, cioè, da solo né in occidente né nel terzo mondo, ma dipende dall'azione delle avanguardie e quindi dall'organizzazione politica.
Che tale processo dipenda poi da molte altre cause e circostanze (organizzazione di massa, crescenti livelli di unità di classe anche con settori non necessariamente provenienti dal mondo del lavoro, ecc.), è certamente vero, ma senza l'azione dell'organizzazione politica, la coscienza di classe stenta a decollare.
La lotta salariale, non disgiunta da quella complessiva per il miglioramento delle condizioni di lavoro, rappresenta la molla per lo sviluppo dell'unità e della coscienza di classe. Tutti noi sappiamo quanto sia essenziale saldare la lotta per la difesa degli interessi immediati dei lavoratori con quella per il perseguimento degli interessi storici: in altre parole tutti noi siamo del parere che p necessario saldare la lotta economica con la lotta politica.
Oggi, gli interessi dei lavoratori, per la suddetta complessità dei processi di produzione che travalicano gli ambiti meramente produttivi per investire il territorio, la cultura ed ogni ambito del vivere sociale, non si difendono più con la lotta sindacale canonicamente definita. È necessario, per superare l'isolamento, che i lavoratori inizino a farsi carico delle grandi contraddizioni proprie dell'attuale fase dello sviluppo capitalistico. Solo loro, d'altronde, possono farlo efficacemente, vale a dire con qualche speranza di vittoria, poiché per le predette ragioni solo la classe lavoratrice rappresenta l'unica classe realmente alternativa al capitalismo. Attorno ad essa può e deve svilupparsi quel processo di unità che la classe operaia industriale non è riuscita, nonostante i suoi preziosi insegnamenti, a realizzare nel corso di questo secolo. Ciò rimanda ad un rapporto strettissimo e determinante con i movimenti di massa e con le loro tematiche. Se questo rapporto non si verificherà, la classe lavoratrice sarà privata dei ponti necessari per aprirsi verso un sistema di contraddizioni capitalistiche che, come la crisi ambientale e i problemi relativi al sottosviluppo, impongono di affermare il punto di vista dei lavoratori nell'attuale società capitalistica: i grandi mali che attualmente affliggono il mondo derivano dall'attuale modello di produzione che sacrifica la vita reale, l'ambiente, le libertà, alla cultura del profitto.
È quindi necessario superare il capitalismo: ciò non vuol dire assumere una visione attendista, anzi è necessario lottare contro tutte le storture del sistema capitalistico, cercando di strappare vittorie anche parziali, che comunque indeboliscono il capitale e rafforzano l'opposizione di classe.
Senza il ruolo dei lavoratori, i movimenti di massa, privi di una alternativa strutturalmente anticapitalistica, sono destinati nel medio periodo a divenire la copertura dei settori progressisti dello schieramento capitalista, così come avviene negli USA, permettendo al capitalismo di crescere e prosperare.
Vi è poi un altro motivo per rilanciare lo scontro di classe nei paesi capitalistici, quello cioè che una equa distribuzione della ricchezza può avvenire solo laddove essa si produce: in altre parole la costruzione comunista della società potrà svilupparsi solo laddove sarà possibile socializzare la ricchezza, vale a dire nel cuore del capitalismo. La ripresa dello scontro di classe, in grado di aggredire, logorare ed indebolire il capitalismo nei paesi così detti "ricchi", è l'unica reale speranza di liberazione dei popoli del terzo mondo.
Alcuni elementi di strategia di intervento
Abbiamo visto come il ruolo politico dei movimenti di massa non possa essere concepito separatamente da quello svolto dalla classe lavoratrice; sarebbe però un grave errore trascurarne l'importanza, ciò perché la nostra presenza deve articolarsi laddove si sviluppano le contraddizioni del sistema capitalistico.
I movimenti di massa sono un fondamentale elemento di accesso a settori altrimenti difficilmente raggiungibili, settori molto importanti quali ad esempio gli studenti ed in generale i giovani, che sono fortemente condizionati dalle tematiche relative alla pace e dalle tematiche relative all'ecologia.
Tutto ciò segna un deciso ritorno alla politica, anche se attraverso vie non tradizionali, e soprattutto fuori dalle ingerenze dei partiti politici di sinistra. L'autonomia dei movimenti di massa deve essere quindi colta nella sua concretezza, essa cioè non deve essere concepita alla stregua dell'autonomia della classe lavoratrice dal capitale, semplicemente perché i movimenti di massa non hanno fisionomia di classe ma, come abbiamo visto, essi sono aggregazioni trasversali. L'intervento in queste realtà non deve quindi essere mirato a sviluppare una impossibile autonomia, ma bensì volgersi alla ricerca di tutti gli elementi, e sono molti, che possono collegare i movimenti alla classe lavoratrice. Tale rapporto, che deve essere impostato, è un rapporto profondamente dialettico, perché anche i lavoratori hanno molto da imparare dai movimenti di massa e dalle tematiche che essi esprimono. Al riguardo, vorrei rifermi al movimento femminista (forse oggi sarebbe più corretto parlare di movimento di emancipazione della donna), le cui tematiche storiche non si riconnettono ai livelli di coscienza della classe lavoratrice, che nella pratica della vita quotidiana hanno tirato e continuano a tirare in senso contrario. Ciò, se da una parte rende necessario un "contagio" della classe lavoratrice con simili tematiche, dall'altra dimostra come i livelli di coscienza dei lavoratori e delle lavoratrici siano spesso distanti da simili acquisizioni, così è che sempre più spesso le tematiche enunciate nei convegni e nelle piazze non vengono recepite nei contratti di lavoro (si pensi all'accordo FIAT-Sindacati circa gli investimenti al sud che prevedono la reintroduzione del lavoro notturno per le donne). In pratica, non dobbiamo assolutamente commettere l'errore di ritenere che una corretta strategia in difesa degli interessi dei lavoratori garantisca automaticamente lo sviluppo della loro coscienza, anche rispetto alle tematiche espresse dai movimenti di massa. Ciò che accade per il movimento delle donne accade anche rispetto alla pace ed all'ecologia (si pensi alla produzione bellica ed inquinante ed al coinvolgimento anche culturale dei lavoratori). Quindi la contraddizione classe lavoratrice - movimenti di massa esiste concretamente ed è tangibile. Se tale contraddizione non viene colta, e vi sono tutti i sintomi affinché ciò continui a verificarsi, avremo come prima conseguenza una sorta di antagonismo tra lavoratori e movimenti di massa che rafforzerà il capitale. È ben vero, però, che i movimenti di massa, privi di referenti strutturali rischiano di rifluire verso i lidi tipici dei movimenti di opinione, le cui tematiche, come in parte già accade, sono neutralizzate e rese funzionali al processo di ristrutturazione capitalistico, diventandone la copertura progressista.
Noi abbiamo oggi in Italia un capitale che parla di pace e di ecologia, perché si è modificato formalmente in alcune sue fondamentali storture, si è cioè ristrutturato, preparandosi a gestire la nuova fase di espansione. Ma le guerre e l'inquinamento continueranno, e noi però avremo un capitalismo maggiormente allenato a presentarle, a farle digerire, realizzando così un diffuso consenso.
È su queste premesse che deve realizzarsi il nostro intervento nei movimenti di massa. Non dobbiamo cioè rincorrere le tematiche in astratto, ma iniziare un paziente lavoro di ricucitura sulle tematiche in concreto, iniziando dalla difesa degli interessi dei lavoratori. Il lavoro è lungo e non si esaurirà in una sola stagione ed in una definitiva proposta che sanerà ogni contraddizione.
Difendere gli interessi dei lavoratori significa, da un punto di vista sindacale, realizzare le premesse che riescano a frenare l'attacco capitalistico, strappando vittorie certamente parziali, ma che cementano lo sviluppo dell'unità e della coscienza di classe dei lavoratori. In questo processo, necessariamente lento, è compresa non solo la necessaria lotta economica, ma anche quel passo, quella ulteriore forzatura politica che i militanti rivoluzionari devono essere in grado di imprimere ai fenomeni. L'apertura della classe lavoratrice alle tematiche dei movimenti di massa non si realizzerà quindi tramite un'opera di convincimento, bensì attraverso progressive conquiste. I contratti di lavoro sono al riguardo un fondamentale referente, così come la vertenzialità e la contrattazione. È essenziale che si inizi a riprendere tutte quelle tematiche relative alla salute sul lavoro ed alla sua umanizzazione che il produttivismo sindacale ha deliberatamente abbandonato, così come sono da riconsiderare tutte quelle tematiche del lavoro che hanno una proiezione pratica sulla vita quotidiana (tempo libero, specificità femminile, problemi relativi allo specifico giovanile, ecc.), realizzando su queste tematiche collegamenti con i movimenti di massa presenti sul territorio.
Anche i gravi problemi relativi all'industria degli armamenti e più in generale alle produzioni nocive, devono essere al centro del nostro intervento, con la consapevolezza che la salute del capitalismo si basa appunto sulla produzione di morte. Sono da condannare tutte quelle posizioni che pretenderebbero di pianificare lo sviluppo capitalistico proponendo improbabili modelli di sviluppo. Ancora una volta il nostro intervento non deve porsi sul terreno delle idee e delle proposte geniali, ma molto più concretamente su quello delle dinamiche reali. Il capitalismo non è riformabile, perciò se ne può solo limitare gli effetti nefasti; allora sono da incrementare tutte quelle tematiche in grado di complicare l'espansione capitalistica. Alla necessaria denuncia delle produzioni di morte ed inquinanti deve seguire una proposta concreta in grado di unire i lavoratori, evitando di spostarli dalla parte dei padroni, sulla base della legittima esigenza della difesa del posto di lavoro. Al riguardo l'estensione della cassa integrazione ai lavoratori coinvolti in processi di riconversione potrebbe essere una proposta praticabile. Ciò implica comunque una riconsiderazione delle previdenze che fino ad oggi sono state usate ad esclusivo vantaggio dei processi di ristrutturazione capitalistica.
Tutto questo non risolve i problemi, ma ci consente di partire da un terreno più favorevole alla lotta contro le produzioni nocive e di morte, evitando di inimicarci i lavoratori, sulla base dell'elementare, anche se ambizioso principio: i capitalisti hanno prodotto armi per la guerra e distrutto l'ambiente, i capitalisti dovranno ripagare tutto.
Su queste proposte potrà allora svilupparsi la necessaria controinformazione tra i lavoratori, contro la guerra e contro l'inquinamento, in grado di saldarsi con le tematiche dei movimenti di massa.
Giulio Angeli
Lucca, gennaio 1991
(contributo per il 3° Congresso della FdCA)