COMUNISTI ANARCHICI: UNA QUESTIONE DI CLASSE

 

5.5. La testimonianza
 

Se l’organizzazione politica dei comunisti anarchici non deve limitarsi a fare pura propaganda dei sacri principi, il suo operare all’interno delle lotte degli sfruttati deve essere incisivo, efficace e riconoscibile. Per questo la linea politica e strategica perseguita dall’organizzazione di specifico deve essere univoca all’esterno, in grado così da costituire un punto di riferimento certo per il proletariato nella propria crescita di consapevolezza. Il principio di funzionamento che permette questa operatività va sotto il nome di responsabilità collettiva e fu indicato dal gruppo di esiliati russi in Francia Dielo Trouda, nella già ricordata Plate-forme d’organisation de l'Union Générale des Anarchistes – Project. La definizione di questa modalità di funzionamento ha destato grande scandalo all’interno del movimento anarchico, che ancora usa la parola piattaformista come un insulto da scagliare contro i comunisti anarchici. L’equivoco è grande e vediamo di diradarlo.

Erroneamente i confusionari dell’anarchismo hanno identificato la responsabilità collettiva dell’organizzazione comunista anarchica con il centralismo democratico di leniniana memoria, ma l’accostamento è solo fazioso. Nel centralismo democratico un vertice prende le decisioni e i militanti sono tenuti ad applicarle; poiché l’adesione al partito è volontaria, almeno laddove esso non è al potere, ciò è perfettamente legittimo, in quanto chi accetta di entrare in un organismo ne condivide la tipologia di funzionamento. Questo però non è assolutamente analogo a quanto previsto dalla responsabilità collettiva: infatti, quest’ultima prevede la massima democrazia nell’assunzione delle decisioni (un Congresso in cui tutti i militanti contano una testa, in maniera assolutamente paritetica); ma una volta che le decisioni siano state assunte a maggioranza, queste vincolano l’intera organizzazione. La minoranza può non dare corso alle decisioni, ma non può intralciare il lavoro dell’organizzazione, offuscarne l’immagine esterna praticando altra strade. Avrà modo nel successivo Congresso di riproporre le proprie tesi e convincere la maggioranza dei militanti, o per il fallimento manifesto della linea precedentemente adottata, o per la nuova capacità di coinvolgimento che saprà dispiegare.

L’organizzazione dei comunisti anarchici ha quattro principi fondamentali su cui basa il proprio lavoro: l’unità teorica, l’unità strategica, l’omogeneità tattica e la responsabilità collettiva. L’unità teorica significa che tutti i militanti devono condividere i principi generali cui si ispira l’organizzazione cui aderiscono: per intendersi quelli contenuti in questo scritto; se così non fosse lavorerebbero per una causa diversa e dovrebbero naturalmente aderire ad un partito diverso. L’unità strategica significa che tutti i militanti devono condividere il percorso che l’organizzazione individua per arrivare alla rivoluzione sociale: ovverosia le linee maestre su cui tutti concordano di agire dall’oggi ad un futuro, si spera, non troppo lontano; se così non fosse le azioni dei militanti o di gruppi di essi batterebbero sentieri diversi e l’organizzazione in quanto tale non svolgerebbe alcun ruolo significativo nelle lotte delle masse. L’omogeneità tattica significa che le azioni quotidiane e locali dei militanti e dei singoli gruppi devono convergere verso un medesimo alveo strategico, anche se possono essere diversificate in ragione delle diverse situazioni temporali e geografiche; se le tattiche dei singoli, pur differenziate per meglio aderire alle esigenze delle lotte immediate, non tendessero nella stessa direzione, l’azione dell’organizzazione sarebbe come il volo di una mosca.

Nel movimento anarchico sono esistiti due tipi di organizzazione: quelle di sintesi e quelle di tendenza. Quelle di sintesi sono le organizzazioni in cui si entra in quanto anarchici, senza altra specificazione: vi possono quindi convivere educazionisti, comunisti, sindacalisti, insurrezionalisti e persino individualisti: non sempre sono così ampie, il che significa che il grado di unità teorica che esse richiedono ai propri membri può essere più o meno elevato. Ad esempio, nel 1965 l’ala più legata alla lotta di classe riuscì a far adottare alla FAI il programma malatestiano del 1920, provocando con ciò la fuoriuscita degli antiorganizzatori e degli individualisti. Qualunque sia il grado di unità teorica (mai comunque completa), l’assenza di unità strategica impone che le decisioni prese vincolino solo chi le condivide, lasciando liberi gli altri di fare come loro meglio aggrada; cosa che significa che quelle non sono vere e proprie decisioni, che i Congressi nessuna risoluzione possono adottare che sia efficace, che il confronto non è produttivo, restando ognuno della propria idea, e che l’organizzazione consuma i propri riti interni, senza assumere alcuna faccia da mostrare all’esterno. Il non possedere strutture codificate, lungi dal garantire maggiore democraticità, consente il crearsi di gruppi dirigenti occulti, che si aggregano per affinità e si riproducono per cooptazione, generando una forma di dirigismo incontrollabile ed incontrollato, in quanto non identificabile, ma non per questo meno efficace e stringente.

Le organizzazioni di tendenza raggruppano i militanti in base alla propria teoria (vi sono anche organizzazioni di tendenza degli antiorganizzatori!), come faceva nel 1919 l’UCAd’I di Fabbri, prima che Malatesta col suo programma la trasformasse in UAI ed in organizzazione di sintesi, per bisogno di unanimismo e forse nella convinzione di trascinare su posizioni più di classe chi proprio non ne voleva sapere. È evidente che quella dei comunisti anarchici è un’organizzazione di tendenza e che le forti richieste di omogeneità, ch’essa fa ai propri militanti al momento dell’adesione, limitano fortemente l’apparente portata coercitiva del principio della responsabilità collettiva. D’altronde quando un noto militante di un qualsiasi partito prende una posizione, questa inevitabilmente coinvolge, anche al di là della sua volontà, l’intera organizzazione agli occhi delle masse e per questo può essere molto più pericoloso il parlare diverse lingue, solo perché non si vuole accettare un unico metodo di comunicazione, che concordare precedentemente tra tutti il dizionario comunicativo da adottare.

 


5.6. Il programma

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