ILVA, un anno dopo
1.500 lavoratori degli stabilimenti della Riva Acciaio, e non sappiamo quanti sono i lavoratori dell'indotto, sono stati secondo la dicitura cara alla FIAT "messi in libertà". In sostanza gli stabilimenti della Riva Acciaio situati nel nord Italia sono stati chiusi: la più classica delle SERRATE.
Una serrata, termine ottocentesco, effettuata da padroni che risultano imputati di disastro ambientale, sottrazione di capitali, corruzione ecc. e che dopo un anno agiscono impunemente, con la copertura mai spezzata del malaffare statale, giocando sulla pelle dei lavoratori e cercando di mettere i lavoratori di questi stabilimenti del nord contro i lavoratori di Taranto.
Dopo un anno siamo in piena palude e chi gestisce la partita sono ancora i Riva con la complicità dello Stato.
Ancora oggi in una nota, Federacciai (l'associazione che raggruppa i padroni del settore) invocava la libertà d'impresa calpestata dall'azione della magistratura, e Bentivogli responsabile sindacale FIM-CISL invitava a non inasprire i rapporti con l'azienda: "occorre tener aperto il dialogo".
Bisogna aver chiaro che se la classe lavoratrice non esce da questi ricatti, da questo clima di sottomissione e di paura e non riprende il suo ruolo e il suo protagonismo non si esce dal mortifero letargo che il capitale impone.
E' inutile proclamare 8 ore di sciopero per lunedì e la manifestazione al ministero: la cassa integrazione non sarà negata, è funzionale al gioco, per l'ennesima volta si esternalizzano i costi ambientali ed economici di una gestione criminale: lo Stato si fa parte in causa e addirittura paga il rilancio dei Riva contro il sequestro dei beni che permetterebbero di pagare la messa in sicurezza di uno stabilimento che continua a fare morti. Sono stabilimenti produttivi e con mercato in ripresa, altro che sciopero: bisogna muovere, occuparli. Non nazionalizzarli, e porli sotto controllo di uno Stato complice dell'attacco e della svendita dei lavoratori e dei loro diritti, ma occuparli e tenerli sotto il controllo dei lavoratori e delle lavoratrici, gli unici a poterli gestire e ad avere interesse alla produzione materiale di beni in questo paese, al mantenimento di un tessuto produttivo di massa e non solo di nicchia, gli unici come sempre su cui grava la possibilità di ripartire.
E questo vale in tutte le realtà a rischio di ridimensionamento o chiusura dove i lavoratori sono ricattati rispetto al posto di lavoro, interi settori come gli elettrodomestici per fare solo un esempio.
Una parte consistente della lotta di classe e della sua ripresa oggi si gioca su questo scontro: mantenimento dell'occupazione e ripresa della contrattazione con contenuti autonomi dei lavoratori.
Provando ad innestare su questi processi un percorso di ricostruzione del sindacato da parte dei lavoratori, che li metta in grado di difendersi dai ricatti e dalle pressioni - fino al licenziamento - come sa chi si oppone in fabbrica allo strapotere dei padroni anche riguardo alle misure di sicurezza oltre che ambientali. Cronaca di questi giorni, come l'attivista sindacale dell'USB a cui va la nostra solidarietà.
Le prime vittime dell'ILVA, infatti, e non solo nel subire gli effetti devastanti dell'inquinamento, occorre ricordarlo, sono i lavoratori stessi e le loro famiglie, e solo dalla partecipazione dei lavoratori alla messa in sicurezza e alla bonifica dell'ILVA si potrà pensare a un mantenimento della produzione di acciaio nel nostro paese, necessario per il mantenimento di un livello manifatturiero, sia pure ridimensionato, che non compensi i risparmi sull'ambiente con i costi in tumori e in mazzette.
Nello scontro in atto a livello mondiale sulla produzione dell'acciaio, l'Italia è il secondo produttore dopo la Germania e all'undicesimo posto a livello mondiale, accanto a paesi come la Cina, India, Brasile, i principali produttori di acciaio.
Inutile sottolineare che tanto dipende dagli spazi che i colossi mondiali dell'acciaio lasciano liberi o sono disposti a negoziare nel medio/lungo periodo, considerando che anche realtà come Turchia e Russia aumentano le produzioni mentre si affacciano paesi africani che subiscono processi di industrializzazione. Non è continuando a giocare al ribasso sulle tutele ambientali e di sicurezza che ci si può illudere di competere con questi paesi.
Commissione Sindacale
Federazione dei Comunisti Anarchici14 settembre 2013