La complicata matassa della rivoluzione

Riflessioni su “Comunisti Anarchici: una Questione di Classe” della FdCA

 

Comunisti Anarchici: una questione di classe è un documento di teoria della FdCA italiana che fornisce una esposizione chiave dei principi del comunismo anarchico: quegli stessi principi che – fra le altre – caratterizzano organizzazioni come la FdCA e lo ZACF del Sud Africa. Questa recensione critica di Questione di Classe è apparsa in forma ridotta (per ragioni di spazio) nella nostra rivista "Zabalaza", No.10 – Aprile 2009. Qui appare nella sua versione completa. Questione di Classe può essere letto online qui.

 

L’anarchismo non è un ideale astratto di libertà che sgorga dalla mente di qualche intellettuale. Non è un sogno utopico slegato dalla realtà. L’anarchismo è un movimento dei lavoratori sfruttati, a partire dalle lotte materiali quotidiane; e la sua storia è marcata da un legame costante tra teoria anarchica e lotte costanti dei movimenti di massa della classe lavoratrice.

Questa era la prospettiva di Mikhail Bakunin, il teorico fondatore dell’anarchismo, le cui idee rivoluzionarie erano frutto della sua esperienza nel movimento della classe operaia nella Prima Internazionale del 19° secolo. Questa era anche la prospettiva della Piattaforma Organizzativa dei Comunisti Anarchici, stilata da Nestor Makhno ed altri anarchici ucraini e russi in risposta alla sconfitta della Rivoluzione russa ad opera dei Bolscevichi. Sempre questa è la prospettiva assunta da due militanti storici dello ZACF, Lucien Van der Walt e Michael Schmidt nella loro opera Counter-power, una storia dell’anarchismo in 2 volumi.(Il primo volume, Black Flame: the Revolutionary Class Politics of Anarchism and Syndicalism, è stato pubblicato dalle edizioni AK Press nel febbraio 2009). Ed è anche la prospettiva dei nostri compagni italiani della FdCA nel loro eccellente lavoro teorico Comunisti Anarchici: una Questione di Classe.

Lo scopo di questo lavoro è quello di spiegare i principi fondanti della tradizione anarchica a cui si rifanno sia la FdCA che lo ZACF, e di collocare questa tradizione all’interno del contesto dei movimenti rivoluzionari ed anarchici. La nostra è una tradizione che affonda le sue radici nella lotta di classe: il suo scopo è quello della crescita della classe lavoratrice tramite la lotta per migliorare le sue condizioni di vita quotidiane fino al punto in cui poter collettivamente rovesciare il capitalismo e lo Stato, e fondare una società di liberi ed uguali. All’interno di questa tradizione fondamentale è il ruolo dell’organizzazione: non un’organizzazione autoritaria o gerarchica, come quella dello Stato o di coloro che vogliono controllare lo Stato, bensì un’organizzazione autogestita, federate, in cui le decisioni vengono prese dal basso. Sono questi i principi che da lungo tempo sono stati prescelti dalla maggioranza del movimento anarchico nel corso della sua storia.

Ciò che caratterizza la nostra tradizione – quella dello ZACF e della FdCA – è la concezione che nel documento FdCA viene definito come “dualismo organizzativo”, noto anche, tra gli anarchici latino-americani come “especifismo”. Noi riteniamo che siano necessarie due organizzazioni per costruire la rivoluzione. Una è l’organizzazione di massa delle classi popolari, la quale, come scrive la FdCA, “cerca di strappare nel corso della sua esistenza quanto più è possibile in termini di benessere per le classi sfruttate che rappresenta, tenta di soddisfare i bisogni dei lavoratori tendenzialmente sempre più compressi dal fronte padronale avverso.” Questa organizzazione può giungere a rovesciare i padroni, emancipare i lavoratori e fondare una società libera ed ugualitaria. Solo i lavoratori possono liberare i lavoratori.

Ma proprio perché l’organizzazione di massa è costruita per difendere gli interessi materiali immediati di tutti i lavoratori, essa non può essere unitaria sul piano ideologico. Pochissimi sono oggi i membri dei sindacati e dei movimenti sociali popolari che sono votati al rovesciamento del capitalismo e dello Stato. Ecco perché è necessaria un’altra organizzazione: l’organizzazione politica, o organizzazione specifica. Essa, secondo la FdCA, “raggruppa quei militanti dell’organizzazione di massa che hanno una medesima teoria, una stessa strategia ed una articolazione tattica omogenea. Compito di questa organizzazione è da una parte essere depositaria della memoria di classe e dall’altra di elaborare una strategia comune che permetta il collegamento tra le varie situazioni di lotta all’interno della classe e che ne sia di stimolo e di guida.” A differenza dei gruppi marxisti-leninisti, un’organizzazione politica anarchica non si sostituisce alla classe lavoratrice né cerca di darle ordini, e certamente non punta alla conquista del potere statale. Essa non ha nessuna autorità all’interno dell’organizzazione di massa, se non quella della persuasione razionale della validità delle sue idee tramite l’esempio; il suo ruolo nell’organizzazione di massa è quello di “produrre analisi, strategie e proposte credibili. I suoi membri devono guadagnarsi la fiducia dei lavoratori e devono distinguersi per la chiarezza dello loro idee e per la loro capacità di promuovere lotte convincenti che, dovrebbero, se le condizioni lo permettono, risultare vincenti.” L’organizzazione politica deve mettere in guardia contro i pericoli insiti in altre tendenze le cui idee ed i cui programmi sono in ogni probabilità votati alla sconfitta.

Makhno ed i suoi compagni hanno difeso il principio del dualismo organizzativo all’interno della Piattaforma Organizzativa. Mettono bene in evidenza le caratteristiche chiave dell’organizzazione specifica, quelle stesse che sono state adottare dalla FdCA e dallo ZACF: in particolare l’unità teorica, l’unità tattica e la responsabilità collettiva. Curiosamente, sono esistite organizzazioni politiche anarchiche che non hanno adottato questi principi – le “organizzazioni di sintesi”, le quali, in certi casi, “accettano membri che si dichiarano anarchici senza nessun’altra specificazione”. Come chiarisce la FdCA, questo conduce ad un incredibile miscuglio di idee. Come può l’organizzazione specifica “elaborare una strategia comune” se i suoi membri tirano ognuno verso la propria direzione? L’unità teorica, puntualizza la FdCA, “non è mai definitiva” – ma lo deve essere abbastanza da garantire una strategia comune. Altrimenti a cosa servirebbe avere un’organizzazione specifica?

Considerata l’importanza che la Piattaforma in quanto base dei nostri principi, tutti coloro che sostengono la necessità di un’organizzazione distinta, unitaria nella teoria e nella strategia, vengono spesso definiti come Piattaformisti. Tale definizione viene usata come insulto nei nostri confronti da parte di coloro che ci avversano, ma io lo faccio mio molto volentieri. Eppure, non dovremmo commettere l’errore di pensare che l’idea del dualismo organizzativo abbia origine a partire dalla Piattaforma: infatti, essa è una ripresa dei principi che stanno all’origine dell’anarchismo. E’ un punto di forza del documento della FdCA quello di far risalire il dualismo organizzativo a Bakunin, e di mettere in evidenza i principi e la prassi dell’organizzazione specifica bakuninista, la Alleanza per la Democrazia Socialista, all’interno della Prima Internazionale. Il teorico fondatore dell’anarchismo su posizioni di classe è stato quindi anche il fondatore della nostra tendenza, ed il documento della FdCA inizia con un breve paragrafo sull’importanza di Bakunin, per poi passare ad altri due teorici chiave, Luigi Fabbri e Camillo Berneri (pur riconoscendo l’importanza di altri, quali Makhno ed Errico Malatesta, che appartengono o sono molto vicini alla nostra tradizione).

Il filo rosso della lotta di classe

Il documento della FdCA fa una breve rassegna dei tre eventi chiave nella storia del movimento anarchico e della classe lavoratrice, la Comune di Parigi del 1871, la Rivoluzione Ucraina del 1917-1921 e la Rivoluzione Spagnola del 1936-1939. (Nel caso della rivoluzione spagnola, la FdCA solleva complesse questioni di cui non mi è possibile qui trattare. Credo che la FdCA non ha tenuto sufficientemente conto delle debolezze del movimento anarchico spagnolo. Lo ZACF fornirà il suo punto di vista in un’altra sede). Ma le vere questioni teoriche affrontate dal documento FdCA iniziano con il terzo capitolo, dove si tratta dei principi della lotta di classe. Vi si nota che dal momento che il nostro movimento non ha origine da idee astratte bensì dalle lotte materiali, nel momento stesso in cui si pone come obiettivo di cambiare il mondo, necessita di un’analisi della situazione. Viene qui introdotto il metodo del materialismo storico, con un estratto dei suoi principi da Karl Marx e Friedrich Engels:

"La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini [...]. In ogni concezione della storia dunque il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta."

E’ un altro punto di forza del documento FdCA quello di mettere francamente sullo stesso piano sia il riconoscimento del valore del contributo di Marx sia la dimostrazione dei suoi errori. Ecco come affronta la questione la FdCA:

Il materialismo storico è dunque quella metodologia di analisi dei fatti storici che individua la causa primaria di essi nell’evoluzione della struttura produttiva della società, nello sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione; tutti gli eventi che la storia ci presenta non sono allora frutto delle idee e dello scontro fra diverse concezioni della vita, ma sono frutto degli interessi economici in gioco, manifestazioni dirette ed indirette dei rapporti che si costituiscono all’interno della società umana nella produzione dei beni che necessitano al soddisfacimento dei bisogni materiali, storicamente e socialmente determinati. La storia non è storia di idee, ma, al contrario, le idee sono rivestimenti dei movimenti reali, ma su cui, a loro volta, possono agire, la storia è storia degli antagonismi generati dai rapporti di produzione:è storia della lotta tra le classi.

Qui si illustra lo sfondo per l’introduzione del concetto di classe; ma qui mi viene da sollevare un piccolo cavillo. La FdCA si unisce ai marxisti e alla “cosiddetta sinistra antagonista” nel definire le classi come “i gruppi sociali che possono essere identificati in base alla propria collocazione nel ciclo della produzione e nella posizione relativa alla distribuzione dei beni”. Ma cosa implica questo? Gli operai di fabbrica sono impegnati nella produzione; i ferrovieri ed i marittimi nei trasporti, che è componente della distribuzione. Si tratta di posizioni diverse all’interno del ciclo. Ma non ho mai sentito dire che i ferrovieri e i marittimi costituiscono una classe diversa dagli operai di fabbrica. In tutta la storia della lotta di classe contro il capitalismo, tutti questi lavoratori si sono ritrovati fianco a fianco contro il comune nemico, senza preoccuparsi della loro differente posizione nel ciclo della produzione.

Si tratta di un davvero piccolo cavillo, dal momento che la questione si chiarisce nello stesso capitolo. Ciò che è fondamentale per la classe è il controllo del ciclo produttivo. I capitalisti hanno il controllo; i lavoratori “detengono solo la loro capacità di lavoro e la vendono ai padroni”. La FdCA nota che gli anarchici riconoscono l’importanza delle altre classi, come i contadini, che non devono vendere la propria forza-lavoro, ma vengono ugualmente sfruttati e dominati; noi riteniamo, al contrario dei marxisti, che tutte queste classi hanno un interesse comune nel rovesciare il capitalismo ed hanno una parte da svolgere nella lotta. Ma il potere è fondamentale. Anche se da solo non basta a definire le classi: esistono gerarchie che non sono strutture di classe, in quanto non collegate ai mezzi di produzione e non consentono a chi sta al vertice di sfruttare sistematicamente chi sta in basso per i benefici materiali. Le classi non sono definite solo dalla gerarchia, né solo dalla loro “posizione nel ciclo”, bensì dalla combinazione di posizioni di dominio e di sfruttamento. La FdCA comprende chiaramente questo aspetto; forse la frase contestata riflette semplicemente un’espressione involuta o forse una mancanza nella traduzione dall’italiano. In ogni caso, nel documento FdCA risulta chiaro che lo sfruttamento e la dominazione rendono inconciliabili i dominatori e le classi subordinate; e in un sistema capitalistico, non mancano certo i terreni perché tra di esse si sviluppi un confronto, che speriamo alla fine sia la classe lavoratrice a vincere.

Gli imbrogli di Marx

Dopo aver dedicato un po’ di spazio al confronto tra le classi ed agli obiettivi della classe lavoratrice – una società di liberi ed uguali, una società comunista, basata sul principio “a ciascuno secondo le sua capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” – il documento ritorna ad affrontare le nostre differenze rispetto ad altri movimenti della classe operaia e, in particolare, a sviluppare una critica dei marxisti. Molte delle differenze riguardano la questione dello Stato e, come la FdCA dimostra, la differenza riflette un serio fallimento dell’analisi marxista. Questo punto è affrontato con una certa ironia storica:

Nel 1868, quando la bakuninista Alleanza Internazionale per la Democrazia Socialista decise di aderire alla AIL, Marx ... chiese che vi fosse apportato un cambiamento nello statuto della Alleanza: con pesante ironia Marx disse che l’espressione "uguaglianza delle classi" era ambigua e che doveva essere corretta con "abolizione delle classi". Bakunin concordò sul fatto che l’espressione usata era impropria e concordò con Marx che l’espressione da lui proposta spiegava meglio lo scopo della rivoluzione. Ma l’errore commesso da Marx ed Engels nel 1848 [nel Manifesto Comunista] sarà essere ancora più profondo...

Cosa, infatti, si intende quando si dice che il proletariato si costituisce in sé "come la classe dominante"? Prima di tutto, se il proletariato ha preso il potere, allora la rivoluzione o il passaggio di potere con la borghesia è già avvenuto e dal momento che lo scopo della rivoluzione è, secondo tutti, l’abolizione delle classi... la lotta del proletariato diventa lotta per la sua propria dissoluzione come classe insieme a tutte le altre classi, con la borghesia prima della lista. In secondo luogo, la distinzione di classe non è una questione etica, somatica o etnica, ma deriva dalla differente posizione che i singoli individui di una società hanno rispetto alle relazioni di proprietà. Nel momento in cui viene abolita la proprietà privata, per essere sostituita dalla proprietà collettiva della produzione, distribuzione e consumo, si mette effettivamente fine all’organizzazione sociale classista.

Marx sapeva perfettamente che la rivoluzione punta all’abolizione della classi. Egli sapeva che la guerra di classe era una questione di rapporti di produzione: per cui se la classe operaia si conquista i mezzi di produzione, rovesciando gli esistenti rapporti di produzione per stabilire l’uguaglianza, la classe operaia stessa ne risulta abolita. Parlare del proletariato che diventa la classe dominante, dice la FdCA, non è altro che un “non-senso”; ma è proprio quello che fece Marx nel Manifesto, in uno dei più grandi testi della sua teoria e del suo programma.

La FdCA rileva come i marxisti abbiano difeso la necessità di uno Stato operaio per difendersi dalle continue minacce dei nemici della rivoluzione, contro cui gli operai devono difendersi; come pure per l’organizzazione della produzione, che per i marxisti ha bisogno di essere centralizzata nello Stato. Il testo della FdCA replica punto per punto esaminando la storia della Rivoluzione Russa. Intanto vi si dice che contrariamente alla visione ed alla prassi marxista, l’esercito popolare non di stato di Makhno si rivelò la forza più in grado di difendere la rivoluzione; e che il controllo centralizzato sulla produzione portò al ritorno dell’oppressione e dello sfruttamento ed all’allontanamento dei lavoratori dalla rivoluzione. Contrariamente alle previsioni marxiste, lo “stato operaio” non si è mai estinto, esaurendo il suo compito”. Invece, come era stato previsto da Bakunin, [Piotr] Kropotkin, Malatesta, Fabbri e molti altri pensatori libertari”, la FdCA sottolinea che lo Stato “ha riprodotto lo sfruttamento su cui era basato”. Da parte mia potrei aggiungere che restava lo sfruttamento capitalista: la produzione ha continuato ad essere basata sullo scambio monetario e non sui bisogni, ed i burocrati del Partito Comunista insieme ai padroni hanno accumulato capitali da profitto, spingendo la continua espansione della produzione sotto il loro diretto controllo, attraverso lo sfruttamento dei lavoratori.

Questo è un esempio della possibilità che la “superstruttura” (in questo caso, lo Stato) giunga ad influenzare la “struttura” (le forze ed i rapporti produttivi. Come la FdCA spiega in appendice, i marxisti tendono a mantenere che la superstruttura dipenda totalmente dalla struttura: per cui una volta aboliti i rapporti di sfruttamento, lo Stato deve estinguersi. Ma noi sosteniamo che il materialismo storico prevede un interrelazione tra superstruttura e struttura: lo Stato riproduce lo sfruttamento, e dietro di esso possiamo scorgere le idee autoritarie che hanno promosso la restaurazione dello Stato. Ancora, un partito avanguardista che si pone a rappresentare e dirigere le masse sfruttate, puntando a prendere il potere in loro nome, sarà in un modo o in un altro separato dai lavoratori ed integrato nelle strutture dello Stato borghese. La lotta, come scrive la FdCA, deve essere una lotta sociale, gestita dai lavoratori stessi tramite l’azione diretta quotidiana, non una lotta politica, gestita dai rappresentanti dei lavoratori nelle strutture autoritarie di Stato della classe nemica.

La rigida distinzione tra struttura e superstruttura è solo un esempio dell’oltremodo semplicistico determinismo marxista: ma ci sono altri errori correlati. Ad esempio, i marxisti tendono a vedere la storia come un processo prevedibile da uno stadio economico ad un altro. Lo stadio del comunismo seguirà al capitalismo, e non può essere raggiunto senza prima passare attraverso lo stadio del capitalismo; per cui, lo sviluppo del capitalismo deve essere visto come un fatto progressivo, e chi vi resiste come regressivo. E’ per questa ragione che i marxisti, a differenza degli anarchici e nonostante l’evidenza della storia, tendono ad annullare i contadini ed i potenziali rivoluzionari. Ma su qualcosa ci siamo. Come scrive la FdCA, possiamo essere d’accordo con i marxisti che “l’organizzazione capitalistica del lavoro concentra grosse masse di lavoratori nello stesso spazio fisico, sia nella produzione che nella vita quotidiana, facilitandone l’aggregazione politica”. Ma la FdCA aggiunge come altri fattori “giochino un loro ruolo: la crescita dell’istruzione (non tanto come scolarizzazione, quanto come circolazione delle idee), che il lavoro liberato dagli schemi feudali si trascina dietro; un’idea di giustizia sociale, che emerge dalle nebulose insofferenze generate da sempre in ogni società segnata da profonde ineguaglianze; ed infine l’utopia, come prefigurazione di un mondo meno iniquo. Fattori sovrastrutturali (oppure idealisti o peggio piccolo-borghesi), direbbero i seguaci di Marx, ma che rivestono anch’essi grande importanza.”

La storia non è una semplice questione di condizioni materiali che determinano tutto il resto. Se la si pensa così, ci si può attendere di sottovalutare il pericolo dello Stato “sovrastrutturale” quale forza che promuove di per sé lo sfruttamento. Se si pensa che la storia sia fatta di stadi che si susseguono uno dopo l’altro, si può facilmente pensare che il rovesciamento del capitalismo da parte dei lavoratori possa essere simile al precedente rovesciamento dell’aristocrazia da parte del capitalismo – e se ne può dedurre che è proprio questo che fa Marx, che la sua idea dello “stato operaio” riprende qualcosa dalla presa e dell’uso dello Stato da parte della borghesia contro l’aristocrazia. Se si esamina lo Stato quale forza con un certo grado di indipendenza, si possono comprendere appieno i pericoli insiti nella concezione marxista. Ed è poco consolante – come nota la FdCA – sapere che esistono altre tendenze marxiste (luxemburghisti, bordighisti, comunisti consiliaristi, ecc.) i quali ugualmente rigettano la conquista del potere statale.

Fili di anarchia?

Dopo essersi occupato dei marxisti, la FdCA torna, nel capitolo finale alle distinzioni interne al movimento anarchico. Vengono identificate varie tendenze: individualisti, educazionisti, anti-organizzatori (qui chiamati anarco-comunisti), insurrezionalisti, anarcosindacalisti e la nostra tendenza dei comunisti anarchici. (Ci sono anche i comunisti libertari, di cui si parla in appendice. La FdCA applica questo termine ad un movimento che è sorto intorno agli anni 1960 e che è stato particolarmente importante in Italia: un movimento che viene influenzato dall’anarchismo, ma che prende anche “elementi di analisi marxista ... quali la caduta inevitabile del capitalismo una volta che abbia raggiunto il suo più alto stadio di sviluppo, la natura automatica delle lotte rispetto alla fase economica, ed una visione della crisi attuale come della crisi finale del capitale”. Tuttavia, nel documento FdCA viene dato tenuto conto di come “comunismo libertario” è diventato “sinonimo di comunismo anarchico ... a partire dagli anni ‘40”.)

Nel prendere in esame il significato di tutti questi strani termini, vale la pena porsi una domanda su una questione che ha causato molta confusione nelle storie dell’anarchismo: Cosa intendiamo col termine “anarchico”? Chi può essere considerato un anarchico? Il documento FdCA, come la maggior parte dei lavori sull’anarchismo, non affronta direttamente tale questione; e questo, secondo me, costituisce una debolezza nella classificazione che poi viene usata dalla FdCA. Su un altro versante, Lucien Van der Walt e Michael Schmidt affrontano molto seriamente la questione nel loro lavoro Counter-power. Nel percorrere questo labirinto di strani termini e idee balzane, mi riferirò ampiamente ai concetti espressi nel loro lavoro.

Per iniziare, dirò che non ci aiuta molto dare dell’anarchico a chiunque scelga questo termine per definire se stesso. Troppa gente con idee e pratiche troppo diverse tra di loro hanno pensato che dirsi anarchici fosse la cosa appropriate; lasciare che facciano come gli pare non ci aiuta a capire che cosa essi abbiamo veramente in comune. E’ questo fattore comune che dobbiamo cercare. Come primo passo, potremmo definire “anarchismo” come opposizione allo Stato, oppure all’autorità gerarchica in generale. Ma questo, ripeto, ci impedisce di cogliere gli aspetti chiave del modo con cui viene usato il termine. I marxisti in genere non vengono identificati come anarchici, ma i marxisti stessi, dopo tutto, vogliono che eventualmente lo Stato si estingua! Come dice la FdCA, possiamo concordare con i marxisti sul “tipo di società che si intende realizzare”; la differenza sta nei metodi per giungervi e nelle analisi sociali e storiche che informano differenti metodi. Ma una volta che abbiamo espunto i marxisti dalla nostra lista di “anarchici”, possiamo trovare qualcosa in comune tra gli “antistatalisti” rimanenti?

Sempre seguendo Schmidt e Van der Walt, propongo di ritornare all’approccio di Bakunin e Makhno – che come ho già detto, è anche l’approccio della FdCA, sebbene il capitolo finale è per certi aspetti riduttivo. Io vedo che c’è, al di là di tutto, un movimento delle classi oppresse, di grande importanza storica, che è iniziato con Bakunin e la Prima Internazionale, e che è rimasto abbastanza coerente nelle idee e nella prassi. Un movimento basato sulla lotta di classe, sull’azione diretta, sulla liberazione dei lavoratori da parte dei lavoratori stessi, organizzato federativamente, orizzontalmente, che usa la democrazia diretta a tale fine, che punta alla distruzione della proprietà privata, alla distruzione del capitalismo e dello Stato, ed alla edificazione di una società di liberi ed uguali. E’ questo movimento che storicamente ha dato valore corrente al nome “anarchismo”: le parole e le idee, dopo tutto, sono forgiate dalla storia e dalle circostanze materiali. Confrontando le varie tendenze con le idee e la prassi, portato di questo movimento, possiamo provare a dire chi è anarchico e chi non lo è.

Per cominciare, mettiamo sotto i nostri riflettori, coloro che la FdCA indica come individualisti, quelli influenzati dalle idee di Max Stirner. Ecco cosa scrive la FdCA su di loro:

L’idea di fondo ... era che la misura della libertà era quella dell’indipendenza dell’individuo, nel totale disprezzo della banale considerazione che l’Uomo è un animale sociale e che tutte le sue conquiste storiche ... sono state ottenute solo grazie alla sua vita associata, …sono frutto di miliardi e miliardi si anonimi apporti alla costruzione del benessere e dell’evoluzione della specie. La specie umana vive oggi un una così spessa trama di rapporti tra tutti i suoi appartenenti presenti e passati, che la totale libertà di un essere isolato quale singolo individuo è una categoria filosofica del tutto avulsa dalla realtà. Partendo da questo improbabile presupposto, gli individualisti hanno cominciato a staccarsi da ogni raggruppamento sociale, a disprezzare le masse, a loro avviso asservite pecorilmente al potere, e hanno finito così per scambiare l’anarchismo come la lotta contro l’autorità e lo Stato e non come lotta per conquista di una società egualitaria.

Come si vede non è certamente una teoria che ha a che fare con la lotta di classe! Tuttavia, questo passaggio mette in evidenza un punto importante sul movimento anarchico di classe: le nostre idee e la nostra prassi hanno un senso solo nell’assumere gli esseri umani come animali sociali, e non individui isolati indipendenti e atomizzati – un’idea che è completamente assurda per come la dice la FdCA. Questo punto, sollevato da Bakunin, è stato reiterate da molti teorici anarchici. Ed è alquanto sorprendente, nel leggere il testo della FdCA, che noi troviamo “anarco-individualisti” and “anarco-capitalisti”, influenzati da queste stesse idee, difendere il capitalismo e la libertà di sfruttare contro ogni restrizione statale che possa in qualche modo ostacolare lo sfruttamento. Se ci si rifiuta di riconoscere la profondità delle interconnessioni sociali, se ci si rifiuta di riconoscere che il proprio benessere è legato a quello degli altri, perché non venire allo scoperto e sfruttare chiunque per il proprio arricchimento e combattere chiunque ce lo impedisca?

Inoltre, come scrive la FdCA, pochi individualisti “hanno mantenuto un ruolo di militanza attiva tra le file del proletariato”; altri si sono identificati o associati con il movimento anarchico storico. Né le idee né le condizioni materiali possono determinare esattamente ciò che ogni individuo farà; le idee e le pratiche sono spesso confuse; il mondo è un posto incasinato. Ma anche se alcuni “anarco-individualisti” hanno fatto parte in qualche modo del movimento anarchico, non vi è niente in comune tra le idee degli individualisti e le idee anarchiche, o tra le prassi che vengono naturalmente associate ai due filoni di pensiero. Se “l’anarco-individualismo” è un movimento, allora non è un movimento anarchico; esso non fa parte, ideologicamente e storicamente, del movimento di lotta di classe che fa sua la natura sociale dell’umanità. E lo stesso può dirsi per gli educazionisti, cioè per coloro che sostengono “che l’istruzione è sufficiente per cambiare la natura umana, anche prima che cambino le condizioni materiali d’esistenza”. Tale visione è incompatibile col materialismo storico ed è in contraddizione con la prassi dell’anarchismo di classe. Di nuovo, ci possono essere persone associate al movimento anarchico che hanno tali posizioni e/o agiscono compatibilmente con tali posizioni; ma ce ne potrebbero essere anche al di fuori. L’educazionismo non è un movimento anarchico, né più né meno dell’individualismo. (Si veda Appendice A)

La parte della FdCA sugli anti-organizzatori solleva questioni più complicate. Possiamo per iniziare chiederci quali potrebbero essere le ragioni perché si rigetti l’organizzazione. Suggerirei che una delle ragioni più ovvie alla base di una tale posizione sia semplicemente la confusione, e che vi è una fonte ancora più ovvia di questa confusione, che deriva dal lavorio delle ideologie dominanti nelle società oppressive in cui viviamo: l’idea che l’organizzazione sia necessariamente autoritaria e gerarchica. Da qui si aprono due percorsi di ragionamento. Il difensore dell’autorità dice: l’organizzazione implica autorità gerarchica, l’organizzazione è necessaria, perciò l’autorità gerarchica è necessaria. L’anti-organizzatore dice: l’organizzazione implica l’autorità gerarchica, l’autorità gerarchica è distruttiva, perciò l’organizzazione è distruttiva. Gli anarchici respingono entrambi questi argomenti, poiché noi neghiamo che l’organizzazione necessiti di essere autoritaria e gerarchica. Naturalmente, la confusione è spesso chiaramente espressa come si è visto; è nella natura della confusione essere confusa. Ma questi modi di pensare possono aver a che fare non poco con gli anti-organizzatori. (Spetta agli anarchici dimostrare quanto l’organizzazione possa funzionare bene senza autorità e senza gerarchie – ma la storia di fornisce di abbondanti prove ed abbiamo raccolto la sfida con tale successo, che non mi sembra ci sia bisogno di dire altro.)

Vale la pena notare che tanti supposti anti-organizzatori come Luigi Galleani, erano poi nei fatti organizzati, sebbene in piccole cellule cospirative. E’ fare un torto all’immaginazione chiedersi perché mai tali cellule, posto che fossero d’accordo, non si siano unite in un federazione anarchica più ampia con le stesse posizioni.

Ma, altri anti-organizzatori di cui si occupa la FdCA – “gli anarco-comunisti” – hanno radici ben diverse. Prima di parlarne, devo notare che la stessa terminologia usata nel testo della FdCA si presta a produrre confusione. Come si fa a tenere a mente che “Anarco-Comunismo” prevede una opposizione all’organizzazione e che “Comunismo Anarchico” la sostiene, con tanto di idee definite sul suo funzionamento? In italiano i termini sono, rispettivamente, “anarco-comunismo” e “comunismo anarchico”, con l’ordine della parole inverso per indicare due diverse tendenze; ma resta il fatto che appare alquanto singolare dare a tradizioni differenti dei nomi che sono costruiti sulla combinazione della stessa coppia di parole! Devo supporre che queste usanze sono abbastanza familiari per l’Italia e che i militanti di classe italiani sapranno guardare oltre l’etimologia per sapere di quali movimenti e di quali idee si sta parlando. Le parole sono plasmate dalla storia, ma devo dire che scegliere queste parole non è di nessuna utilità né per me, né per chiunque non abbia esperienza del come e perché questi termini siano degli standard nel movimento italiano. Per me, “anarco-comunismo” e “comunismo anarchico” mi dicono entrambi la stessa cosa: comunismo combinato con l’anarchismo. E però questa mia logica conclusione, ahimè, non ha niente a che vedere con l’uso che se fa in Italia.

Ho identificato l’anarchismo come un movimento storico della classe operaia, che punta alla distruzione delle strutture oppressive e dello sfruttamento per mano dei lavoratori stessi. Cos’è allora il comunismo? Devo notare che l’uso originario della parola era – è - in relazione al mondo per cui stiamo combattendo: una società in cui la produzione è gestita in base al principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”; da cui una società senza sfruttamento, senza proprietà privata, senza denaro e senza mercato finanziario. Il comunismo viene comunemente messo a confronto, per esempio, col collettivismo, che la FdCA identifica essere basato sul principio “a ciascuno secondo il suo lavoro”. Io non sono sicuro se questa sia una descrizione adeguata del collettivismo, se il termine viene sempre usato strettamente in questo modo, ma ad ogni modo, esso viene usualmente riferito ad un sistema produttivo che, sebbene non comunista, si suppone non sia basato sullo sfruttamento. (La parola “socialismo” produce ancora più confusione. Viene considerata a volte in contrasto con comunismo, o, come fa la FdCA , in contrasto sia con comunismo che con collettivismo; in altri casi è usato come un vago termine-ombrello per qualsiasi sistema senza sfruttamento, implicando che il comunismo sia una specie di socialismo – e come noi comunisti diremmo, la specie migliore.)

Naturalmente, tutte queste parole vengono plasmate dalla storia e dalle condizioni materiali. Non deve sorprendere che i principi comunisti, del tutto opposti allo sfruttamento, abbiano ricevuto grande accoglienza tra le masse dei movimenti rivoluzionari; anzi, non sarebbe del tutto errato dire che questi movimenti costituissero il movimento comunista. Ma l’uso specifico del termine è mutato col passare del tempo. Come fa notare la FdCA, sebbene Marx usasse la parola “comunismo” a partire dagli anni 1840, sono stati gli anarchici per primi ad adottare il termine su vasta scala intorno alla fine del XIX secolo. A quel tempo, i marxisti preferivano il termine “Social Democrazia”: la loro maggiore presenza si riscontra nel Partito Socialdemocratico Tedesco, il cui obiettivo era prendere il controllo dello stato borghese attraverso le elezioni. Di conseguenza, il termine “Social Democrazia”– precedentemente usato da Bakunin nel nome della sua Alleanza! – venne a significare collaborazione di classe, a causa del futile sforzo da parte di movimenti basati nella classe operaia di raggiungere qualche compromesso con i loro sfruttatori.

La FdCA aggiunge: “E’ solo dopo la Rivoluzione Russa dell’ottobre 1917 che i partiti marxisti di tutto il mondo ritornano all’uso dell’aggettivo comunista. A quell’epoca, comunque, i comunisti anarchici avevano già usato il termine comunista come sinonimo di anarchismo di classe da almeno 50 anni”. E quando i bolscevichi si presero il nome, il suo significato divenne ambiguo: significava stare dalla parte degli Stati autoritari, centralizzatori, sfruttatori e repressivi messi su da Vladimir Lenin e dai suoi imitatori, che non avevano niente in comune con il comunismo nel suo termine originario. Per dirla tutta, i leninisti non tendevano a chiamare i loro Stati veramente comunisti, poiché in quanto marxisti deterministi, consideravano quegli Stati una tappa sulla strada verso il comunismo, ed erano coerenti con il loro grande impegno in questo grande obiettivo – una dedizione che in certi casi può veramente essere stata sincera – al punto da chiamare le loro organizzazioni Partito Comunista. Ma chiamare comunista la Russia bolscevica significa dimenticare quello che era il vero significato della parola comunismo, della sua visione e di cosa significava invece all’opposto capitalismo, al punto che – come ho sempre sostenuto – la Russia bolscevica era un paese capitalista. Sono stati fatti molti sforzi per strappare via la parola “comunismo” dal movimento rivoluzionario operaio. Il “Socialismo” è diventato termine ancora più confuso: oggi potrebbe essere usato da chiunque abbia qualche critica seppur lieve da fare al “libero mercato” capitalista. Ma la parola “comunismo”, almeno, è una di quelle che noi dovremmo recuperare. Proprio perché vogliamo in futuro espropriare gli espropriatori del nostro lavoro, possiamo oggi parimenti espropriare gli espropriatori delle nostre parole.

Liberando Kropotkin

Ma che cosa ne facciamo di queste parole una volta riprese? Torniamo all’opera dell’FdCA. Il documento descrive le posizioni degli “anarco-comunisti” così:

[L]’anarchismo non era più la meta degli sforzi coscienti degli uomini e delle donne per organizzarsi in funzione della propria felicità collettiva, ma solo lo stadio finale teleologicamente predeterminato dello sviluppo storico (un po' come vedremo si verifica anche nell'ortodossia stalinista del materialismo dialettico, uscito dallo stesso clima positivistico). Ne discende […] che ogni forma di vera organizzazione non solo non è necessaria, in quanto il corso degli eventi non è suscettibile di essere seriamente influenzato, ma è addirittura dannoso perché costituisce uno sbarramento al libero fluire della spontaneità del processo, allontanando perciò stesso l’inverarsi dello stadio finale dell'umano alveare. […] Gli anarco-comunisti nella loro visione deterministica del farsi storico non danno importanza alla lotta di classe; anzi considerano la stessa esistenza delle classi come un dato tutto da dimostrare, se non addirittura una invenzione marxista.

Va notato che il termine “teleologia” si riferisce all’opinione che la storia tende verso un determinato fine: nel caso degli “anarco-comunisti” (e infatti anche dei marxisti ortodossi e dei leninisti, che condividono il fine teleologico), tale fine sarebbe una libera società comunista senza Stato. Davvero un bel fine; ma la FdCA fa notare giustamente che se uno pensa che il mondo deve comunque finire, allora dov’è l’incentivo a lavorare per questo fine? (Ugualmente, potrebbe anche indurre a non pensare a quello che veramente c’è da fare per arrivarvi, che potrebbe anche, secondo me, spiegare in parte perché Marx fu così contento di includere nella sua teoria storica quell’assurdità dello “stato operaio”). L’idea che si ha leggendo ciò che dice la FdCA sugli “anarco-comunisti” è di autocompiacimento politico, che loro si aspettano che la forza potente della Storia faccia tutto il lavoro.

E questa confusione viene attribuita nel documento a Kropotkin, un pensatore anarchico russo della fine dell’800. Devo dire che lo trovo alquanto ingiusto. Certamente esiste nel pensiero di Kropotkin un elemento teleologico molto importante – benché differisce da quella marxiana nel suo rifiuto di qualsiasi ruolo positivo per lo Stato. Ma questa teleologia non è affatto inusuale tra gli anarchici dell’epoca. Si vede in Bakunin, specialmente nei suoi scritti di natura più filosofica, quali Dio e lo Stato. Sebbene la FdCA abbia ragione nel dire che la teleologia nel pensiero può portare a errori politici, Bakunin e altri ci fanno capire che non lo fa automaticamente. E nel caso di Kropotkin, non fu così, o almeno non in modo così evidente o così importante come suggerito dalla FdCA. Lungi dal “non da[re] importanza alla lotta di classe”, Kropotkin vi era fortemente impegnato. Il suo libro La conquista del pane apre con una critica profonda del capitalismo e prosegue con un esame accurato del modo in cui i lavoratori possono soddisfare i loro bisogni materiali in una situazione rivoluzionaria – a partire dal bisogno di espropriare gli espropriatori. L’autore di quel libro non era tipo da disdegnare la lotta ci classe, né mostra i segni di uno che snobba l’organizzazione. (Per saperne di più sulle posizioni di Kropotkin si veda l’Appendice B.)

È vero che in un periodo successivo della sua vita, Kropotkin si disimpegnò dal movimento anarchico “di massa”, fino al punto di rompere con i principi anarchici alla vigilia della I Guerra Mondiale sostenendo l’imperialismo britannico e francese. Ma la FdCA non ne parla di questa posizione mutata. Invece le idee degli “anarco-comunisti” vengono fatte risalire a Kropotkin, che viene direttamente identificato come il loro precursore e fondatore. È infatti facile capire perché gli antiorganizzatori teleologici si rivolgono a Kropotkin nel tentativo di trovare un sostegno teorico per le loro posizioni, ma così facendo sono colpevoli di non aver preso in considerazione la profondità del suo pensiero. E mi spiace dover dire che, nel relegare Kropotkin al livello degli “anarco-comunisti”, la FdCA commette lo stesso errore.

Certamente si possono trovare nelle posizioni di molti individui associati al movimento anarchico delle idee teleologiche antiorganizzatrici, e altro ancora. Ma tali posizioni, soprattutto quando portate all’estremo di rinunciare alla lotta di classe come segnalato dalla FdCA, sono evidentemente in conflitto con le posizioni e le pratiche dello stesso movimento anarchico, come risulta dall’analisi fatta da me e dagli altri compagni dello ZACF. Gli individualisti e gli educazionisti potranno chiamarsi anarchici e associarsi al movimento anarchico, ma questo non li rende anarchici, non fa della loro tendenza una tendenza anarchica. (Si veda l’Appendice A) Lo stesso può dirsi degli “anarco-comunisti”. Il fatto che loro fanno risalire le loro idee a Kropotkin – o a una loro visione deformata di Kropotkin – non li rende anarchici, e io non li chiamerò anarchici. Ma se sono conosciuti con tale nome in Italia, forse non c’è modo da evitarlo.

La FdCA nota una somiglianza tra i “kropotkiniani” e gli anarchici insurrezionalisti, una tendenza molto visibile della fine ‘800. Il loro documento spiega:

[L]a speranza [fu] che il dilagare delle azioni violente, con cui andavano a colpire la boriosa borghesia dell'epoca, avrebbe costituito un esempio rapidamente imitato, tramutando la scintilla insurrezionale nella deflagrazione dell'immenso rogo rivoluzionario. Fu il periodo degli attentati sanguinari dei François-Claudius Koehingstein detto Ravachol, dei Bonnot, degli Èmile Henry e di tanti altri, che isolarono ancora di più gli anarchici dal proletariato. Proprio in Francia, dove il fenomeno insurrezionalista era stato più virulento, gli anarchici militanti nella classe (Èmile Pouget, Fernand Pelloutier, Pierre Monatte, ecc.) trovarono la via di uscita nella formazione delle Bourse du Travail e dei syndicat, reimmergendo l'anarchismo nel suo elemento naturale, la classe proletaria, e dando vita ad una nuova profonda esperienza di lotta e organizzazione. Ciò nonostante, ancora oggi, c’è chi, partendo da una semplificazione teorica puerile, ritiene effimera ogni conquista sindacale e predica la pratica dell'esempio col fatto; e sbaglia due volte: la prima quando pensa che i sillogismi annullino la storia, ovverosia ritengono, con un puro ragionamento astratto, che, capitalismo imperante, nessun miglioramento sia intervenuto nelle condizioni di vita delle masse, anche laddove le lotte sindacali si sono sviluppate; la seconda è quando ancora si illudono che un esempio esterno possa essere più attraente e convincente di una lunga e faticosa attività di educazione nel fluire delle lotta quotidiana.

La somiglianza agli “anarco-comunisti” sta nel loro rifiuto della lotta di classe su larga scala sotto il capitalismo, e nel sostituire dei principi storici astratti e generali al duro lavoro di analisi e di organizzazione. Ma le differenze ci sono. Dopo tutto, gli insurrezionalisti compiono sì azioni di lotta contro la borghesia, e si organizzano pure – anche se siamo d’accordo che l’organizzazione in gruppuscoli per compiere atti sanguinosi di vendetta non è affatto un modo efficace di costruire la lotta rivoluzionaria. Storicamente parlando, è chiaro che la tendenza insurrezionalista fa parte del movimento anarchico in senso largo. La FdCA rafforza il legame tra insurrezionalismo e “anarco-comunismo” facendo notare che Kropotkin sostenne la strategia della propaganda col fatto; ma qui si fa ancora un’altra ingiustizia nei confronti di Kropotkin dal momento che molti altri anarchici di spicco – non tutti suoi seguaci – parteciparono al congresso del 1881 durante il quale quella strategia fu adottata. L’insurrezionalismo godette di molto sostegno per qualche tempo; molti anarchici importanti vi si avvicinarono, per poi testimoniare del suo fallimento e lasciarselo alle spalle. Van der Walt e Schmidt infatti riconoscono l’insurrezionalismo come tendenza distinta, benché minoritaria, in seno all’anarchismo “di massa”, fatto di movimenti larghi per la lotta di classe, l’approccio sostenuto appunto dallo ZACF e dalla FdCA. Anzi, uno dei primi anarchici di spicco a distanziarsi dalla propaganda col fatto insurrezionalista verso l’anarchismo organizzato “di massa” fu proprio Kropotkin.

Quanti fili?

In seno al movimento anarchico “di massa”, è usuale parlare di due tendenze: quella “comunista anarchica” e quella “anarcosindacalista”; sembra però che ci sia poca chiarezza su quello che divide queste due tendenze. Non mi dilungherò a esaminare le differenze sottili; mi limiterò a notare le distinzioni genuine segnalate dalla FdCA.

Anarcosindacalisti di varie specie e sindacalisti rivoluzionari hanno fiducia nella spontanea evoluzione delle masse proletarie e, quindi, pensano che i sindacati lasciati a se stessi prima o poi arriveranno allo scontro decisivo col padronato. Già Malatesta nel 1907 si scontrò con questa tesi sostenuta da Monatte al Congresso Internazionale di Amsterdam e chiarì come l’associazione di resistenza del proletariato nella propria parabola scivola inevitabilmente in un riformismo che smarrisce il senso dei fini […]. Il declino storicamente accertato di tutti i sindacati nati rivoluzionari e antagonisti, a partire proprio dalla CGT di Monatte, ha spinto alcuni anarcosindacalisti a cercare la risposta non nell’organizzazione politica, ma nella costituzione di sindacati coesi su di un’idea rivoluzionaria già predeterminata, a formare cioè sindacati costituiti dai soli elementi coscienti e rivoluzionari; ne è risultato una strano miscuglio tra organizzazione di massa e organizzazione politica che si traduce in un'organizzazione di anarchici che fa sindacalismo in proprio. L’ostacolo in tal modo è solo aggirato, perché manca l’anello che congiunge le masse alla strategia rivoluzionaria, a meno di non voler rispolverare la stantia prospettiva dell'esempio esterno che contamina le masse per irraggiamento.

È certamente vero che molti tra coloro che si chiamano “anarcosindacalisti” sono caduti in uno degli errori di cui sopra; ma benché siano diffusi questi metodi di distinzione, non sono affatto sicuro che siano universali. Non sono sicuro che ognuno che si chiami “anarcosindacalista” respinga la necessità dell’organizzazione di specifico o politica. Il ZACF tende verso la posizione espressa nella Piattaforma Organizzativa: “Mentre il comunismo, cioè la libera società di lavoratori eguali, è lo scopo della lotta anarchica, il sindacalismo, cioè il movimento operaio rivoluzionario organizzato sindacalmente, non è che una delle forme di lotta rivoluzionaria di classe”. Riconosciamo però la diversità di posizioni sul ruolo dei sindacati nella lotta.

Identificare le varie opinioni con tendenze particolari è però più problematico. Vediamo la nostra tendenza, quella del ZACF e della FdCA, che i nostri compagni della FdCA chiamano quella “comunista anarchica”. Il loro documento giustamente indica Bakunin come fondatore della tendenza; ma precisa anche (nel Capitolo 3) che egli fu un collettivista, e non un comunista! (Può darsi che a Bakunin non piaceva il termine comunista a causa della sua associazione all’epoca con l’autoritarismo marxiano; infatti, fu solo qualche tempo dopo che una completa teoria comunista anarchica venne elaborata. E, come nota la FdCA, gli scritti bakuniniani sono tutt’altro che sistematici: non è facile capire il suo preciso pensiero sull’organizzazione della produzione in una libera società.) Pare strano dare il nome “comunista” alla propria tendenza quando il suo iniziatore sembra non essere stato un comunista. Ma anche qui esistono dei precedenti storici: molti nella tendenza si riconoscono nel comunismo anarchico; e molte nostre organizzazioni oggi usano il termine nella propria sigla, tra cui la FdCA e lo ZACF. Tuttavia, rimane un po’ strano usare tale definizione sia perché la tendenza comprende anche non comunisti – notabilmente il fondatore – sia perché ci sono dei anarchici comunisti che non appartengono alla nostra tendenza. Allora, perché non ci chiamiamo dualisti organizzativi, especifistas o, almeno per alcuni di noi (forse i più rigorosi in senso teorico o pratico, oppure i più “vetero”), semplicemente piattaformisti?

Questo è un solo esempio delle difficoltà che si incontrano quando si vuole distinguersi all’interno del movimento anarchico “di massa”. È possibile ideare una classificazione chiara che tenga conto dei vari distingui quali l’essere comunista o no, il non voler partecipare alle lotte sindacali o sì e in quale modo, il rifiuto o l’accettazione dell’organizzazione di specifico e, tra chi l’accetta, la preferenza per un’organizzazione di tendenza o per una di sintesi? Dubito sia possibile; dubito anche che possa servire a illuminare la storia dell’anarchismo, la storia dell’interazione del movimento di massa con il sistema produttivo. Dunque, Van der Walt e Schmidt si fermano a distinguere tra l’insurrezionalismo da una parte e l’anarchismo “di massa” dall’altra e non si azzardano a trovare le difficili e contorte distinzioni tra, per esempio, sindacalisti e comunisti. Questo non vale a dire che non ci siano fili distinti nel movimento anarchico “di massa”: è evidente che ce ne siano, uno di cui essendo proprio il filo che unisce Bakunin al ZACF e alla FdCA (fra gli altri). E a noi fa piacere credere che si tratti di un filo particolarmente coerente e importante.

Conclusione: non ci impicchiamo con la matassa

Ho dedicato molto spazio ai difetti nella classificazione fatta dalla FdCA delle tendenze anarchiche; tuttavia rimane il fatto che le idee di cui si parla nel documento esistono veramente e in genere serve una critica ad esse; e le critiche avanzate sono del tutto precise. Se la mappa del terreno tracciata dalla FdCA non è del tutto perfetta (e sarebbe difficile non migliorare qualsiasi mappa), questo non impedisce ai nostri compagni di trovare i bersagli che vanno colpiti. L’unica volta che veramente sbagliano mira è il caso di Kropotkin.

La discussione sulle tendenze anarchiche non si limita solamente a abbattere I confusionisti: ce ne sono anche molti punti positivi. Tra questi, noto in particolare la necessità che gli anarchici difendano certi ruoli dello Stato: il welfare state, che garantisce “una seppur minima redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori; hanno consentito, come frutto di lotte decennali, una regolazione del conflitto a tutela dei più deboli”. Questo non vuol dire che non bisogna “aboli[re lo] Stato fin dal primo momento della rivoluzione”, semplicemente che bisogna essere coscienti – nelle lotte quotidiane – dei bisogni immediati della classe lavoratrice. Questo è importante per molte delle lotte in cui il ZACF è impegnato. I movimenti popolari in Sud Africa oggi lottano per la casa, l’acqua, l’accesso all’energia elettrica, e noi ci appelliamo sempre perché si usi I metodi dell’azione diretta in queste lotte; ma sono cose che speriamo di conquistare oggi stesso, sotto il capitalismo, e sappiamo bene che ragionevolmente solo lo Stato può fornirle.

Un’altra cosa importante, della quale lo ZACF avrebbe molto da imparare – dalla FdCA, appunto – è la necessità di un programma, di una serie di obiettivi a medio e breve termine, basati su un’analisi accurata, compresa l’analisi economica, della fase attuale. A questo riguardo, la FdCA riconosce il valore delle alleanze tattiche e strategiche con militanti di altre tendenze. Come precisano: “I comunisti anarchici sono talmente consapevoli dei propri fini storici, della propria strategia per conseguirli, dei passi da intraprendere oggi che non temono commistioni che li snaturino, non temono i contatti impuri che li contaminino. Anzi pensano di essere loro in grado di contaminare gli altri”.

Qui ho esaminato una parte dell’analisi precisa e profonda dei nostri compagni. Gran parte di questa recensione è dedicata ai punti deboli del documento, di cui si potrebbe parlare di più: ma ci sarebbe anche da dire molto di più ancora delle parti forti del documento. Per questo, però, è meglio che Questione di classe parli da sé.

James Pendlebury (ZACF)

Traduzione a cura di FdCA – Ufficio Relazioni Internazionali

 

Appendici

A: Ridefinire le correnti anarchiche

Scrive Michael Schmidt: “Stranamente non c’è – secondo me e Lucien Van der Walt, e come abbiamo discusso nel libro Black Flame: the Revolutionary Class Politics of Anarchism and Syndicalism – alcun corrente “comunista anarchica”, storicamente identificabile. E’ indubbiamente il WSM irlandese, l’FdCA e altri della nostra tendenza si sorprenderanno nell’apprenderlo, ma si tratta di una posizione basata solidamente nei fatti storici: che i “comunisti anarchici puri” come il giapponese Hatta Shuzo non erano affatto antisindacalisti (ma semplicemente riconoscevano I limiti della sola organizzazione di massa senza la presenza dell’organizzazione di specifico, posizione condivisa da Errico Malatesta e altri) e anzi lavoravano all’interno del movimento sindacalista per riunificare la Zenkoku Jiren [Federazione libertaria pan-giapponese dei sindacati - ndt] “comunista anarchica” e la Nihon Jikyo “anarcosindacalista”. Così, se nemmeno I “puristi” erano antisindacalisti e gli “antiorganizzatori” come Luigi Galleani erano difatti organizzati – seppure su scala piccola, a livello di gruppo di affinità – allora chi è che si oppone all’approccio “di massa” adottato dalla maggioranza del movimento anarchico storico?

Degli anarchici che legittimamente rivendicano tale nome grazie al loro orientamento rivoluzionario, comunista libertario e di classe, gli unici a rifiutare la linea “di massa” sono quelli che rifiutano l’utilità delle riforme, credendo che la “ginnastica rivoluzionaria” delle lotte sindacali serve solo a logorare la forza dei lavoratori attraverso infezione dalle norme borghesi, conducendoli a mortali compromessi con lo Stato, il capitale e il progetto dell’elite (infatti, lo ZACF sottoscrive l’opinione della FdCA che invece saranno le idee rivoluzionarie a infettare le organizzazioni della classe). Per gli anarco-insurrezionalisti, la strada alla mobilitazione della classe passa attraverso le rivolte spontanee e volontaristiche, scatenate da un evento catalizzatore. Sebbene questa posizione sia vicina a alcune posizioni dei comunisti di sinistra e dei comunisti dei consigli, non c’è niente di intrinsecamente antianarchico nella loro analisi; ma così come la linea “di massa” è a rischio di scivolare nel riformismo, la linea insurrezionalista è a rischio di sostituzionismo.

Tuttavia, io e Lucien siamo d’accordo che in molti casi, l’insurrezionalismo e la guerriglia sono a volte avvenuti non in isolamento, bensì in quanto armi di difesa delle organizzazioni popolari di massa. Si possono citare ad esempio la Organización Popular Revolucionaria-33 in Uruguay, che agiva a difesa degli scioperi selvaggi del sindacato CNT e altre mobilitazioni contro la repressione neofascista del periodo 1971-1976; Resistencia Libertaria in Argentina, che difendeva l’autonomia dei lavoratori contro l’estrema destra che organizzò il colpo di stato militare dell’assassino Galtieri del 1976; il Movimiento Ibérico Libertario, che operava clandestinamente in Spagna contro la dittatura di Franco tra il 1971 e il 1974; il Gruppo per la Liberazione dei Lavoratori (Shagila) iracheno e l’Urlo del Popolo (CHK) iraniano, che difendevano I soviet (shoras) nelle fabbriche e I comitati di base sul territorio (kommitehs) durante la Rivoluzione iraniana del 1978-1979. Un altro esempio, forse più noto è quello del gruppo Los Solidarios in Spagna degli anni 1920, che non assassinava senza motivo, ma invece era stato formato dalla federazione anarcosindacalista – la CNT – come arma difensiva segreta, ma ufficiale, in risposta alla fin troppo vera e mortale repressione.

Oltre agli anarchici insurrezionalisti, rimangono solo gli “individualisti aclassisti”, che – e la nostra tendenza è d’accordo su questo – negano la natura sociale dell’umanità e la necessità della lotta di classe per il socialismo dal basso e quindi rompono con le fondamenta dell’anarchismo; sono pertanto non-anarchici. Per quanto riguarda invece gli “educazionisti filosofici”, sebbene non neghino la lotta di classe, sono semplicemente anarchici “cattivi”, essendosi ritirati dall’attivismo sociale. Così, diciamo che il “comunismo anarchico” è in fondo solo un sinonimo per quello che oggi viene spesso chiamato “anarchismo sociale” e la tendenza che nella storia più aderisce alla linea di massa, che comprende anche il sindacalismo.

L’unica altra distinzione a quel punto diventa quella tra l’”anarcosindacalismo” che si riconosce specificamente anarchico (come i nostri compagni della CNT-f e altri ancora), che ha il pregio di riconoscere le sue radici anarchiche ma il difetto di non poter accogliere tutti i lavoratori sulla base della comunanza economica – perché sono organizzazioni di massa che cercano al contempo di essere organizzazioni di specifico –, e il “sindacalismo rivoluzionario”, che non si definisce anarchico (l’IWW e altri), che ha lo svantaggio di attrarre riformisti e socialisti statalisti ma anche il vantaggio di poter accogliere tutti I lavoratori (sebbene l’IWW soffra anche dal male di cercare di essere sufficiente in sé, senza un’organizzazione anarchico di specifico). Oltre a ciò, ci sono anche delle organizzazioni di specifico che considerano il sindacalismo come un fenomeno irrimediabilmente riformista e quindi una “causa persa”, ma la maggior parte sono invece della nostra tendenza e vedono nel dualismo organizzativo la soluzione al problema. Infatti, proprio questo sta al centro del contenzioso tra l’AIT e la nostra tendenza: l’AIT crede che il sindacalismo da solo è sufficientemente rivoluzionario dal momento che i loro sindacati sono specificatamente anarchici, mentre noi crediamo che il sindacalismo debba essere non-specifico a causa della natura classista dei sindacati, ma che debba essere alleato a organizzazioni di specifico che forniscono i contenuti anarchici. E uno dei fattori che determinano la correttezza delle due posizioni sono i numeri, detto in termini crudi: l’AIT è in declino, mentre la tendenza oggi rappresentata dalle organizzazioni del progetto Anarkismo e dai sindacati senza affiliazione è in crescita.”

Commento di James Pendlebury: “Si potrebbe dire di più degli educazionisti. L’FdCA definisce questa presunta tendenza come coloro che “reputano che con l’educazione si possa mutare la natura dell’uomo, prima di mutarne le condizioni materiali di esistenza”. Ossia, negano la lotta di classe quale fattore chiave della storia. Schmidt tiene conto di tale posizione, ma enfatizza inoltre che coloro che “non neg[a]no la lotta di classe, sono semplicemente anarchici “cattivi”, essendosi ritirati dall’attivismo sociale”. Indubbiamente entrambi questi approcci hanno i loro aderenti, e ci sono probabilmente anche di quelli che si trovano tra le due. Ma l’importante, dal punto di vista mio e di Schmidt e Van der Walt è che né l’uno né l’altro approccio può legittimamente dirsi una tendenza anarchica distinta.”

B: Sull’ideologia di Piotr Kropotkin

1. Sul suo abbandono dell’insurrezionalismo

Si veda D. GUÉRIN, L'anarchismo dalla dottrina all'azione, Roma, 1969.

“A Kropotkin va il merito di essere uno dei primi a confessare i suoi errori e riconoscere la sterilità della «propaganda col fatto». In una serie di articoli comparsi nel 1890, egli affermò «che bisogna stare con il popolo, che non vuole più atti isolati ma uomini d’azione nei loro ranghi». Ammoniva i suoi lettori contro «l’illusione che si possa sconfiggere la coalizione degli sfruttatori con qualche libbra di esplosivi». Propose un ritorno al sindacalismo di massa come quello di cui la Prima Internazionale era embrione e fautrice: «Sindacati enormi che accolgono milioni di proletari».”
[Tradotto dalla versione inglese – ndt]

2. Kropotkin contro gli “anarco-comunisti” puristi russi

“Kropotkin [editò] Kleb i Volya da distribuire in Russia per combattere la tendenza «Comunista Anarchica» nel sindacalismo (i). Credeva che I sindacati rivoluzionari fossero «assolutamente necessari» (ii).”

i. P. AVRICH, The Russian Anarchists, pp..54, 61, 63, 84, 107; si veda anche AVRICH, Anarchist Portraits, p.68.
ii. In J. CRUMP, Hatta Shuzo and Pure Anarchism in Interwar Japan, p.10. Al contrario di Alain Pengam, non è illusorio parlare di un Kropotkin sindacalista: PENGAM, Anarcho-Communism, p.249.
[Tradotto dall’inglese. VAN DER WALT & SCHMIDT, Black Flame, 2009. – ndt]

3. Kropotkin sul dualismo organizzativo

“Per Kropotkin, «il partito che avrà fatto più propaganda rivoluzionaria e che avrà dimostrato più spirito e audacia» che «sarà ascoltato quando verrà il giorno in cui bisognerà agire, marciare in testa, per realizzare la rivoluzione» (i). Credeva fosse necessario «progettare la penetrazione delle masse e la loro stimolazione da parte di militanti libertari, così come aveva fatto l’Alleanza in seno all’Internazionale» (ii). Respingendo l’idea che i sindacati fossero spontaneamente rivoluzionari [senza la necessità di un’organizzazione di specifico che marciava accanto a loro], Kropotkin argomentava: «c’è bisogno dell’altro elemento di cui parla Malatesta, da sempre professato da Bakunin» (iii). Malatesta aveva detto che «Bakunin si aspettava molto dall’Internazionale; tuttavia creò l’Alleanza, un’organizzazione segreta con un programma ben preciso – ateo, socialista, anarchico, rivoluzionario» (iv).

i. P. KROPOTKIN, "The Spirit of Revolt", in Kropotkin's Revolutionary Pamphlets: a collection of writings by Peter Kropotkin, edited by R.N. Baldwin. New York, 1970 p. 43. Originariamente pubblicato nel 1880.
ii. NETTLAU, A Short History of Anarchism, p. 277, enfasi nell’originale.
iii. Citato in Ibid. p. 281, enfasi nell’originale.
iv. Citato in Ibid. p. 130.
[Tradotto dall’inglese. VAN DER WALT & SCHMIDT, op. cit. – ndt]

4. Kropotkin sulla lotta di classe

Si veda P. KROPOTKIN, Anarchist Communism: Its Basis and Principles, 1887, disponibile online a http://www.fourmilab.ch/etexts/www/kropotkin/ancom/. Il testo illustra bene il pensiero teleologico di Kropotkin ma allo stesso tempo dimostra la sua comprensione delle classi e la sua fede nella lotta di classe.

Anche An Appeal to the Young, http://www.dis.org/daver/anarchism/kropotkin/atty.html