Il sindacalismo rivendicativo:
dalla Spagna al Sud Africa al mondo del lavoro globale oggi
Lucien van der Walt
Perché è importante sviluppare una nuova visione del ruolo trasformatore dei sindacati in un mondo di crisi e di disuguaglianze; i limiti del sindacalismo concertativo, degli approcci nazionalisti, di quelli marxisti-leninisti e social-democratici; e come l'anarcosindacalismo ed il sindacalismo rivoluzionario - in quanto importante tradizione storica, bagaglio di idee ed esperienza rivoluzionaria, soprattutto in Spagna nel 1936-1939 - possono contribuire al dibattito.
Eventi come il massacro di minatori da parte della polizia a Marikana in Sud Africa nel 2012 hanno messo duramente in evidenza gli aspetti decisivi della attuale crisi, della iniquità dell'ordine mondiale, in cui il lavoro ed i diritti umani sono vittima di molteplici abusi in una crudele spirale al ribasso. Le politiche sindacali rimangono centrali perché si possano sviluppare risposte a questo sistema. Ma i sindacati, al pari di altri movimenti sociali, si trovano davanti alla sfida di dover articolare una visione alternativa e trasformatrice - specialmente alla luce della crisi dell'approccio socialdemocratico, di quello marxista-leninista e nazionalista.
Questo contributo si misura col dibattito sulle opzioni esistenti per la classe lavoratrice nella sua ampiezza - e, mettendo in evidenza i limiti del sindacalismo concertativo, del sindacalismo social-movimentista e del sindacalismo politico - suggerisce come molto si possa imparare dall'anarcosindacalismo e dal sindacalismo rivoluzionario, tanto da quello storico quanto da quello attuale. Si tratta di una tradizione con una storia sorprendentemente concreta e di grande influenza, anche nell'ex-mondo coloniale; una tradizione che vedeva i sindacati anti-burocratici gestiti dal basso, quali mezzi decisivi per formare e mobilitare i lavoratori, per portare alla vittoria le lotte economiche, sociali e politiche di una ampia classe lavoratrice indipendente dalle politiche parlamentari e dalle tutele di partito e dello Stato; per puntare, in definitiva, alla trasformazione della società attraverso le occupazioni dei luoghi di lavoro guidate dal sindacato, per istituire una pianificazione autogestionaria di economia partecipativa con abolizione del mercato, delle gerarchie e degli Stati - un programma concretamente e vittoriosamente attuato nella rilevante rivoluzione spagnola del 1936-1939, di cui si dirà nel testo.
Il contributo si conclude con il suggerimento rivolto agli studiosi del mondo sindacale e della sociologia del lavoro a mostrare maggiore attenzione a questa tradizione sindacale, oltre a quelle del sindacalismo concertativo, social-movimentista e politico.
Le politiche sindacali rimangono decisive in questo nuovo secolo. SIa per la crescente importanza dei sindacati quali movimenti di massa a livello internazionale, sia perché i sindacati, al pari di altri movimenti, si trovano di fronte alla sfida molto reale di dover articolare una visione alternativa e trasformatrice. C'è molto da imparare dall'anarcosindacalismo e dal sindacalismo rivoluzionario, tanto da quello storico quanto da quello attuale. Si tratta di una tradizione con una storia sorprendentemente concreta e di grande influenza, anche nell'ex-mondo coloniale; una tradizione che vedeva i sindacati anti-burocratici gestiti dal basso, quali mezzi decisivi per formare e mobilitare i lavoratori, per portare alla vittoria le lotte economiche, sociali e politiche di una ampia classe lavoratrice indipendente dalle politiche parlamentari e dalle tutele di partito e dello Stato; per puntare, in definitiva, alla trasformazione della società attraverso le occupazioni dei luoghi di lavoro guidate dal sindacato, per istituire una pianificazione autogestionaria di economia partecipativa con abolizione del mercato, delle gerarchie e degli Stati.
Questo lavoro cerca, per prima cosa, di contribuire al recupero della memoria storica della classe lavoratrice, delle sue molteplici tradizioni e della sua ricchezza storica; in secondo luogo, intende portare un contributo al dibattito in corso sulle lotte, sulle opzioni e sulla direzione da intraprendere per il movimento dei lavoratori (sindacati inclusi) in un periodo i cui i modelli sedimentatisi negli ultimi 40 anni si stanno lentamente disfacendo; in terzo luogo, si cerca di sostenere come i tanti approcci sindacali esistenti - fra cui il sindacalismo concertativo, quello social-movimentista e quello politico - si portino dietro fallimenti e limiti sostanziali; ed infine, si conclude con il suggerimento rivolto agli studiosi del mondo sindacale e della sociologia del lavoro a mostrare maggiore attenzione alle tradizioni sindacali altre rispetto a quelle del sindacalismo concertativo, social-movimentista e politico.
Per fare ciò, questo lavoro prende in considerazione cosa i sindacati progressisti possono imparare da un contatto con la tradizione anarcosindacalista e sindacalista rivoluzionaria - specialmente alla luce della attuale crisi degli approcci socialdemocratici, marxisti-leninisti e nazionalisti. In tutto il mondo, i sindacati sono alle prese con le sfide poste dalla attuale crisi di un mondo iniquo in cui i diritti sindacali e quelli umani sono sotto attacco in una spirale al ribasso. D'altronde, i sindacati sono in difficoltà di fronte al fallimento dello stato sociale keynesiano, di fronte al collasso dei modelli nazionalisti, tipo import-sostituzione-industrializzazione, e di fronte all'implosione del modello sovietico.
Questa situazione si è recentemente evidenziata nel Sud Africa del post-apartheid, in cui molte speranze erano state riposte nel governo dell'African National Congress (ANC), con cui il sindacato Congress of South African Trade Unions (COSATU), ed il South African Communist Party (SACP), sono formalmente alleati. Gli scioperi nel settore minerario a causa dei bassi salari hanno provocato scissioni sindacali ma soprattutto nell'agosto 2012 il massacro di 12 minatori da parte della polizia a Marikana.
Fatti come questi e la crescente frustrazione nei confronti delle politiche dell' ANC, sono stati la classica goccia in più che ha portato alla decisione momentanea da parte del maggiore sindacato affiliato al COSATU, la radicale National Union of Metalworkers of South Africa (NUMSA) forte di 335.000 iscritti che nel dicembre 2013 si è ribellata alle decisioni del COSATU rompendo i rapporti con entrambi i partiti. Il suo segretario generale Irvin Jim ha dichiarato che "è chiaro che la classe operaia non può più guardare in nessun modo all'ANC o al SACP come alleati di classe". (cfr. Letsoalo e Mataboge, 2013). Il NUMSA, con radici nella sinistra sindacale indipendente degli anni '80 (i cosiddetti "operaisti"), e, più recentemente, con un formale orientamento marxista-leninista, aveva appoggiato il programma dell'ANC fin dal 1987.
Nella definizione di un percorso politico per il 2014, comunque, il NUMSA ha messo da parte le risposte semplici ed a breve termine, scegliendo invece un processo aperto di costruzione di un "movimento per il socialismo" e per un "fronte unitario dei movimenti popolari". Il NUMSA ha iniziato a guardare con maggiore attenzione al suo passato "operaista", lasciandosi aperte le opzioni future. Questa apertura segna, almeno in parte, un approccio potenzialmente innovativo, ma cauto: il Sud Africa del post-apartheid infatti è segnato da vari tentativi falliti di formare una sinistra alternativa. E' significativo, tuttavia, come il NUMSA abbia respinto ogni legame con il nuovo partito degli Economic Freedom Fighters, la cui struttura centralizzata e di comando insieme ai suoi dirigenti corrotti risulta incompatibile con la storia del NUMSA, con la sua tradizione di prendere decisioni dal basso e col suo anticapitalismo (cfr. 'Economic Freedom Fighters', in NUMSA, 2013).
Ma cosa significa un "movimento" per un cambiamento radicale nel 21° secolo? Se lo Stato, compreso lo Stato governato dal nominalmente di sinistra ANC, si è dimostrato così dannoso ed inaffidabile quale alleato del movimento sindacale organizzato, è possibile recuperare tradizioni sindacali che siano radicali, anche anticapitaliste, ma autonome dal potere statale? Rispondere ad una simile domanda richiede, vorrei suggerire, una disamina critica di un'ampia serie di esperienze e la scommessa che un contatto col "syndicalism" [col termine "syndicalism" si intendono storicamente le organizzazioni, le tendenze e la tradizione anarcosindacaliste, sindacaliste rivoluzionarie, rivendicative e conflittuali, che d'ora in poi tradurremo con "sindacalismo rivoluzionario", ndt] sarebbe quanto mai vantaggioso.
La tradizione "syndicalist" [col termine "syndicalist" si intendono storicamente le organizzazioni, le tendenze e la tradizione anarcosindacaliste, sindacaliste rivoluzionarie, rivendicative e conflittuali; che d'ora in poi tradurremo con "sindacalista rivoluzionario", ndt] è stata recentemente oggetto di importanti lavori da cui si è sviluppata una scuola di studi (cfr. soprattutto Damier, 2009; Darlington, 2008; Ness, 2014), che ha portato ad importanti svolte sul piano organizzativo. Se ne coglie l'influenza, ad esempio, in settori dei sindacati di SUD (Solidaires, Unitaires, Démocratiques) in Francia ed in alcune componenti dei COBAS (Comitati di Base) in Italia. In Spagna, nel frattempo, il sindacato anarcosindacalista Confederación General del Trabajo (CGT) è giunto nel 2004 a rappresentare circa 2 milioni di lavoratori attraverso le elezioni sindacali (cfr. Alternative Libertariare, 2004), diventando il terzo sindacato spagnolo.
La CGT spagnola di oggi è uno degli eredi più importanti di quel movimento anarcosindacalista classico, il quale incentrato nella Confederación Nacional del Trabajo, o CNT, lanciò negli anni '30 uno dei maggiori tentativi mai intrapresi di ridisegnare la società . Questa esperienza, costruita su decenni di costruzione di contro-egemonia a livello delle coscienze e del movimento, in anni di attenta riflessione, di pianificazione e di lotta militare, vide migliaia di posti di lavoro e di ettari di terra sotto l'autogestione operaia e contadina, con la radicale democratizzazione dell'economia e trasformazione della vita quotidiana, tra cui le relazioni di genere. In questo lavoro si darà la dovuta attenzione alla rivoluzione spagnola del 1936-1939 proprio in quanto esempio concreto di prassi "sindacalista rivoluzionaria" e per la sua rilevanza nella attuale rinascita sindacale.
I sindacati oggi: organizzazioni senza trasformazione sociale?
Una ragione fondamentale per richiamare la tradizione "sindacalista rivoluzionaria" è che questa aiuta a cogliere la grande sfida in gioco oggi, per i sindacati come per gli altri movimenti popolari. Questa grande sfida non sta nello sviluppare le migliori strategie di sopravvivenza. Bensì nello sviluppare una visione di trasformazione sociale che fondamentalmente metta la ricchezza ed il potere nelle mani delle classi popolari, che sappia commisurare le strategie al raggiungimento di tale visione. E' proprio a livello di visione che l'attuale sindacalismo organizzato risulta inadeguato.
In termini di numeri e di organizzazione, i sindacati considerati a livello globale sono realmente in buone condizioni - e questo nonostante le grandi sfide da affrontare ed alcune innegabili sconfitte. L'adesione sindacale rimane alta in molti paesi occidentali, specialmente nel settore pubblico-statale (cfr. Connolly, 2008: 18). I sindacati hanno sviluppato capacità di resilienza, persino di crescita, in Africa, Asia ed America Latina (cfr. Pillay e van der Walt , 2012), dove sono spesso "una delle pochissime organizzazioni sociali" con dimensioni di massa, strutture diffuse nel territorio nazionale con potenzialità di mobilitare gli iscritti su questioni sociali e politiche" (cfr. Schillinger, 2005: 1). Molti sindacati possono mobilitare più persone di quanti siano i loro iscritti ufficiali (cfr. The Economist, 2006). La nuova International Domestic Workers Federation (IDWF) e l'uso creativo fatto dai sindacati dell'International Framework Agreements (IFAs) mostrano approcci innovativi nell'organizzare i settori marginali. Il sindacalismo militante e di sinistra continua ad esistere, con organizzazioni influenzate dall'anarchismo e dal sindacalismo rivoluzionario, così come da altre tradizioni compresa quella marxista.
Dopo lo statalismo: la perdita della visione sindacale
Gli evidenti successi dei sindacati nel conquistare miglioramenti salariali e nelle condizioni di lavoro, così come nell'ambito dei diritti civili e politici e della giustizia sociale, inevitabilmente pongono una questione di più ampio respiro: come passare da lotte difensive e parziali ad un progetto di trasformazione più ampio che possa mutare decisamente gli equilibri di ricchezza e di potere nella società? Senza un simile mutamento, ogni conquista dei lavoratori e dei più poveri viene continuamente minacciata, per la semplice ragione che i lavoratori ed i poveri sono una classe subordinata e senza potere all'interno di un ordine sociale gestito contro di loro - un sistema che non funziona nei loro interessi e che fa concessioni solo se costretto a farle.
Ma cosa significa esattamente un progetto progressista, all'indomani del fallimento dei grandi progetti delle socialdemocrazie, del marxismo-leninismo e del modello basato su import-sostituzione-industrializzazione? Per esempio, alla luce dei suoi numeri, della sua forza e delle sue profonde radici popolari, l'impegno del NUMSA per un "movimento per il socialismo" ha un enorme potenziale, mai avuto dai precedenti progetti di sinistra in Sud Africa, ma che si trova tuttavia ad affrontare le stesse sfide dei suoi predecessori e nei fatti di tutti i sindacati in qualsiasi altro posto del pianeta.
In linea generale il movimento sindacale ha sempre lottato per una chiara alternativa all'ordine esistente - una questione che i sindacati condividono con molti altri settori popolari di classe. La Primavera Araba è l'esempio più recente di una serie di lotte contro l'impatto del neoliberismo e contro governi autoritari, che sono state caratterizzate ma anche limitate da obiettivi in gran parte declinati in negativo come le parole d'ordine: anti-globalizzazione, anti-privatizzazione, anti-oligarchie, anti-dittatura. Ma senza un programma in positivo, lo spazio aperto da lotte vincenti viene rapidamente recuperato dai partiti neoliberisti (ne è testimone lo Zambia dell'ex-sindacalista Frederick Chiluba negli anni '90), dalle oligarchie capitalistiche che propongono vuoti slogan (vedi lo 'Yes, We Can' dei Democratici di Barack Obama, con la loro guerra e la loro austerità), ed infine dall'integralismo religioso e nazionalista (la resurrezione de Fratelli Musulmani in Egitto ed il loro scontro con i militari ne è un esempio).
Le risposte sindacali a queste più ampie sfide di visione si sono arenate in tre tipi di secche che rimandano a tre categorie, nessuna delle quali si è dimostrata adeguata né storicamente e nemmeno per i tempi che corrono. La prima di queste categorie è l'economicismo, o sindacalismo aziendale, che cerca di evitare le grandi questioni concentrandosi su obiettivi immediati da pane-e-burro quali il salario e le condizioni di lavoro. Il problema è che i salari, le condizioni di lavoro e l'occupazione in sé sono profondamente plasmati dal più ampio ordine sociale, per cui i lavoratori ed i poveri affrontano continue sfide sul lavoro e fuori del posto di lavoro, sfide che vanno ben oltre i salari e le condizioni di lavoro. Il sindacalismo aziendale certamente non è in grado di affrontare queste sfide.
I limiti del sindacalismo social-movimentista e del sindacalismo politico
Una seconda categoria, combinazione di sindacalismo e movimenti sociali, ha cercato di forgiare delle alleanze e delle campagne oltre i luoghi di lavoro, puntando sul sindacalismo democratico e giocando un ruolo nelle lotte contro governi e padroni altamente repressivi. Il problema è che questo tipo di sindacalismo ha una strategia di corto respiro per un programma che punti ad un cambiamento sistemico, che vada al di là delle rivendicazioni per le riforme democratiche. Il contenuto di queste riforme e della democrazia che le sottende, rimane opaco; la sua politica tende a definirsi per le cose a cui si oppone invece che per le cose che propone.
Nella maggior parte dei casi, poi, il sindacalismo social-movimentista si è facilmente e rapidamente convertito nella terza categoria, il sindacalismo politico. Il che prevede che i sindacati si alleino con un partito politico che punta al potere statale, nella convinzione che in caso di vittoria si aprano per la classe lavoratrice le porte per accedere a benefici statali, al potere dello stato ed alla possibilità di influenzare le decisioni politiche. Varianti del sindacalismo politico sono la socialdemocrazia, in cui i sindacati si alleano con i partiti di massa che cercano di conquistare il parlamento; ma anche il marxismo-leninismo, in cui i sindacati sono guidati da partiti di avanguardie che puntano alla creazione di dittature rivoluzionarie; ed infine anche il nazionalismo, in cui i sindacati entrano a far parte di un blocco nazionale puntando a gestire lo stato nazionale.
Un problema non da poco è che tali alleanze, anziché rafforzare i sindacati, hanno finito per renderli subordinati allo Stato ed ai partiti al governo, irretendoli in reti di patronato, di istituzioni per la collaborazione di classe ed in alleanze politiche che ne hanno limitato l'autonomia, la capacità di visione e, spesso, anche la democrazia interna, mentre i lavoratori ed i loro sindacati si dividevano in blocchi di rivali leali a questo o a quel partito.
Un aspetto di questo problema è l'esodo continuo di sindacalisti verso prestigiosi incarichi pubblici, con scarsi effetti sulla politica statale ma con danni per l'azione del sindacato, senza contare cosa comporta promuovere il carrierismo tra i sindacalisti. Nelle elezioni del 2014 in Sud Africa, 12 dirigenti di lungo corso del COSATU sono stati insigniti di cariche pubbliche (cfr. Musgrave, 2014; per altro su questo processo e sui suoi effetti cfr. Buhlungu, 2010). In casi ancora più estremi, i sindacati si sono trasformati in "cinghie di trasmissione" tra "l'avanguardia" e "le masse", incanalando le rivendicazioni e mettendo in riga i lavoratori più recalcitranti. (cfr. Lenin, [1920] 1965: 21, 31-32).
Un altro problema non da poco è che il progetto del sindacalismo politico, col suo progetto statalista, deve oggi fare i conti con la crisi generale e col fallimento dei progetti statalisti di sinistra. I keynesiani e le correlate strategie social-democratiche esercitano ancora un certo fascino, ma la loro fattibilità è in dubbio. Oltre al problema che tali strategie hanno avuto ben poco successo al di fuori dei paesi industrialmente avanzati, è difficile negare che ormai non esistano più né le istituzioni regolamentatrici, né le economie relativamente chiuse, né i boom economici e nemmeno l'insorgere dei movimenti di classe che portarono alla nascita dello stato sociale keynesiano classico.
Anche nel suo momento migliore (alquanto potente), i vantaggi reali che lo stato sociale keynesiano ha portato ai lavoratori sono stati ridimensionati dalle sostanziali iniquità presenti nella distribuzione della ricchezza e del potere, nella massiccia burocratizzazione della società e dei sindacati: una iniziale opposizione a tale modello non è venuta da destra ma da sinistra, con rivendicazioni per l'autogestione, per l'uguaglianza di genere e per le questioni ambientali (cfr. Wilks, 1996: 97). L'esistenza di tale modello è stata per certi versi ampiamente compatibile con gli scopi dei capitalisti e dei manager di stato: mutando gli scopi a fronte di fattori quali la globalizzazione e la crisi capitalistica, il sistema si è gradualmente bloccato (per variabili su questo tema cfr. Pontussen, 1992; Swenson, 1991; Wilks, 1996).
Sebbene i regimi marxisti classici abbiamo mantenuto una qualche attrattiva, anche in sindacati come il NUMSA, il loro consuntivo solleva questioni abbastanza gravi. Si tratta senza ombra di smentita di esperienze segnate da massicce repressioni (non di meno a danno di sindacati e lavoratori), da inefficienza economica e dalla crisi, da un inglorioso collasso (precipitato in parte grazie ad un profondo malcontento della classe lavoratrice). E persino certe conquiste nello stato sociale devono essere viste oggi con un certo scetticismo.[1]
Tutto questo ha drasticamente minato l'antica fiducia che questi regimi si erano conquistati quali rappresentanti di una "nuova e superiore civiltà". (cfr. Webb e Webb, 1937). Una letteratura sempre più ampia, infatti, dimostra come questi regimi marxisti fossero comunque subordinati alle dinamiche capitalistiche globali (cfr. Sanchez-Sibony, 2014) e giunge a confermare, per molti versi, la vecchia argomentazione "sindacalista rivoluzionaria" ed anarchica in base alla quale tali regimi non fossero altro che una forma di "capitalismo di stato" (cfr. Sergven, [1918] 1973: 122-125).
Gli autori che insistono sul fatto che tali stati non fossero "veramente" marxisti, o che avessero tradito Marx, devono comunque fare i conti con la spiacevole realtà che questi erano di fatto i progetti marxisti dominanti, anche per la stragrande maggioranza dei marxisti e che sono stati e sono l'unico esempio storico di governo rivoluzionario marxista.
Intanto, il modello nazionalista basato su import-sostituzione-industrializzazione è ormai al declino come opzione politica (cfr. Waterbury, 1999). La sua eredità si mostra contraddittoria ed a volte positiva, ma il progetto non è più perseguibile. Anche nella sua fase migliore, comunque, questo modello era caratterizzato da regimi dittatoriali e da una forte repressione e cooptazione anti-operaia (cfr. Freund, 1988: chapter 5): il basso costo del lavoro era, dopo tutto, uno dei maggiori "sussidi" da parte dello stato al capitale "nazionale", garantito dall'intervento statale nei paesi a basso tasso di capitalizzazione.
Il sindacalismo rivendicativo: prefigurazione, democrazia, anti-capitalismo
Il che ci porta al quarto approccio, al "sindacalismo rivoluzionario". Bisogna riconoscere che c'è molta confusione su cosa si intende per "sindacalismo rivoluzionario". Cosa vera, per esempio, in Sud Africa dove l'espressione "sindacalismo rivoluzionario" è spesso usata in maniera fuorviante per intendere una forma di sindacalismo militante ma apolitico, sulla scorta della tendenza di Lenin, Poulantzas ed altri a considerare il "sindacalismo rivoluzionario" quale forma di ''economicismo di sinistra" (cfr. Holton, 1980: 5-7, 12-13, 18-19), una espressione che ha radici nella nozione per cui i sindacati sono, per loro natura, riformisti e limitati a meno che non siano subordinati ad un partito politico (cfr. Toussaint, 1983). Questa sorta di etichette sono sbagliate per due versi: da un lato, nel caso di sindacati come il NUMSA - che sta svolgendo un ruolo decisivo nel ricostruire un progetto della sinistra, senza tutele di partito e, di fatto, sfidando il SACP - si confondono completamente nozioni come quella per cui i sindacati siano per natura riformisti se lasciati a se stessi; dall'altro lato, non riescono evidentemente a cogliere l'ideologia e la storia dell'attuale "sindacalismo rivoluzionario".
Quest'ultimo promuove una visione di una società libera dalle disuguaglianze sociali ed economiche, con un'economia a partecipazione democratica in una società che si organizza sulla base del controllo diretto sui posti di lavoro e di un'economia pianificata dal basso; in questa società, non esistono più gerarchie e controllo elitario sulle risorse economiche o di altro tipo.
Riguardo alla classe lavoratrice, poi, il "sindacalismo rivoluzionario" ha un approccio espansivo, che include tutti i salariati, quelli specializzati e quelli che non lo sono, di città e di campagna, con le loro famiglie e difensori: non si tratta di un progetto limitato ad uomini solo con il casco in testa. Per esempio, oggi i sindacati "sindacalisti rivoluzionari" come la CGT hanno tra gli iscritti molti impiegati, tecnici e professionisti; la CNT degli anni '30 aveva tra gli iscritti non solo gli operai dell'industria, ma anche "contadini e braccianti" così come "lavoratori cognitivi ed intellettuali' (cfr. Rocker, [1938] 1989: 98-99).
Di grande interesse è anche l'approccio prefigurativo del movimento, vale a dire la strategia di sviluppo della vita quotidiana, cioè l'infrastruttura etica, politica ed organizzativa nella pratiche quotidiane della nuova società. Piuttosto che abbracciare un approccio strumentale, in cui sono i fini a giustificare i mezzi, il "sindacalismo rivoluzionario", al pari del movimento anarchico in cui trova le sue radici, sostiene che debbano essere i mezzi a definire i fini e, quindi, che le politiche dell'oggi prefigurano il futuro del domani.
Coscienza, sviluppatasi attraverso la lotta, formazione e partecipazione - una controcultura rivoluzionaria - coniugate con uno stile organizzativo sindacale minimalista, decentralizzato, inclusivo, pluralista e pragmatico, e pur tuttavia militante ed autonomo - un contropotere opposto alle istituzioni della classe dominante - devono forgiarsi nelle lotte quotidiane, fino a che non si è pronti e preparati per la spallata finale.
Ma nell'assalto finale ci dovrebbe essere sia la rottura - cioè la rimozione del vecchio regime - sia la continuità - nel fatto che i sindacati ed i loro alleati portano in sé la struttura di base della nuova società, compresi gli strumenti per occupare i luoghi di lavoro e per porli sotto autogestione. I sindacati "sindacalisti rivoluzionari" combinano, perciò, "la difesa degli interessi dei produttori nella società esistente", comprese le lotte politiche, con "la preparazione dei lavoratori alla gestione diretta della produzione e della vita economica in generale" (cfr. Rocker, [1938] 1989: 86). O, come si può leggere su un vecchio giornale sindacalista rivoluzionario sudafricano del 1917, occorre:
.... Un solo grande sindacato... che avanza aggressivamente .... che conquista forza da ogni vittoria e che impara da ogni temporaneo arretramento - fino a che la classe lavoratrice non sia capace di prendere possesso e controllo dei mezzi, delle officine e dei materiali per la produzione togliendoli dalle mani del capitalisti, ed usi questo controllo per distribuire il prodotto interamente tra i lavoratori ... di ogni colore, credo e nazione. il Sindacalismo Rivoluzionario Industriale è "efficienza organizzata". Ogni lavoratore in ogni industria; ogni industria è parte e frazione di un solo grande intero.
Impegno politico, autonomia, anti-statalismo
Con questo ethos, il "sindacalismo rivoluzionario" incarna un sindacalismo di classe e militante che dà potere ai suoi iscritti rendendo minima la gerarchia interna ed opponendosi attivamente a tutte le forme di dominio e di oppressione fondate sulle discriminazioni per nazionalità, razza e sesso, tanto nella società in senso lato quanto all'interno dello stesso sindacato. Storicamente questo tipo di sindacalismo si è sempre impegnato nella formazione politica e nelle lotte su questioni anche di più ampia portata sociale e politica, costituendo altresì alleanze con altri movimenti popolari, con aggregazioni di quartiere, aggregazioni giovanili e gruppi politici, ma al tempo stesso ha nettamente evitato ogni alleanza con partiti politici aspiranti al potere statale.
Usare lo Stato, infatti, strutturalmente gerarchico e profondamente alleato con i capitalisti ed i latifondisti, contraddirebbe le basi stesse del progetto "sindacalista rivoluzionario", che punta invece a costituire dal basso una classe lavoratrice militante ed autonoma in grado di eliminare la gerarchia e lo sfruttamento (Stato compreso). Inoltre, lo Stato non è affatto un alleato della classe lavoratrice, proprio per il suo essere una struttura di potere e di ricchezza per una elite politica che è alleata, strutturalmente, alle grandi imprese, esse stesse luoghi di potere e di ricchezza per l'elite economica. Fare affidamento sui partiti elettoralisti sarebbe scelta del tutto futile, che serve soprattutto a utilizzare il sindacato come gregge di elettori, per affidarsi passivamente ai dirigenti, ai burocrati e ad un (ostile) Stato capitalista (cfr.Spitzer, 1963: 379-388). Anche allearsi con partiti avanguardisti per creare dittature rivoluzionarie è del tutto incompatibile con un movimento dal basso per l'autogestione, dato che i regimi che ne deriverebbero, ben lungi dal promuovere l'emancipazione della classi popolari, finirebbero solo col fare ricorso alla repressione su di esse.
Anti-statalismo "sindacalista rivoluzionario" -va precisato- non significa disinteresse per i temi politici, dal momento che il "sindacalismo rivoluzionario" lotta per "i diritti politici e per le libertà politiche", allo stesso modo di quanto fa per la conquista di aumenti salariali (cfr. Rocker, [1938] 1989: 88-89, 111). Ma, non lo fa usando il parlamento e lo Stato, bensì al di fuori e contro quest'ultimi, costruendo l'organizzazione di massa "temprata dalla lotta quotidiana e permeata da spirito socialista", che deve sapere sostenere la forza dei lavoratori nel punto di produzione", la "punta di lancia" per queste ed altre battaglie della classe lavoratrice nella sua più ampia estensione (Ibid.).
Una alternativa percorribile?
Fino a che punto possiamo considerare il "sindacalismo rivoluzionario" degno di seria considerazione alla luce di una sua presunta importante tradizione? E fino a che punto possiamo ritenere il suo progetto qualcosa di più di mera retorica? Vale a dire, fino a che punto questo progetto è riuscito a realizzarsi tanto nei suoi obiettivi immediati quanto in quelli storici?
Una risposta esaustiva al primo quesito esula dallo scopo di questo lavoro; possiamo ritenere sufficiente qui dire che l'opinione per cui l'anarchismo ed il "sindacalismo rivoluzionario" non fossero altro che "poco più di una minoranza" (cfr, Kedward, 1971: 120) è stata ampiamente confutata da una "piccola valanga" di studiosi (cfr. Anderson, 2010: xiii) i quali hanno dimostrato l'esistenza di organizzazioni di massa anarcosindacaliste e sindacaliste rivoluzionarie nei Caraibi, in America Latina ed in parti dell'Europa, in paesi molto diversi come l'Argentina, la Bolivia, Francia, Cuba, il Perù, il Portogallo, i Paesi Bassi al pari di paesi con movimenti sindacali molto forti come il Regno Unito, la Cechia, l'Ungheria, l'Italia, il Giappone e la Russia, in cui hanno lasciato una forte impronta sulla cultura popolare e sindacale. Nei paesi coloniali e post-coloniali, tra cui la Bolivia, l'Egitto ed il Sud Africa, queste organizzazioni di massa hanno svolto un ruolo importante nelle lotte contro l'imperalismo e contro l'oppressione nazionalista; sono state pioniere del sindacalismo in paesi molto diversi come la Cina, l'Egitto, la Malesia ed il Messico. I sindacati rivoluzionari sono stati protagonisti nelle più famose insurrezioni e rivolte, come in Messico nel 1916, in Italia nel 1913 e nel 1920, in Portogallo e Brasile nel 1918, in Argentina nel 1919 e nel 1922, ed in Spagna nel 1909, 1917, e nel 1932-33.
Ma la storia di questi movimenti non finisce nel 1914 o nel 1917: molti movimenti e tendenze "sindacaliste rivoluzionarie" raggiunsero l'apice negli anni '20 e negli anni '30, come in Perù e Polonia, mentre altri sono sopravissuti negli anni successivi - ma a volte con notevole ridimensionamento- come nella Francia post-bellica (cfr. Damier, 2009: 193) ed in Cile. Ad esempio, la tendenza "sindacalista rivoluzionaria" continuò ad avere influenza nei sindacati in Argentina, Brasile, Bolivia, Cile e Cuba negli anni '60, così come in Uruguay tra i lavoratori e gli studenti negli anni '70 (cfr. Mechoso, 2002), fino ad avere una rinascita di massa nella Spagna degli anni '70 e primi anni '80; altri esempi di rilievo sono rinvenibili nella guerriglia degli anarchici dello Chu Cha-pei nello Yunan, in Cina, contro il regime maoista negli anni '50 (cfr. intervista a H. L. Wei in Avrich, 1995: 214 et seq.). Le rivolte degli anni '60 e la Nuova Sinistra, l'era del dopo-Muro di Berlino ed oggi i movimenti Occupy (per il ruolo degli anarchici in Occupy Wall Street: vedi Bray, 2013) ed i sindacati conflittuali (cfr. Ness, 2014) sono stati e sono tutti vettori per una nuova crescita ed influenza dell'anarchismo e del "sindacalismo rivoluzionario".
Trasformazione dal basso: il sindacalismo come rivoluzione
Per quanto riguarda la seconda questione, cioè fino a che punto il "sindacalismo rivoluzionario" sia riuscito a realizzare i suoi obiettivi immediati e quelli storici, vi è oggi una fiorente letteratura che in generale sostiene come le formazioni "sindacaliste rivoluzionarie" abbiano avuto generalmente un ruolo decisivo nella promozione di movimenti di opposizione di classe, nell'organizzazione di durevoli movimenti con un programma pragmatico ma anche con basi teoriche e prassi democratica, nella conquista di reali miglioramenti economici, politici e sociali ed infine nell'aprire spazi per l'elaborazione di alternative radicali a favore della dignità umana. "Inseriti nei grandi movimenti popolari e di controcultura, collegati ad altre istituzioni popolari e democratiche, attivi anche in ambiti al di là del luogo di lavoro, protagonisti nelle lotte sul territorio, cuore di un progetto di controcultura rivoluzionaria anche con la diffusione di giornali quotidiani o settimanali di grande diffusione, i sindacati storicamente rivoluzionari erano movimenti sociali che non hanno mai ridotto la classe lavoratrice a meri salariati o limitato le aspirazioni della classe lavoratrice solo al salario" (cfr. van der Walt and Schmidt, 2009: 21).
Contropotere e controcultura: la CNT in Spagna
Come si fa allora a passare dalla prefigurazione alla realizzazione, dal contropotere alla presa del potere, dalla preparazione rivoluzionaria alla rivoluzione? Esistono una serie di importanti esempi di positiva e concreta realizzazione di un programma anarchico e/o "sindacalista rivoluzionario", come in Macedonia, Messico, Ucraina e Manciuria. Ma l'esempio in cui i sindacati rivoluzionari hanno avuto il ruolo più importante rimane quello della Rivoluzione Spagnola del 1936-1939.
All'epoca la più importante federazione sindacale in Spagna era la CNT con 2 milioni di iscritti su una popolazione di 24 milioni: se teniamo le proporzioni e le trasportiamo nel più popoloso Sud Africa di oggi, la CNT avrebbe 4 milioni di iscritti, cioè il doppio del COSATU. La CNT era presente in ampi settori della società, con una presenza più consistente nella regione industriale della Catalogna, ma aveva anche una presenza nelle zone rurali e importanti punti di forza ovunque nel paese (sulla CNT e sulla Rivoluzione, vedi tra gli altri Ackelsberg, 1985; Ackelsberg, 1993; Amsden, 1978; Bosch, 2001; una panoramica in Hattingh, 2011; resoconti di contemporanei e fonti orali in Dolgoff 1974; Fraser, 1979).
La CNT era forte ma dal basso verso l'alto, ben organizzata ma decentralizzata e molto, molto militante. La sua struttura sindacale era relativamente minima, con un ridotto numero di funzionari a tempo pieno, con un processo decisionale basato sugli iscritti locali tramite regolari assemblee generali e delegati con mandato, più o meno equivalenti ai rappresentanti sindacali di oggi. In termini di lotte, la CNT poneva l'accento sull'azione diretta piuttosto che sul contenzioso giudiziario e sull'arbitrato o sulla politica parlamentare, promuovendo così nei lavoratori fiducia in se stessi, auto-riconoscimento ed attività auto-diretta.
Le attività della CNT erano ambiziose e di ampio respiro. La sua è una storia di scioperi generali e parziali, di adesione attiva a scioperi per gli affitti e ad altre proteste; aveva cellule di iscritti dentro le forze armate; ed aveva una enorme presenza in molti quartieri operai, dove gestiva centri che funzionavano come spazi di incontro, per attività di classe e culturali; era strettamente collegata alla gioventù anarchica come ai gruppi di donne e di propaganda. Inoltre la CNT pubblicava e diffondeva in grandi numeri libri ed opuscoli: nel 1938, stampava più di 40 pubblicazioni tra giornali e riviste, tra cui agenzie di informazioni quotidiane a circolazione di massa (cfr. Rocker, [1938] 1989: 146), ed infine aveva una stazione radio.
Insomma, la CNT aveva un enorme impatto sulla coscienza della classe operaia e contadina, propagandando la rivoluzione quale controllo diretto della società nelle mani della classe operaia e contadina, con l'autogestione dei luoghi di lavoro tramite le strutture della CNT. I militanti più radicali della CNT si erano organizzati nella semi-clandestina Federazione Anarchica Iberica (FAI): non si trattava di un partito parlamentare o di una avanguardia di stampo leninista; la FAI forte di 30.000 militanti era una organizzazione politica anarchica che puntava a sostenere il progetto della CNT e la lotta rivoluzionaria. Vale la pena notare infine che la CNT e la FAI sopravanzavano alla grande il Partito Comunista Spagnolo che faceva fatica a raggiungere i 10.000 iscritti.
La Rivoluzione Spagnola, 1936-1939: resistenza, occupazione, produzione
Nel luglio 1936, ci fu un tentativo di golpe militare, sostenuto dai settori più conservatori della classe dominante. I militanti della CNT in armi fermarono il golpe nella maggior parte del paese; reparti delle forze armate passarono con la CNT, così come fecero i sindacati moderati. Una consistente milizia della CNT, di circa 120.000 combattenti, era alla difesa di gran parte del paese.
Nelle città, le strutture della CNT rapidamente si impadronirono di gran parte delle industrie. In Catalogna, gli operai in poche ore presero il controllo di 3000 imprese: trasporti, settore nautico, centrali elettriche, del gas ed acquedotti, impianti automobilistici ed ingegneristici, miniere, cementifici, fabbriche tessili e della carta, infrastrutture elettriche e chimiche, fabbriche di bottiglie in vetro e profumi, industrie alimentari e birrerie. La maggior parte di queste aziende vennero messe in autogestione sotto diretto controllo operaio, tramite assemblee e consigli di fabbrica. Laddove gli imprenditori rimasero al loro posto, dovevano fare da consulenti alle commissioni di controllo operaio o diventarne parte, nel qual caso venivano retribuiti col medesimo salario degli altri, in un contesto di assunzione democratica delle decisioni. Le strutture di controllo operaio provenivano direttamente dalle strutture della CNT: in poche parole le assemblee della CNT gestivano le fabbriche, ed i consigli dei "delegati" agivano come comitati di controllo. Poi le fabbriche vennero federate, innanzitutto su base industriale e poi su base regionale; per cui ad esempio, il sindacato metalmeccanico della CNT aveva il compito di coordinare l'industria metalmeccanica, e tramite la CNT, coordinare questa con le altre industrie.
La CNT ebbe un grande impatto, in quel periodo, sulla struttura di base dei rivali sindacati socialdemocratici, come l'Unión General del Trabajo (UGT), che venne coinvolta nelle collettivizzazioni di massa, specialmente nelle campagne; in diversi casi, nacquero collettivi unitari CNT-UGT. Nelle campagne, quasi 2/3 delle aziende furono coinvolte in varie forme di collettivizzazioni dal basso: si stima che da 5 a 7 milioni di persone vi fossero coinvolte, oltre ai 2 milioni coinvolte nelle collettivizzazioni di città.
Non si trattava di nazionalizzazione della produzione, governata dallo Stato, né si trattava di privatizzazioni, bensì di collettivizzazione, le cui radici si erano consolidate in decenni di preparazione. Il periodo rivoluzionario portò dei cambiamenti sostanziali in molte sfere della vita quotidiana. Il reddito, all'interno delle collettivizzazioni, venne sganciato dalla proprietà, ed in gran parte anche dall'occupazione: nelle aree urbane in particolare le persone percepivano una "paga" sulla base dei bisogni familiari; in molte aree rurali, il denaro venne completamente abolito. Era possibile divorziare e le sedi della CNT ospitavano a volte i matrimoni rivoluzionari. Contemporaneamente Mujeres Libres, alleata della CNT, portava avanti l'istruzione e campagne di mobilitazione tra le donne.
C'era uno sforzo generale per ristrutturare il lavoro, per renderlo più piacevole, più salutare e meno stressante: ad esempio impianti piccoli ed insalubri vennero sostituiti con impianti più grandi e più salubri, che erano sia più economici sia più salutari. Venne dato lavoro ai disoccupati, con un crollo del numero dei senza lavoro a fronte di un decremento delle ore di lavoro e di un aumento della produzione. Va precisato che le aziende collettivizzate non erano di "proprietà" dei lavoratori, ma erano solo gestite da essi; i lavoratori non potevano venderle né darle in affitto. Ad averne la proprietà era la grande rete di collettivi, scaturita dalla CNT; i cambiamenti si potevano fare solo tramite i congressi e le conferenze della Confederazione.
Il progetto rivoluzionario, però, non si ampliò per una serie di ragioni. Una mito che andrebbe subito confutato è quello per cui la CNT e la FAI non avevano un piano concreto di ricostruzione della società o di difesa della società rivoluzionaria con forze militari coordinate. La CNT aveva organizzato una serie di insurrezioni militari agli inizi degli anni '30 ed aveva sviluppato una struttura militare clandestina coordinata tramite comitati di difesa su base locale, regionale ed infine nazionale; nel congresso della CNT del 1936 venne riaffermata -in caso di rivoluzione- la necessità di un'azione militare coordinata, basata sui sindacati (per il programma della CNT nel 1936: CNT [May 1, 1936] n.d.; per una consistente critica della pretesa per cui la CNT non disponesse di un programma concreto e nemmeno di una prospettiva militare, vedi Van der Walt, 2011: 195-197). Le milizie della CNT costituite nel 1936 nacquero direttamente della iniziale CNT militare (cfr. Guillamón, 2014), proprio come i collettivi della CNT provenivano direttamente dalle sezioni sindacali della CNT.
Innanzitutto e soprattutto, la rivoluzione si bloccò in seguito ad una decisione tattica presa alla fine del 1936 per formare un ampio blocco antifascista contro i militari golpisti (non ancora sconfitti). Vennero compiuti passi significativi per la pianificazione dell'economia dal basso, ma questi si fermarono a livello locale; la collettivizzazione del settore finanziario abortì; gli alleati della CNT nel Fronte Popolare sabotarono le collettivizzazioni, distruggendo lentamente la Rivoluzione e demotivando lo spirito rivoluzionario che aveva fermato il golpe del 1936; alla fine, il Fronte Popolare, senza il "sindacalismo rivoluzionario" della CNT e senza l'anarchismo, venne esso stesso sconfitto dai golpisti del 1936, i quali diedero poi inizio a 4 decenni di dittatura e repressione.
Alcune conclusioni
Detto questo, non si vuole qui presentare la CNT come l'emblema della perfezione, quanto mettere in evidenza, piuttosto, una parte centrale nella storia costruttiva del "sindacalismo rivoluzionario"; in cui viene dimostrato che l'industria e l'agricoltura potrebbero effettivamente essere gestiti senza la motivazione del profitto e senza gerarchie burocratiche, e che la classe lavoratrice, se ispirata da un grande ideale, può rifare il mondo.
Certo, è possibile provare che la CNT non fu esente da pecche; si devono trarre le necessarie lezioni critiche dalla sua storia; tuttavia, sarebbe un errore rimuovere il possibile contributo che questa ed altre esperienze "sindacaliste rivoluzionarie" potrebbero dare alle sfide che si pongono oggi al mondo sindacale. Il "sindacalismo rivoluzionario" ha storicamente svolto un ruolo molto importante nella storia del movimento operaio, non solo in Spagna, ma in tanti altri luoghi; è una tradizione che porta con sé una analisi rigorosa, poiché "richiamarsi all'anarchismo" e all'anarco-sindacalismo, "che il marxismo-leninismo aveva soppresso" significa -come sostiene Arif Dirlik nel suo studio sul movimento cinese, ripensare il vero significato e le possibilità della tradizione della sinistra e "richiamare quegli ideali democratici per cui l'anarchismo....si rivela essere un giacimento" (1991: 3-4, anche pp. 7-8).
Questo giacimento anarchico e "sindacalista rivoluzionario" è tale da stimolare approfondimenti, non certo come rimedio a tutte le difficoltà, ma come base per una riflessione ed un rinnovamento nei movimenti sindacali e negli studi collegati. Nel confrontarsi con le sfide oggi di fronte ai sindacati, c'è senz'altro un guadagno che ci viene dall'ampliare la nostra comprensione della storia delle tradizioni del movimento sindacale. Per gli studiosi del mondo sindacale e della sociologia del lavoro vi è, anche, la necessità di mostrare maggiore attenzione a questa tradizione dell'anarco-sindacalismo e del sindacalismo rivoluzionario, sia nel lavoro teorico quanto nella comprensione del suo passato, presente e possibile futuro.
Lucien van der Walt
Originale in inglese: "Reclaiming Syndicalism: From Spain to South Africa to Global Labour Today", Global Labour Journal: Vol. 5: Iss. 2, p. 239-252. Online a: http://digitalcommons.mcmaster.ca/globallabour/vol5/iss2/10
Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali.
Nota:
1. Il tanto decantato sistema sanitario cubano è infatti profondamente segmentato: le statistiche ufficiali, i resoconti dei turisti e settori dell'elite tendono ad oscurare le gravi iniquità e le inefficienze che la maggior parte dei cubani sperimenta ogni giorno (cfr. Hirschfeld, 2001). E' ben documentata anche la repressione contro i medici dissidenti (cfr. Reiner, 1998).
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NOTA BIOGRAFICA
LUCIEN VAN DER WALT è docente di Sociologia Economica ed Industriale alla Rhodes University, a Grahamstown, in Sud Africa. Ha pubblicato molte opere sulla storia del sindacato e della sinistra, testi di economia politica, sull'anarchismo e sul sindacalismo rivoluzionario. Svolge attività di formazione per il sindacato e la classe lavoratrice. [email: l.vanderwalt at ru.ac.za]
Citazione preferita: van der Walt, Lucien (2014) "Reclaiming Syndicalism: From Spain to South Africa to Global Labour Today," Global Labour Journal: Vol. 5: Iss. 2, p. 239-252. Disponibile nell'originale inglese a: http://digitalcommons.mcmaster.ca/globallabour/vol5/iss2/10