STRATEGIA DI FONDO 

CAPITALISMO INTERNAZIONALE

1. La globalizzazione tra mito e realtà

Per iniziare col piede giusto un'analisi dell'attuale struttura economica, della sua evoluzione e delle sue prospettive, occorre, prima di tutto, capire cosa s'intende per globalizzazione, visto che la parola in sé si presta ad equivoci forieri di profondi errori strategici. Poi è necessario chiarire quanto ciò che comunemente s'intende con essa sia attinente alla realtà.

2. Il capitale verso il mercato globale?

L'accezione più semplice, più comune ed anche universalmente accettata del termine globalizzazione è quella di un mercato senza barriere e senza confini. Così definita essa rappresenta una vecchia utopia liberista, cui sembra aver teso il capitale fin dal suo sorgere. In effetti fin dalle prime teorizzazioni economiche (Adam Smith) ogni restrizione alla libera circolazione delle merci è stata vista come un ostacolo allo sviluppo economico, sviluppo di per se stesso tendente ad un equilibrio stabile e foriero di un crescente benessere per tutti i cittadini.

Teorie infrantesi sugli scogli delle crisi cicliche che hanno scosso periodicamente l'economia capitalistica nel corso del secolo decimonono. Ora si sono ripresentate nell'ultimo trentennio del Novecento, rivestite di un termine, globalizzazione appunto, tratto da un'immagine di Marshall McLuhan (villaggio globale), che porta con sé alcune connotazioni intrinsecamente positive. L'antica utopia del mercato come unica regolazione possibile (ed intrinsecamente giusta) dell'evoluzione economica, infatti, si ripresenta con due corollari apparentemente inoppugnabili.

Il primo è che il processo ora ha una forza intrinseca non arginabile dovuta alla rapidità della circolazione delle informazioni, che porta dietro di sé una fluidità, prima impensabile, di movimento dei capitali: da questo assunto discende una pervasività assoluta del modello di produzione, con la scomparsa di nicchie protette e di politiche di area.

Il secondo è che l'osmosi del modello economico porta con sé, necessariamente, la contaminazione democratica dei regimi assolutistici che il passato ha lasciato in eredità, ai paesi terzi in particolare, auspice l'arretratezza nello sviluppo e rappresenta, quindi, per essi un'innegabile evoluzione verso il pensiero liberale e, di conseguenza, una tappa progressiva. Ma è vero, occorre chiedersi prima di tutto, se la globalizzazione, così intesa, sia la direzione di marcia dell'economia mondiale?

3. L'accelerazione di fine secolo

È innegabile (e nessuno lo nega) che l'ultimo trentennio del ventesimo secolo abbia rappresentato una fase di accelerazione senza precedenti nell'internazionalizzazione del modello capitalistico occidentale. Altrettanto innegabile (e nessuno lo nega) è che il capitale ha avuto fin dalla sua origine una propensione cosmopolita, tendente cioè a invadere tutto lo spazio economico esistente. Tra queste due affermazioni occorre trovare una coerenza e stabilire, prima di tutto, se la fase che stiamo attraversando, o che forse in gran parte abbiamo attraversato, costituisca semplicemente un approfondimento di tendenze da sempre in atto e che oggi si muovono a velocità indiscutibilmente più elevate di un tempo, o se il salto quantitativo costituisca un mutamento qualitativo nel sistema di funzionamento dell'assetto capitalistico.

In altri termini, se la cosiddetta globalizzazione rappresenti un cambiamento di natura della struttura capitalistica o se essa rappresenti una nuova rivoluzione industriale, tale da mutare alcuni aspetti, anche basilari, del modo di produzione, ma lasciandone invariato l'assetto. La risposta non è indifferente ai fini strategici e non riveste quindi soltanto una rilevanza teorica.

Nel primo caso infatti occorre individuare le nuove regole di espropriazione (con le relative norme giuridiche che le inquadrano), i nuovi soggetti detentori del privilegio ed i nuovi soggetti rivoluzionari. Nel secondo caso, invece, basta riadeguare le analisi alla nuova situazione, prendendo atto dei mutamenti intercorsi: ciò significa constatare degli scostamenti e non sovvertire l'intero impianto. Per fornire la risposta è necessario entrare nel merito dei cambiamenti, veri e non presunti, che l'accelerazione di cui siamo testimoni ha comportato e comporta.

4. Comunicazione, cultura e produzione

Forse sarebbe più corretto titolare in ordine inverso, a meno che per comunicazione non si intenda l'accezione più ampia di collegamento tra luoghi diversi. Ma ormai è moneta corrente che la nuova fase dell'economia internazionale deve la propria peculiarità alle modalità radicalmente innovative (e veloci) di trasmettere le informazioni e questa merce immateriale è assurta ai vertici del pensiero economico moderno, tanto da giustificare l'enorme bolla speculativa che i cosiddetti titoli tecnologici hanno rappresentato per qualche anno nelle borse di tutto il mondo. Seguiamo il flusso per comprenderne la validità.

5. Entropia comunicativa

Il luogo comune ci dice che la rapidità con cui le informazioni viaggiano da un luogo ad un altro è divenuta altissima, tale da rendere ormai il pianeta un villaggio globale, e che questo mutamento comporta un sconvolgimento nelle abitudini, nella forma mentale e nei modelli produttivi che il genere umano ha fin qui conosciuto. In particolare, i capitali finanziari si trasferiscono da un impiego ad un altro (spesso in modo virtuale) al di fuori di ogni possibilità di controllo, determinando una totale finanziarizzazione dell'intera economia. C'è in tutto ciò una buona dose di verità; si trascura però il risvolto del problema così da dare un'immagine di ineluttabilità, irreversibilità ed, in ultima analisi, di parziale positività del processo, che può come tale essere modificato al meglio senza porne in discussione la sostanza.

Di fatto, la crescita esponenziale della quantità di informazioni, moltiplicata per la sua velocità di spostamento, crea una portata comunicativa impressionante, ma degrada però il suo contenuto con due effetti. Il primo è che la quantità di informazione complessiva veicolata non cresce allo stesso ritmo della sua velocità di trasmissione, il che rende più diluito il brodo che viene servito e meno rintracciabile la polpa semantica in esso contenuta. Il secondo è che l'informazione circolante è meno verificata ed attendibile di un tempo (chi si interessa più di accertare le fonti?), cosicché sempre meno distinguibile il grano risulta dal loglio. Questi due effetti concorrono a creare movimenti non sempre virtuosi nella circolazione del capitale (virtuosi s'intende per chi deve trarne profitto), con notevole empasse nell'evoluzione del sistema economico.

Basti pensare all'evoluzione delle borse internazionali negli ultimi quattro anni, al loro crescere inconsulto ed al loro crollo conseguente che travolge anche buoni investimenti.

6. Il pensiero liberale e la perdita del controllo democratico

Tutto ciò comporta, è vero, un mutamento di asse dell'intero assetto di pensiero su cui si è retta fino ad oggi la società dell'era della borghesia, auspice una consistente revisione dei sistemi formativi che investe tutti i paesi industrializzati. Ma non già, come intende la vulgata, nel senso di un cosmopolitismo culturale, dell'abbattimento delle barriere costituite da usi e costumi diversi, dell'estendersi degli assetti democratici ai paesi ancora dominati dalla tirannide feudale, in altri termini del dominio globale del pensiero liberale, laico, tollerante. La critica di sinistra al pensiero liberale è troppo ben nota per tornarci sopra nuovamente. Il problema è altro.

Anche quelle garanzie formali, apparentemente asettiche e in realtà segnate dall'assetto classista della società, ma comunque parzialmente fruibili e che hanno reso possibile lo sviluppo culturale e organizzativo dell'antagonismo sociale, vengono rapidamente smantellate. Il nascere continuo di esclusivismi etnici e di barriere di costume dovrebbe essere già un segnale ben chiaro dell'illusione della prospettiva di liberazione culturale che la globalizzazione porterebbe con sé; e questo è una spia che va indagata se si vuole comprendere il vero senso di marcia del modello capitalistico oggi.

È, però, il nesso profondo che si pretende esserci tra la rapidità e pervasività del sistema comunicativo, da un lato, e l'osmosi crescente del pensiero democratico occidentale, dall'altro, che è errato. È vero che il regime afgano ha proibito qualsiasi contatto della sua popolazione col mondo dei miscredenti (radio, tv, giornali internet, ecc.), ma quello rappresenta per l'appunto un caso limite in cui qualsiasi contaminazione esterna non può che rappresentare un progresso.

Se alle estreme periferie, dominate dall'assenza di messaggi, qualsiasi accesso alla comunicazione è un passo in avanti, nel corpo vasto del mondo sviluppato o in via di sviluppo quello che sta avvenendo rappresenta i caratteristici due passi indietro. I messaggi si fanno sempre più confusi e contraddittori, si perde il gusto della verifica e quindi del controllo dei contenuti resi impossibili dal ritmo incalzante del loro diffondersi (fermarsi a riflettere significa uscire dai flussi, perdere il contatto con l'attualità). Sull'onda del continuo adeguamento alla modernizzazione permanente i sistemi formativi tendono a fornire strumenti cognitivi atti a recepire i messaggi, ma non ad analizzarli criticamente ed in questo modo favoriscono nuove forme di subalternità culturale.

L'impossibilità, l'incapacità di controllare l'universo informativo genera l'espropriazione delle volontà, schiave degli effetti annuncio, di cui non si verificano più gli esiti, delle rappresentazioni della realtà, di cui non si verifica più la corrispondenza ai fatti, dell'immagine dell'oggi, di cui non si confronta più la conseguenzialità col passato.

È in gioco il controllo democratico sull'operato di chi decide, che forse non è mai esistito, ma che ora si allontana più che mai. Ne sono il riflesso istituzionale quei centri decisionali reali del potere che sfuggono anche formalmente non solo a qualsivoglia verifica democratica, ma persino ad ogni tentativo di conoscerne i modi reali di funzionamento (FMI, WTO, Banche centrali, ecc.).

7. Il modello produttivo necessita di aree a diverso sviluppo economico e civile

Si sostiene inoltre che il modello produttivo capitalistico si diffonde a macchia d'olio, conducendo ad un progressivo sviluppo produttivo di aree fino ad oggi escluse dai benefici del progresso economico. Basterebbe lasciare mano libera ai processi che la globalizzazione inevitabilmente innesca per vedere, in un futuro non lontano, emergere aree di sottosviluppo endemico dalla loro secolare arretratezza. Questa però è pura propaganda, non corrispondente neppure alle teorie che fanno da supporto reale agli sviluppi dell'economia globale.

Queste infatti fanno perno su di uno sviluppo programmaticamente non uniforme, in cui aree a forte intensità di attività produttiva si affiancano ad aree arretrate ed a basso tenore di attività. Queste ultime possono essere aree mai toccate dal sistema produttivo capitalistico o aree di antica industrializzazione, poi cadute in obsolescenza. La ricerca del profitto, infatti, dirige i capitali laddove le prospettive di investimento sono più promettenti, sia per ciò che concerne le condizioni fiscali, sia per quanto riguarda i costi del lavoro e la sua adattabilità alle mutevoli esigenze del capitale. In teoria, quindi, le aree attualmente più dinamiche sono destinate ad essere abbandonate per quelle più promettenti, e ciò inevitabilmente perché la prosecuzione nel tempo di una fase di sviluppo economico tende a creare condizioni di vita e di mercato del lavoro che risultano a lungo andare meno favorevoli di quelle di aree meno sviluppate.

L'applicazione di questi principi teorici incontra ostacoli che verranno analizzati più sotto, ma resta il fatto che tale impianto produttivo porta in sé una contraddizione ineliminabile. Si crea infatti una divaricazione tra aree di consumo ed aree di produzione, che non può reggere nel tempo.

8. Lo sviluppo per aree

La strategia della zebra, così K. Ohmae ha battezzato lo sviluppo per aree che sezionano o attraversano i confini dei singoli Stati-nazione. La scelta delle aree risponde solo a criteri di efficienza dell'investimento capitalistico e ne discende inevitabilmente la loro possibile intercambiabilità. Ma le conseguenze sono che, come detto, se si sceglie un'area per i vantaggi che essa presenta dal punto di vista del costo del lavoro (anche se questo scambio non è poi così semplice ed universale come si tende a far credere), si producono due effetti indesiderati.

Il primo è che si perdono quote di reddito nell'area abbandonata ad alto livello salariale, così che essa smette di contribuire, o diminuisce il proprio contributo, al mercato complessivo; il reddito tende ad essere surrogato da nuovi lavori (servizi, nuove tecnologie, ecc.) ma il bilancio resta negativo, in particolare quando l'economia non è in esuberante espansione, come succede in questo momento. Il secondo è che l'area dove si spostano le produzioni, essendo a basso regime salariale, contribuisce poco, almeno inizialmente, alla crescita degli sbocchi di mercato; in un secondo tempo le strutture dei lavoratori si fortificano, decresce la pressione sul mercato del lavoro, i salari tendono a crescere, facendo perdere i vantaggi iniziali.

Resta comunque per lungo tempo una divaricazione tra aree di consumo (quelle di vecchia industrializzazione) e quelle di produzione (i nuovi insediamenti), con il lento deperimento delle prime e la conseguente contraddizione di una produzione che cresce per un mercato in generale flessione.

9. I comportamenti autopoieutici

Quella sopra descritta è solo una delle contraddizioni che sorgono nel perseguire la strategia della zebra. Ve n'è anche un'altra. Le aree che vengono abbandonate o vedono declinare la propria centralità nel sistema di produzione (postindustriali) tendono a mantenere il tenore di vita cui si sono abituate, il che le porta ad assumere comportamenti contrari alla filosofia della globalizzazione. Questo spiega, ad esempio, l'impegno di un sindacato poco proclive alla lotta di classe, come l'Afl-Cio, nel movimento di Seattle.

In generale, come tutte le strutture dotate di una propria energia vitale, queste aree adottano ogni mezzo idoneo alla propria sussistenza e se diviene per loro, non più competitive, difficile esportare le proprie produzioni alzano barriere doganali atte ad impedire l'invasione delle merci a basso costo altrove prodotte. Il rischio reale, cioè, è quello di sostituire organismi complessi come gli stati con entità geograficamente, culturalmente e economicamente più omogenei, ma notevolmente più anguste e meno disposte alla comunicazione reciproca.

Ne è un riflesso l'ondata xenofoba che è dilagata nel corso degli anni novanta in tutti i paesi industrializzati. Al di là delle retorica della libera circolazione delle persone, che vale solo per settori ristretti dell'umanità, e trascurando il fatto che eventi recenti rendono sempre meno proponibile questa impostazione teorica delle umane relazioni, sarà curioso osservare gli effetti che la recessione in arrivo avrà sui comportamenti.

I padroncini del Nord-Est dell'Italia (una delle aree ad alto sviluppo individuate da Ohmae), attualmente oscillano tra il razzismo insito nel loro DNA leghista e il bisogno di manodopera che riescono a soddisfare con il contributo essenziale degli immigrati (spesso a nero); ma nel momento in cui l'offerta di lavoro sopravanzerà la richiesta, sia per la crisi imminente, sia perché l'area è già economicamente in declino, tant'è che nell'ultimo anno le regioni della zona non sono state ai vertici della classifica per incremento delle esportazioni, è facile prevedere quale fascia di lavoratori sarà la prima a pagare il conto della disfatta.

10. I limiti fisici alla comunicazione

I maggiori limiti ad un'idea di totale intercambiabilità delle aree geografiche ai fini produttivi sorgono però da considerazioni meramente strutturali. Non è un caso che le zone di sviluppo individuate nel saggio di Ohmae appartenessero tutte a parti del mondo già interessate a processi di profonda industrializzazione. In effetti, per impiantare delle attività produttive in un luogo non necessitano solo gli spazi; occorrono infrastrutture, vie di comunicazione, manodopera adeguata, impianti industriali già esistenti di livello tecnologico non eccessivamente inferiori, etc..

Le produzioni italiane che negli ultimi anni si sono spostate verso i paesi dell'est europeo, sono tutte di basso contenuto tecnologico; e occorre considerare che dei paesi che escono dall'economia di piano già godono di rilevanti vantaggi in termini di industrializzazione pregressa, preparazione di manodopera, vie di comunicazione.

Vaste aree dell'Africa, ad esempio, a tutt'oggi non si prestano assolutamente ad insediamenti produttivi, se non altro per l'assoluta impossibilità di veicolare merci in ingresso ed in uscita ad un ritmo soddisfacente. E come per l'Africa il discorso vale per oltre la metà della superficie del globo.

11. Capitale finanziario e capitale di rischio

Dopo aver esaminato alcune delle contraddizioni insite nel modello propagandistico della globalizzazione, è giunto il momento di esaminarne i risvolti concreti. Uno di questi è l'inversione del ruolo dominante tra capitale finanziario e capitale di rischio.

Fino ad un trentennio fa il capitale di rischio (ovverosia l'investimento nella produzione o nella distribuzione, in generale nelle merci) costituiva l'aspetto dominante della struttura capitalistica. Il capitale finanziario fungeva da supporto, senza quasi mai esercitare un controllo decisivo, all'attività imprenditoriale. L'eccezione era rappresentata dallo sviluppo dell'impresa moderna nella Germania, dove il capitale finanziario interagiva strettamente col mondo dell'investimento, il che rende ragione anche del diverso corso che i mutamenti in corso nell'economia internazionale stanno avendo in quel paese.

La crisi del modello keynesiano di sviluppo, che ha avuto il suo punto di svolta nella dichiarazione di Nixon del 1971 di non convertibilità del dollaro in oro, ha avviato una fase del tutto nuova che ha visto la crescente autonomia del capitale finanziario ed il suo divenire preminente nel confronto col capitale di rischio. Questo ha, riducendo il problema all'essenziale, comportato un cambiamento profondo nella concezione stessa dell'acquisizione del profitto: se la nascita del capitalismo manageriale, tra la fine dell'ottocento e la metà del novecento si era basata sul prevalere del profitto a lunga scadenza, incentivando investimenti strutturali volti a fortificare le imprese, il prevalere del capitale finanziario ha portato in primo piano il profitto a breve, privilegiando manovre speculative e di pronto realizzo, con conseguente distruzione di un patrimonio consistenze di potenzialità produttive.

12. Concorrenza e oligopolio

Altro fattore incontestabile del corso recente dell'economia internazionale è il regime di esasperata concorrenza che l'ha caratterizzato. Quello che invece rientra nell'ambito della propaganda è che la concorrenza si rifletterebbe in un vantaggio per il consumatore a causa dell'inevitabile abbassamento dei prezzi delle merci che tenderebbero a livellarsi poco al di sopra dei prezzi di costo (o a volte addirittura al di sotto, per il dumping sleale che le aziende più robuste eserciterebbero al fine di eliminare dal mercato le concorrenti più deboli). La realtà è oggi, ma anche storicamente, ben altra.

Le grosse aziende dominano il mercato, ma non abbassando i prezzi, bensì fissando un prezzo che mantenga un margine di profitto per le aziende meno concorrenziali e di modo che il loro profitto (a causa dell'economia maggiore che esse possono vantare sui costi di produzione) sia molto più consistente; vendono un po' di meno ma con un guadagno per unità di prodotto notevolmente superiore. Saranno poi le aziende più piccole e meno concorrenziali a pagare il prezzo di un eventuale crisi del mercato, che verrà così assorbita dall'azienda price leader senza dover neppure sottoutilizzare i propri impianti (non mantenere gli impianti ai livelli di produzione ottimali, per i quali sono stati progettati, è da un punto di vista economico una perdita, che è sempre bene, ove possibile, evitare).

La concorrenza non si svolge, quindi, in campo aperto, ma tra poche grosse imprese (oligopolio), e non sul piano dei prezzi, ma su quello dell'efficienza nel plasmare il mercato e nel conquistarlo.

13. La verticalizzazione dell'economia

D'altra parte la concorrenza non si traduce neppure in nuove opportunità di intrapresa per nuovi soggetti e nell'apertura di spazi per entrare in qualità di produttore nel mercato mondiale. L'economia capitalistica ha sempre proceduto verso una concentrazione in poche mani del controllo delle produzione, una verticalizzazione crescente. Questa tendenza alla concentrazione conosce brusche accelerate nei periodi in cui la concorrenza si accentua.

Non è un caso che la nascita delle prime multinazionali avvenga proprio nel territorio dove più sacrale è il rispetto per la libera concorrenza e dove leggi impediscono formalmente la formazioni di posizioni dominanti sul mercato: gli USA di fine Ottocento. Il sorgere di nuovi settori produttivi, spinti dall'innovazione tecnologica, conosce lo scatenarsi di una miriade di piccoli produttori che si lanciano nell'area inizialmente sguarnita, spesso grazie al possesso delle capacità tecniche: i pionieri sono in gran parte inventori che non commercializzano i propri brevetti, ma si mettono in proprio: è successo così per la chimica nella seconda metà dell'ottocento, nelle produzioni elettriche ed elettromeccaniche a cavallo tra Ottocento e Novecento, nell'elettronica negli anni settanta del Novecento e per l'informatica nel decennio successivo. Dopo la fase iniziale caotica tende a formarsi un piccolo gruppo di aziende dominanti che capitalizzano, cannibalizzandoli, gli sforzi dei pionieri che, per vari motivi, non reggono il passo.

La fase neoliberista che stiamo attraversando ha comportato una nuova forte spinta alla verticalizzazione del controllo sull'economia internazionale. Ne fanno fede l'ondata di fusioni cui stiamo assistendo, anche se le più recenti (Compaq-HP) rispondono più che ad una strategia di conquista del mercato, ad un bisogno difensivo in una fase di contrazione dello stesso.

14. Le politiche sociali e del lavoro

È questo il fronte caldo della globalizzazione, quello dove le promesse vengono purtroppo mantenute e, come vedremo, il vero volto del mercato globale. La svolta da questo punto di vista è inequivocabile.

15. Il salario variabile dipendente

Quando nel 1977 l'allora Segretario Generale della CGIL Luciano Lama dichiarò che il salario non è una variabile indipendente, fece un'affermazione banale dal punto di vista economico, ma dai profondi risvolti dal punto di vista politico. Fino ad allora, per un decennio, un imponente ciclo di lotte era riuscito a spostare quote consistenti di reddito dai profitti ai salari. Il messaggio di Lama era miele per le orecchie degli imprenditori: da quel momento i salari avrebbero smesso di crescere fuori dalla dinamica dei redditi, permettendo, invece, ai profitti di svilupparsi a tutto svantaggio dei proventi da lavoro dipendente. La variabile indipendente era divenuta il mercato.

La fase di esasperata concorrenza verificatasi nei mercati internazionali nell'ultimo ventennio del Novecento ha agito per consentire margini di competitività sull'unico reddito al di fuori dell'orizzonte imprenditoriale: il salario.

Comprimere il costo delle materie prime o dei semilavorati o delle infrastrutture significava far entrare in conflitto fonti di profitto per settori diversi d'impresa: ciò che guadagna in complesso un settore, perde l'altro. Comprimere la spesa per salari, diminuendo sia il salario per lavoratore sia il numero dei lavoratori impiegati, riversa i costi della competitività sulle spalle dei prestatori d'opera. È così che ormai da lungo tempo il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti è in costante calo (auspici in Italia gli accordi estivi dei primi anni Novanta).

16. Il lavoro flessibile

Come detto, quello che non si può risparmiare diminuendo il salario reale del lavoratore, lo si risparmia diminuendo il numero dei salariati. È così che la grande industria ha visto costantemente diminuire la manodopera impiegata e che in generale l'occupazione tende a diminuire. Questo calo non si spiega solo con il dilagare di nuove tecnologie produttive labour saving. Una parte dell'occupazione perduta ha solo assunto altre forme.

Una prima forma è quella dell'apparente promozione sociale che ha riguardato principalmente i lavoratori ad alto livello di specializzazione e professionalità: il passaggio al lavoro autonomo di servizio alle aziende; per lo più si è trattato di esternalizzazione di interi reparti che possono aver anche prodotto vantaggi per gli addetti in determinati momenti di congiuntura favorevole, ma che finiscono per sgravare le aziende da costi fissi e difficilmente comprimibili nei momenti di flessione del mercato. Il secondo filone è quello del lavoro flessibile nel vero senso del termine: qui la fantasia padronale è infinita e va dal contratto a tempo determinato, al salario di ingresso senza garanzia di assunzione, al lavoro interinale fino alla forma più estrema del lavoro a chiamata (job on call), già attivo in molti paesi. C'è infine la riserva infinita del lavoro nero, alimentato continuamente dal flusso disperato dell'immigrazione (negli USA portoricani, messicani, etc. lavorano spesso a nero per una paga che oscilla tra i $5 e i $7 all'ora).

17. Liberi di circolare?

L'enfasi posta sulla libera circolazione del lavoro e delle persone (così presente anche nel tentativo di Costituzione Europea) nasconde un equivoco. Viene presentata come una libertà dell'individuo. Ma se questo è vero per chi si muove nei piani alti dell'organizzazione del lavoro e va a occupare posti di prestigio nella ricerca e nel comando dei processi produttivi e lo fa senza alcuna frontiera, non lo è certo per il flusso migratorio che coinvolge tutti gli altri lavoratori.

Non è in gioco il diritto del singolo a cercare condizioni di vita migliori, o quanto meno accettabili, ma è il sistema produttivo, nel suo complesso, che individua i propri fabbisogni e cerca di soddisfarli tramite lo spostamento di masse di lavoratori. Il capitalismo innesca meccanismi di spinta nei paesi di origine dei migranti e meccanismi di attrazione (push-pull factors) nei paesi di arrivo, combinando a seconda delle circostanze i flussi regolamentati con i flussi in condizione di clandestinità, manovrando questi ultimi a scopo di dumping sociale, nuove schiavitù salariali e domestiche, lavoro nero, salvo coprire le necessità produttive con provvedimenti opportunistici di regolarizzazione.

Così gli accessi e le permanenze in aree del mondo industrializzate sono sempre più vincolate ad una chiamata diretta ed individuale del datore di lavoro, con il risvolto inevitabile che è lo stesso datore di lavoro in grado di decidere autonomamente se rinnovare o meno il contratto e con esso a disporre delle condizioni di vita dei lavoratori, con ciò totalmente ricattabili.

18. La contrattazione individuale

Un sistema di relazioni industriali quale quello sopra prospettato non può incontrare ostacoli nella forza organizzata dei lavoratori e nello stesso tempo rompe la solidarietà tra di essi, frantumandone gli interessi, creando i presupposti per la distruzione di qualsiasi forma organizzativa degli sfruttati. Il punto di approdo di questa strategia è la fine del Contratto Collettivo Nazionale e la sua sostituzione con un contratto individuale tra datore di lavoro e prestatore d'opera, nel quale i rapporti di forza si prospettano molto più sbilanciati e non certo a favore del secondo. In questa prospettiva ogni forma di garanzia, di ammortizzatore sociale, di diritto del lavoro, di regole che vincolino entrambe le parti diviene obsoleta e gli USA ne sono un esempio perfetto. In Italia la via è stata aperta dai contratti d'area, ma subirà un'accelerazione violenta con la prospettiva federalista: da contratto nazionale a quello regionale e poi a scendere ai contratti locali o per gruppi di interessi (etnici, religiosi, di genere, di affinità, ecc.) che si faranno una spietata concorrenza al ribasso tra di loro.

19. C'era una volta il Welfare

Lo smantellamento dello stato sociale è una delle politiche generalizzate nei paesi industrializzati. Si sostiene che gli alti costi dei servizi sono generatori di inflazione, il nemico principale dei monetaristi, e che i loro costi crescenti non sono compatibili alla garanzia di un futuro tranquillo per le nuove generazioni. D'altro lato, si continua a sostenere, la diminuzione dei costi dello stato sociale permette una riduzione delle tasse e con questo si può dare nuovo impulso all'economia, rendere più dinamico il sistema produttivo e la nuova ricchezza prodotta andrebbe a beneficio di tutti, compensando ampiamente la diminuzione delle garanzie sociali. La seconda questione è già stata analizzata e falsificata da Paul Krugman che ha spietatamente vivisezionato il programma elettorale di George W. Bush. 

Per quanto riguarda la prima, basta rilevare che le detestate spese statali non sono poi troppo invise quando fluiscono nelle tasche dei padroni sotto forma di sovvenzioni alla produzione o al commercio. Si aggiunga che le spese per la difesa e per l'ordine pubblico non tendono a diminuire e i recenti fatti forniscono un alibi per gli aumenti, e che di conseguenza anche i programmi di riduzione delle tasse hanno finora inciso poco ed interessato soprattutto i redditi più alti.

Ne discende che la compressione del Welfare ha un risvolto eminentemente politico: rendere sempre più incerto il lavoratore sul proprio futuro e sulla propria sicurezza, da un lato gettandolo nelle braccia delle assicurazioni private e del capitale finanziario, dall'altro costringendolo ad inseguire un profitto immediato più alto che gli permetta di garantirsi da solo ciò che la società ora gli nega. Così ancora una volta la contrattazione sulla prestazione lavorativa si precarizza e si individualizza, divenendo più malleabile ai voleri dei datori di lavoro.

20. Riassumendo

Possiamo ora tirare le fila sulla teoria e la pratica della globalizzazione. Mercato senza frontiere, globale in cui merci, persone e cultura si muovono indisturbate senza ostacoli: tutto questo in teoria. Già qualcuno ha fatto notare che più che di globalizzazione si dovrebbe parlare di americanizzazione, in quanto i modelli pervasivi del sistema sono tutti di marca USA. In realtà, però, nemmeno quel minimo di positivo esistente in questa presunta omologazione universale, ovverosia i valori fondanti di una moderna democrazia, si diffondono.

Lo sviluppo necessita di aree ad alta intensità di produzione e di aree di profonda depressione economica e tende ad allargare questa forbice; necessita altresì di aree di consumo ricche, distinte da quelle dove si produce, con la conseguenza che in quest'ultime i diritti e i redditi dei lavoratori devono essere ridotti al minimo; necessita di guadagni elevati e a breve scadenza, il che deprime l'importanza dell'investimento produttivo, aprendo la strada alle manovre speculative che inghiottono risorse senza crearne.

Ma oltre alle contraddizioni intrinseche al modello ve ne sono di quelle legate alla sua applicazione. La concorrenza tende a privilegiare le grosse concentrazioni finanziarie, stimolando coloro che declinano nella competizione a difendere le posizioni acquisite; da qui le guerre commerciali che oppongono primo e secondo mondo e che hanno lasciato sul terreno il terzo grosso antagonista: il Giappone. Le barriere che si alzano alla libera circolazione delle merci, e che gli organismi di regolazione internazionale quali il WTO tendono a smussare, assumono forme diverse da un tempo e si celano dietro le battaglie sulla qualità di prodotti; di fatto gli scandali quali la mucca pazza, i maiali alla diossina, l'afta epizootica non sono altro che i riflessi di queste battaglie, come lo sono le diffidenze in sede europea per gli OMG di marca statunitense.

Anche la libera circolazione degli esseri umani cede di fronte all'imponenza dei flussi migratori non sempre compatibili con le esigenze economiche delle aree da essi interessate e la scusa del terrorismo internazionale ha fatte recentemente ventilare anche la possibilità del ripristino dei controlli alle frontiere dei vari paesi della UE.

L'unica realtà veramente efficace della globalizzazione è il diffondersi di una schema di relazioni industriali che vede il lavoratore dipendente privo di qualsiasi diritto o tutela nei confronti del datore di lavoro e la progressiva scomparsa di qualsiasi garanzia o ammortizzatore sociale; in altri termini la progressiva precarizzazione di ogni rapporto di lavoro e la cessazione dei rapporti solidaristici che rendono coesa una società civile.

Il portato del nuovo ordine economico si può riassumere in poche parole: sfruttamento senza regole.

21. La situazione economica

Per anni la propaganda di regime ci ha raccontato di un futuro di perenne progresso economico e di benessere via via crescente e sempre più generalizzato. Nonostante mai l'economia abbia mostrato i segni di una vivacità paragonabile a quella del secondo dopoguerra, per oltre due decenni il boom era sempre dietro l'angolo, ma al suo approssimarsi qualche causa imprevedibile, di natura extraeconomica, lo differiva di un po'.

Ora l'economia mondiale è in piena recessione e la favole (quale quella della new economy) non incantano più e si torna a parlare di ricette keynesiane per ridare fiato alla congiuntura, quello stesso Keynes che un trentennio di paradigma monetarista sembrava aver relegato tra i fossili preistorici. Ma quali sono le cause di un fallimento annunciato e le prospettive?

22. La mancanza di strategia del capitale finanziario

Per due secoli il capitalismo ha lavorato su strategie di lungo periodo. In particolare la nascita del moderno management industriale, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, ha teso a privilegiare l'investimento sulla crescita produttiva sul profitto a breve che aveva caratterizzato il capitalismo familiare.

La prospettiva di futuri guadagni basati su di un progressivo sviluppo produttivo non affascina per nulla il capitale finanziario, che sempre più tende a trasformarsi in una forma puramente speculativa. Spesso il giro vorticoso dei capitali non comporta neppure esborsi reali: azioni o titoli vengono comprati e rivenduti prima che la transazione venga regolata.

Anche quando esso si rivolge ad obiettivi apparentemente produttivi, spesso l'investimento non prevede l'attivazione o la prosecuzione di operazioni imprenditoriali, ma intenti di semplice speculazione: dismissione di rami meno redditizi, vendita con guadagno di quelli più promettenti, dislocazione in altro luogo di produzioni supportate da sovvenzioni statali, trasformazione di aree dimesse in zone edificabili, chiusura di produzioni per diminuire la concorrenza sui mercati quando l'acquirente è un'impresa che opera nello stesso settore produttivo.

È così che nelle aree di più vecchia e consolidata industrializzazione si parla di era post-industriale e che in esse cala la consistenza della base produttiva. A lungo andare questa miope visione crea una strozzatura economica la cui origine è tutta nella ricerca esasperata di un profitto il più immediato possibile.

23. Produzione senza mercato

Ma un collo di bottiglia ancora più consistente si profila sul versante del mercato. Se le aree di produzione si spostano laddove il costo del lavoro è più basso, ivi non si crea un mercato degno di rilievo, almeno nel periodo iniziale. Le aree di vecchia industrializzazione decadono ed al loro interno anche i servizi diminuiscono deprimendo la domanda; cosicché il mercato complessivo, seppure sostenuto da consumi al di sopra della produzione, dimagrisce.

Le merci prodotte si confrontano, quindi, con un mercato complessivamente decrescente, il che spiega le forti guerre commerciali per il controllo delle aree di consumo, la necessità di accordi, la tendenza al protezionismo, i sussidi statali all'esportazione.

La speranza futura sta nello sviluppo dell'immensa area costituita dalla Cina, ora supportata dai capitali di Hong Kong e dalla prospettiva della riacquisizione di Taiwan. Ma prima che le inesauribili potenzialità dell'area cinesi si dispieghino, dopo il fallimento del liberismo nell'ex Unione Sovietica, c'è tutto il tempo per una crisi verticale di sovrapproduzione, i cui i prodromi ora sono sotto gli occhi di tutti, anche se la crescita della Cina nel prossimo decennio è prevista essere intorno al 10%.

Dopo anni di conflittualità di frontiera i due colossi demografici asiatici India e Cina, iniziano a marciare verso un'integrazione economica che rischia di essere dirompente per i mercati internazionali. Ciò non è solo frutto di una potenzialità di lavoro incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi altra area geopolitica, ma anche del fatto che le due economia presentano una forte integrabilità vicendevole. Infatti se da un lato, per esempio, la Cina ha sviluppato potentemente la produzione di hardware elettronico ed informatico, dall'altro in India hanno sede le maggiori software house del mondo e la versatilità degli ingegneri informatici indiani è riconosciuta universalmente. Le due potenze economiche e militari in avvicinamento verranno a svolgere inevitabilmente un ruolo egemone in tutto l'estremo oriente (oltre alle mire in medio oriente ed in Africa), costituendo un polo imperialistico concorrente a quelli esistenti.

24. Il dogma della moneta forte

La fede nella moneta forte e stabile, quale garanzia di successo economico, di pretta marca monetarista, originata nelle università statunitensi comincia ad incontrare sempre meno favore in patria. In verità dai primi anni ottanta, all'apparire della cosiddetta reaganomics, ad oggi la bilancia commerciale degli Stati Uniti è divenuta negativa ed il conto commerciale con l'estero sempre più pesante. La solidità della moneta attirava capitali, spesso per manovre virtuali o speculative, ma ha reso sempre meno competitive le merci statunitensi provocando una progressiva deindustrializzazione del paese. Il surplus finanziario trovava sbocchi esteri ed il paese, divenuto consumatore e non produttore, si è alfine trovato in piena recessione. La moneta forte ha reso i paesi che hanno adottato questa impostazione, come la Gran Bretagna, giganti finanziari, ma nani economici.

25. Il nemico inflazione

L'inflazione è stata per un trentennio lo spauracchio di ogni agenzia economia internazionale ed il suo contenimento la stella polare della politica monetaria di tutte le banche centrali. L'origine teorica di questa fobia risiede nella fiducia sulla forza della moneta nazionale e sulla sua stabilità quale indicatore della solidità economica del paese, cui si è sopra accennato. In realtà la predominanza degli interessi del capitale finanziario sta alla radice di questa lotta all'inflazione, perché chi presta denaro ha tutto l'interesse a vederselo restituire meno svalutato possibile. Non a caso il periodo della gigantesca svalutazione del marco all'inizio degli anni Venti del Novecento in Germania, ha visto la perdita del tradizionale potere delle Grossbanken nei confronti delle aziende tedesche, che si affrancano e a volte finiscono per infeudarsi delle banche (la IG Farben, ad esempio acquisisce in quel periodo la Länderbank).

Le difficoltà attuali mostrate agli inizi del XXI secolo dalla congiuntura economica, segnate da una forte crisi del modello finanziario, hanno indotto ad abbassare la guardia nei confronti del pericolo inflativo, cosicché le Banche Centrali hanno tagliato il tasso di sconto nella speranza di ridare fiato alla congiuntura. Ma i danni erano ormai irreversibili.Già alla prima ripresa espansiva del ciclo, i tassi si accingono a salire, il modello finanziario a riprendere il comando, marcando una tendenza per il prossimo decennio.

26. Privato è bello?

E' esistita anche una corrente di ultraliberisti (figli d'arte: negli USA David Friedman figlio del Milton caposcuola del monetarismo; in Italia Alberta Martino figlia dell'ex-Ministro degli Affari Esteri Antonio) che predicavano la privatizzazione di qualsiasi servizio (carceri, polizia, esercito, strade, sanità, scuola, ecc.) e la sua collocazione sul mercato con la scomparsa di qualsivoglia funzione statale. 27.2 Queste teorie estreme non avuto attuazione completa: per esempio negli USA alcuni istituti di pena sono stati privatizzati, ma nessuno ha seriamente pensato a privatizzare i corpi di polizia. Certo è che, comunque, larghi settori dei servizi sono stati dismessi dalla mano pubblica e collocati sul mercato in tutti i paesi industrializzati. Le conseguenze si sono manifestate con tutta evidenza: aumento dei costi per lo Stato, aumento dei costi per gli utenti e deperimento dell'efficienza dei servizi, nonostante il lungo parlare attorno all'inefficienza della burocrazia pubblica. Gli esempi del ferrovie in Gran Bretagna, dell'energia elettrica in California, dei trasporti aerei negli Usa ed, ultimo, quello della sicurezza degli aeroporti sempre negli USA, sono emblematici.

Ma c'è una considerazione ancora più profonda da fare. Non solo non è conveniente neppure per il capitale privatizzare alcuni servizi (è bene, ad esempio, che la difesa degli interessi della proprietà, esercito e polizia, la paghi la collettività con le tasse), ma risulta poco conveniente anche la collocazione sul mercato di altri servizi: l'istruzione ad esempio, se non è efficiente, mina le possibilità di sviluppo del capitale, che si viene a trovare sprovvisto di manager e governanti in grado di farlo fruttare e progredire, come pure di lavoratori di un buon livello culturale per svolgere adeguatamente il proprio compito (questo problema sta divenendo acuto negli USA, dove la scuola fornisce livelli di preparazione così inefficiente, da non poter essere neppure adeguatamente recuperati nelle pur ottime, poche ed esclusive università private, e se la base da cui pescare non è ampia le possibilità di successo sono ridotte); anche la ricerca è bene che sia finanziata dalla mano pubblica, perché troppo dispendiosa sarebbe una ricerca veramente ad ampio spettro e non finalizzata a scopi strettamente specifici, tant'è che le multinazionali USA, pur possedendo di propri centri di ricerca, ha sempre attinto con dovizia alla ricerca dei centri universitari e che il successo della Nokia ha le sue radici in uno sforzo iniziale consistente dello Stato finlandese nella ricerca nel settore delle telecomunicazioni.

27. Dov'è la locomotiva?

Il problema maggiore, però, che presenta oggi la congiuntura internazionale è quello dell'assenza di un economia trainante. Lo è stata per mezzo secolo, un po' per forza intrinseca, un po' per la posizione di egemonia politica ed economica quella statunitense; ma ormai essa presenta problemi più che appariscenti: sono gli effetti di due decenni all'insegna dell'ideologia della moneta forte e della continua permanenza della bilancia commerciale in passivo. Lo forza nascente del Giappone si è infranta a metà degli anni Novanta.

L'Unione Europea, candidata a succedere agli Stati Uniti quale paese che tira la ripresa, non sta meglio: dal 2000 la crescita del Pil ha subito rapide flessioni fin sotto l'1%, appena controbilanciate da impennate trainate dall'economia tedesca oltre il 2%, ed in tutti i paesi si tentano manovre antirecessione, senza però allentare uno stretto controllo sul credito, anche per il futuro decennio.

Se le prospettive economiche non consentono all'UE di candidarsi ad area traino del sistema capitalistico internazionale, anche il suo ruolo imperialistico autonomo stenta, nonostante le velleità, a decollare soprattutto a causa delle divisione strategiche che separano i vari paesi che la compongono.

28. I PVR (Paesi in Via di Recessione)

Se le prospettive non sono certo rosee per i paesi industrializzati, non vanno meglio per la cintura industrializzata che li supporta. Il Brasile, l'ottavo paese più industrializzato, nel 1998 è andato incontro ad una forte crisi, da cui non è ancora uscito, per motivi soprattutto legati alla produzione di energia, ma i cui effetti più negativi sono stati ammortizzati da una svalutazione del real di circa il 40%. La manovra ha messo in crisi l'alleanza di mercato dell'America del sur, il Mercosur, contagiando la crisi all'Argentina, che a causa della politica di dollarizzazione dell'ultimo decennio fa, si è ritrovata del tutto non competitiva.

La vittoria recente dei peronisti alla elezioni è la risposta popolare alla politica di risanamento precedente di aggancio all'economia statunitense, fatta di compressione delle rendite più deboli e di mancati pagamenti degli stipendi dei dipendenti pubblici.

Il futuro del Mercosur, su cui pesa la conflittualità economica tra Brasile ed Argentina, si intreccia con le prospettive di sviluppo dell'area di libero scambio imperniata sulla audace politica del petrolifero Venezuela verso Cuba, Bolivia ed Ecuador, senza tralasciare un rinnovato interesse della Spagna per queste sue ex-colonie, e un assai poco probabile cambiamento della strategia USA verso il Sud America come cortile di casa."

Anche la Turchia, paese chiave dell'alleanza atlantica, in questo momento versa da tempo in cattivissime acque. Ma anche le cosiddette tigri asiatiche, i famosi Paesi in Via di Sviluppo (PVS) non si sono più ripresi dalla crisi di quasi un lustro fa, non hanno più il passo di marcia degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta e le prospettive di un mercato mondiale in recessione non è certo favorevole ai loro modelli economici di stampo prettamente esportativo (la bancarotta della Daewoo in Corea è stata un sintomo evidente di malessere congiunturale).

Solo la Cina sembra godere al momento di buone speranze, ma, nonostante il numero sterminato dei suoi abitanti, il suo livello globale di consumi è troppo ridotto per consentire da solo una chance per l'economia internazionale.

29. Il bluff dei titoli tecnologici

La mancata distribuzione dei dividendi ha reso improduttive le azioni. Per cui i guadagni borsistici si ottengono solo sulla compravendita dei titoli, sulla speculazione. È necessario quindi, perché la catena di sant'Antonio regga, attirare sempre nuovi capitali e quindi forzare i piccoli risparmiatori ad investire in titoli, invece che in altri settori, e costituire riserve di capitali disponibili quali quelli ingenti rappresentati dai fondi pensione negli Usa.

La nascita degli indici dei titoli della new economy ha rappresentato un modo per attirare capitali su prospettive di crescita reale del tutto labili: alcuni titoli in pochi mesi dalla loro quotazione ha segnato crescita vertiginose, raggiungendo quotazioni totalmente scorrelate dalla consistenza dell'azienda. Questa bolla speculativa non poteva che esplodere ad un prima verifica dei risultati di impresa e così è stato. Ci sono attualmente titoli del Nasdaq che sono ad una quotazione pari all'1% di quella iniziale, cioè non valgono più assolutamente nulla.

30. Borsa über alles

Più in generale è l'intero settore delle borse che ha avuto nell'ultimo scorcio del Novecento un andamento ipertrofico, svincolato da quello dell'economia reale, la quale si è alla fine presa una colossale rivincita. Per anni invece la salute della congiuntura economica è stata misurata sul metro dei listini borsistici e non vi era operazione aziendale che potesse avere un futuro se non convalidata dal gradimento dei mercati azionari. Il mercato dei titoli diviene preminente a cavallo degli anni Settanta e Ottanta.

È così che la proprietà di aziende già affermate può passare, tramite acquisizione azionaria, a società o individui che mai si sono occupati di affari nel settore specifico, con una crescente difficoltà a concepire piani strategici di sviluppo di lungo periodo: è così, ad esempio, che numerosi settori statunitense ad alta intensità di capitale perdono quote di mercato all'interno e all'estero a partire dagli anni Sessanta.

31. Torna lo Stato

Come detto, lo statalismo, il nemico del progresso nella vulgata neoliberista, non è poi così inviso agli imprenditori quando eroga fondi (e la famiglia Agnelli ricorderà certo le generose contribuzioni ricevute per installare a Melfi uno stabilimento della Fiat). Si è anche detto che le multinazionali non hanno interesse a privatizzare servizi, quali polizia ed esercito, che anzi è bene vengano pagati dalla fiscalità generale: per difendere gli interessi di pochi, gli altri pagano.

Il fatto nuovo è che un'intera impostazione di politica economica sta cambiando sotto i nostri occhi, e non è l'effetto dell'attentato alle Twin Towers; vengono al pettine i nodi dello sviluppo economico. Già il Giappone, alcuni anni or sono, ha provato ad uscire dalla recessione riattivando politiche keynesiane di sostegno alla domanda con l'intervento dello Stato: il tentativo fu timido ed è fallito, come ci dice l'attuale congiuntura nipponica.

Gli Stati Uniti, partiti da posizione marcatamente liberiste con la Amministrazione Bush, hanno avviato il più massiccio intervento economico dello Stato da trent'ani a questa parte: 100 miliardi di dollari a sostegno della congiuntura declinante.

32. Le mani sul terzo mondo

Dopo anni di fiducia incondizionata sulla capacità del mercato di essere da solo il regolatore della congiuntura e, nel contempo, un agente di equiparazione sociale, negli ultimi tempi si cominciano a sentire accenti diversi.

Nel giugno del 2001 i giovani industriali italiani, riuniti per il loro congresso annuale a Santa Margherita Ligure, hanno chiesto regole per il mercato, che non dovrebbe più essere lasciato a briglia totalmente sciolta, e un'attenzione crescente per le tragedie economiche dei paesi del terzo e del quarto mondo.

Per quanto riguarda le ipotesi di controllo sulla libera evoluzione dei mercati è facile intravedere dietro di esse la preoccupazione crescente per un'evoluzione economica non più così rosea come in passato. Ma la cosa più preoccupante è l'attenzione dedicata ai paesi poveri da ceti sociali la cui filantropia è per lo meno dubbia. In realtà, l'occhio si allunga verso regioni attualmente escluse dai flussi dell'economia internazionale per farne aree di potenziale sviluppo per investimenti o per l'apertura di sbocchi di mercato: auspice il basso costo della manodopera e i bisogni emergenziali da coprire, ovviamente, con gli aiuti dei paesi ricchi, fonte di nuovi profitti.

33. Ma la situazione non ha sbocchi né facili né certi

Troppo a lungo politiche di contenimento delle spese, viste tout court come improduttive, e di minimizzazione dei costi, in modo miope considerate solo come limitazione dei profitti, hanno compresso i mercati dei paesi industrializzati e portato la congiuntura internazionale in una fase di crollo, le cui linee di fuoriuscita sono per ora poco probabili; le strategie abbozzate rispondono tutte a logiche improvvisate.

Se il monetarismo ed il neoliberismo mostrano ora le loro intrinseche debolezze, e con essi la globalizzazione come l'abbiamo fino ad oggi conosciuta, non è detto che il futuro si configuri come una pura e semplice riproposizione delle politiche keynesiane. Sono certe forme di sostegno ai mercati asfittici e barriere protettive contro la libera circolazione delle merci, ma sono per lo meno dubbie ipotesi di rilancio delle politiche di integrazione dei salari nella dinamica espansiva, come pure reintegrazione di spese sociali legate al Welfare degli anni Sessanta e Settanta.

Queste ultime vorrebbero dire un nuovo protagonismo delle classi subalterne ed il segno caratterizzante tutte le innovazioni degli ultimi due decenni è stato lo scompaginamento da parte dei datori di lavoro dell'avversario di classe e la disarticolazione delle sue rappresentanze, per poter esercitare su di esso un dominio assoluto e incontrastato: su questo nelle ipotesi del padronato non ci sono ritorni indietro ed i diritti persi o messi in discussione andranno difesi o riottenuti al prezzo di dure lotte.

34. La globalizzazione non è ineluttabile

Da quanto sopra detto discende che la globalizzazione non è di per sé un'evoluzione necessaria della struttura economica internazionale, come vorrebbero Hardt e Negri. Già si sono avuti in passato fenomeni di integrazione delle economie dei vari paesi, anche più rapidi e profondi di quelli in corso, ma questi periodi sono terminati con conflitti armati e con la ricostituzione di barriere.

È ovvio che il processo di sempre maggiore compenetrazione tra le aree geografiche ed economiche è progressivo e nel lungo periodo inarrestabile, ma questo non ha nulla a che vedere con la mistica del mercato globale che viene propagandata al momento. Anzi si può affermare che la fase che stiamo vivendo è quella di un forte competizione commerciale, tesa ad allargare le zone che le singole potenze economiche (USA e UE) controllano, e che questo aspro confronto è destinato ad intensificarsi con l'aggravarsi della crisi economica.

Come visto, quello che tende a divenire pervasivo è un modello di relazioni economiche e sociali fortemente sperequante, sia tra gli individui di uno stesso paese che tra paesi ricchi e paesi poveri, un sistema che regala un diritto assoluto di comando sulla forza di lavoro ai capitalisti, a questo modello non solo è possibile, ma è necessario opporsi.

35. Il processo non è governabile

La cosiddetta globalizzazione non è, quindi, una progressiva, anche se rapida, compenetrazione di tutte le economie internazionali, ma la omologazione dei paesi ad un modello economico, fatto di finanziarizzazione e deregolazione dei rapporti sociali e produttivi. Anche se prevalesse il primo aspetto, la prospettiva riformista del suo controllo sarebbe futile: il libero mercato o è tale o non lo è; laddove, quindi si ponessero regole al mercato non si sarebbe più in presenza di globalizzazione, ma di un sistema socialmente controllato di interrelazione tra le economie.

Il problema è che il libero mercato è una fola: competizione commerciale, controlli crescenti sui movimenti delle persone (auspice l'allarme terrorismo), blocco alla circolazione delle idee (auspice la guerra contro il nemico semitico), caratterizzano in realtà la situazione del momento, e hanno radice ben più profonde della contingenza seguita all'11 di settembre.

Non resta che il secondo degli aspetti del fenomeno della globalizzazione. Qui non ci sono regolamentazioni che tengano, non c'è un meno peggio nel confronto selvaggio tra detentori dei mezzi di produzione e prestatori d'opera: il processo della perdita dei diritti, di potere e di reddito del proletariato non può essere edulcorato; può solo essere contrastato.

36. La globalizzazione non ha effetti positivi

Occorre anche sfatare il presunto effetto progressivo che la globalizzazione (continuiamo pure per semplicità ad adoperare questo termine improprio) avrebbe nel diffondere cultura e democrazia nelle aree che sono rimaste ai margini, o al di fuori, dello sviluppo economico. In primo luogo lo sviluppo delle nuove regole di relazioni industriali e sociali comporta una segmentazione anche nelle aree ad antico sviluppo: in queste si generano localismi, incomunicabilità tra culture diverse, ricerca delle identità di gruppo e di religione, rottura delle solidarietà e dell'aspirazione all'integrazione tra diversi; questo discende ovviamente dalla solitudine dell'individuo nell'affrontare i problemi del lavoro e dalla insicurezza sul futuro non più socialmente garantito. In secondo luogo le aree economicamente depresse tali rimangono ed anzi sono investite da nuove politiche di rapina quando detengano risorse di materie prime: non è un caso che i conflitti che hanno giornalmente accompagnato gli ultimi dieci anni si siano sviluppati tutti attorno a zone ricche di fonti energetiche o collocate sulle direttrice delle loro linee di comunicazione.

Ciò fa giustizia della promessa di pace che un mondo unipolare ed uniformato su di un modello economico e culturale dovrebbe offrire. Ma ci dice anche che laddove gli interessi economici del nuovo imperialismo si appuntino, lì non si generino benessere e democrazia, quanto all'opposto regimi oppressivi basati su gruppi di potere, che unici si avvantaggiano della chance offerta dalla detenzione di risorse strategiche.

37. Il ruolo reale dei vertici internazionali

I periodici vertici dei capi di Stato delle maggiori potenze economiche, dei loro Ministri economici e di altri organismi sopranazionali non hanno lo scopo di controllare, mettere le briglie ad un mercato altrimenti libero di svilupparsi in maniera caotica, non devono porre regole da contrapporre ad une deregolazione selvaggia delle transazione internazionale ed al movimento dei capitali. Il loro scopo è quello di sancire tregue e punti di arrivo delle guerre commerciali in atto, operando spartizioni momentanee dei mercati. Soprattutto fissano le strategie complessive dell'evoluzione capitalistica, ritrovando gli accordi per intensificare sfruttamento e profitti. In questo senso l'obiettivo di contestazione prescelto dal movimento no global, oltre ad un'evidente valenza simbolica, possiede anche la certezza di un obiettivo concreto, anche se in assenza di questi vertici pubblicizzati, altri momenti di concertazione vengono con successo esperiti al di fuori di occhi o attenzioni indiscrete.

Il Fmi, apparentemente asettico e defilato rispetto alle scelte politiche, è invece stato, nel passato, il centro di irradiazione delle politiche neoliberiste, costringendo all'interno della gabbia di ferro monetarista tutte le economie riluttanti, come, in particolare, molte di quelle del terzo mondo, con disastrosi effetti di lungo periodo.

38. Non è possibile aiutare i paesi poveri all'interno dell'attuale paradigma economico

Il sottosviluppo dei paesi terzi e quarti non si risolve all'interno dell'attuale paradigma economico, i quali anzi debbono gran parte dei loro attuali problemi alle politiche loro imposte dal FMI. Quando imprenditori e vertici politici internazionali manifestano il proprio interesse per le aree depresse ed auspicano una maggiore attenzione ai problemi dei paesi poveri non sono spinti da un rigurgito di filantropia, ma pensano solo a nuove possibilità di sfruttamento produttivo, al controllo delle risorse di materie prime strategiche, che essi posseggono, ed all'apertura di nuovi mercati.

Ne può essere un esempio lampante la vicenda dei farmaci che necessitano ai paesi africani in particolare; è stato deciso al vertice di Genova 2001 di creare un Fondo Internazionale di aiuti farmaceutici per l'emergenza sanitaria in corso: la Commissione che gestirà questo Fondo vede al suo interno una folta rappresentanza delle Case Farmaceutiche, che non rinunciando ad una sola briciola dei propri profitti vedranno affluire nelle proprie casse i soldi raccolti dai Governi dei paesi industrializzati per inviare i medicinali in Africa. Le tasse dei cittadini si tramutano in profitti per le multinazionali del farmaco.

39. A chi serve parlare di globalizzazione

La parola globalizzazione contiene, quindi, un equivoco che è necessario chiarire. Il processo reale, cui abbiamo assistito ad oggi e che ora scricchiola vistosamente, non è la creazione di u modello universale di relazioni sociali improntate alla democrazia, ma una fase di sviluppo del capitalismo che diviene più aggressivo contro l'avversario di classe e a volte cannibalizza se stesso. Il termine serve quindi a coprire una verità fatta di maggiore sfruttamento, precarizzazione dei rapporti industriali, espropriazione delle ricchezze di materie prime del terzo mondo: nulla di nuovo se non nell'intensità e soprattutto un passo indietro rispetto alla forza conquistata nei rapporti di scontro dal proletariato dei paesi industrializzati (il suo arretramento non avvantaggia certo il proletariato dei paesi terzi e quarti).

(documento approvato al 7° Congresso della F.d.C.A. del 2006)


A partire del 7° Congresso FdCA del 1 ottobre 2006, questo documento sostituisce: Capitalismo internazionale ed imperialismo.