Per un sindacato di classe autogestito
Per l'unità internazionale dei lavoratori
Per la liberazione dal lavoro
Appello dei lavoratori anarchici nella CGIL
L’ultimo decennio ha visto il padronato e il capitale finanziario all’attacco del movimento operaio ed è stato segnato da una profonda ristrutturazione produttiva accompagnata dall’affermazione dei valori propri del capitalismo. Il mutamento delle condizioni di vita e di lavoro ha infranto la solidarietà di classe, ha riacquistato valore la “professionalità” a scapito del valore sociale del salario; la logica del profitto di impresa si è trasferita nei rapporti sociali, alimentando la spinta alla ricerca individualistica di migliori condizioni di vita. Ne è seguito lo smantellamento dello stato sociale, perseguito attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici, al quale corrisponde un aumento dei costi dei servizi e la caduta della loro qualità.
In compenso dal 1980 ad oggi i profitti sono cresciuti a scapito del salario.
Quello che è mancato ai lavoratori è la capacità di contrapporre una strategia in grado di coniugare unità e solidarietà di classe. I lavoratori non sono stati in grado di porsi come soggetto politico autonomo capace di aggregare alleanze sufficientemente ampie da ribaltare i rapporti di forza.
Una grande parte di questi fallimenti è ascrivibile ai sindacati lottizzati dalle componenti di partito, da un apparato sempre più burocratizzato, diviso e distante dai bisogni dei lavoratori. E in effetti, in questi ultimi dieci anni, i vertici sindacali hanno distrutto con metodicità la democrazia interna al sindacato, introdotta dalle lotte del decennio precedente, scardinando tutto gli strumenti di controllo e di autonomia che i lavoratori si erano dati negli anni ’70.
L’esperienza della FLM come superamento delle singole organizzazioni sindacali, espressione di unitarietà di classe, i Consigli di Fabbrica e dei Delegati, eletti su scheda bianca ed espressione reale dei lavoratori, vivevano e sviluppavano grazie all’esistenza sul piano strutturale di istituti egualitari, quali l’abolizione delle gabbie salariali, il punto unico di contingenza, l’inquadramento unico, il restringimento delle forbici retributive dei salari. L’esistenza di questo rapporto tra strumenti di democrazia diretta e struttura del salario testimonia la grande capacità dei lavoratori di porsi come movimento portatore di valori alternativi a quelli della controparte padronale, oltre che come interlocutore per settori più larghi rispetto alle stesso mondo del lavoro, quali i giovani e gli stessi disoccupati. Il movimento operaio aveva in questo modo costruito la sua forza politica.
Ma di fronte alla inevitabile controffensiva padronale, incentrata sul decentramento produttivo e la parcellizzazione della grande fabbrica, sulla introduzione di nuove tecnologie e l’espulsione di manodopera, sulla scomposizione gerarchica dei livelli di inquadramento professionale, sulla diversificazione salariale, sulla riconquista della piena discrezionalità e controllo sulla forza lavoro, sulla creazione di reparti – confino, i lavoratori si sono trovati senza l’aiuto delle proprie organizzazioni sindacali.
Queste, nei loro vertici e conseguentemente negli apparati, si sono dimostrate sostenitrici convinte delle politiche padronali. L’ideologia della centralità d’impresa e del profitto sono diventati parametri e obiettivi delle OOSS. Da soggetto politico autonomo nei confronti del padronato, il sindacato è divenuto protagonista di politiche consociative.
Questa scelta ha comportato l’accettazione della “politica dei due tempi”. Già con la piattaforma dell’EUR (1978) il sindacato cedette sul salario in cambio di impegni mai attuati sugli investimenti e l’occupazione. Seguirono piattaforme rivendicative rispettose delle compatibilità e dei tetti programmati di inflazione (governo Spadolini e accordo Scotti sulla Scala Mobile – 1982) per giungere, dopo la sconfitta del referendum sulla scala mobile (1985) ad una vera e propria “Caporetto” sindacale, introducendo il cuneo dell’attuale corporativizzazione del mondo del lavoro: la “professionalità” in antitesi alla gestione egualitaria degli aumenti retributivi, con il doppio effetto di scaricare per questa via su piani individuali il malcontento per le mancate lotte sul salario, con la crescita delle divisioni e la sconfitta della solidarietà di classe. Da qui a spacciare per grandi vittorie l’introduzione di forme precarie di lavoro, l’uso a questo fine del part-time, dei contratti di formazione lavoro, dei contratti a termine, la riduzione d eliminazione delle chiamate numeriche tramite il collocamento, il passo è stato breve.
Tutto ciò ha contribuito oltre misura al mutamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, alla ulteriore frammentazione e divisione del movimento operaio. E’ da queste premesse strutturali, e non certo dall’egoismo dei settori più protetti del mondo del lavoro, che nasce e prende forza il cosiddetto “fenomeno cobas”, sviluppando un’esperienza proficua anche se densa di contraddizioni.
L’attuale dibattito interno della CGIL, in vista del suo Congresso, conferma la volontà del suo gruppo dirigente di perpetuare politiche e scelte che si caratterizzano per la subalternità alla logica padronale.
Il cosiddetto “sindacato dei diritti” – formula scelta a Cianciano dal gruppo dirigente CGIL – sposa in pieno la centralità dell’impresa. I “limiti” ed i “vincoli” che il sindacato dei diritti si pone sono ancora le compatibilità e il mercato. La competitività del sistema delle imprese diventa perno della riflessione sindacale: salario e orario restano ancora delle variabili dipendenti. Le forme di lavoro quali i contratti di formazione lavoro, il part-time, ecc., che solo costoro si ostinano a non riconoscere come forme di supersfruttamento e di divisione della classe, vengono assunte come valori positivi da esaltare e generalizzare in una quanto mai improbabile “politica dei lavori”.
La logica del profitto viene introdotta negli stessi servizi pubblici. La filosofia del più mercato – meno Stato è fatta propria dai gruppi dirigenti sindacali. On si riconosce più la necessità e l’obbligatorietà di servizi sociali, comunque garantiti e finanziati dallo Stato attraverso l’imposizione fiscale, ma la mercificazione si introduce anche nei settori dell’assistenza sanitaria, nell’istruzione, nei trasporti. Per ignoranza e malafede si scambia delegificazione e privatizzazione e la CGIL chiede la trasformazione dei rapporti di lavoro di pubblico impiego in rapporto di tipo privatistico nei servizi.
Quale democrazia per quale sindacato
E’ evidente che tale sindacato, più attento alle compatibilità del sistema che alle condizioni di vita dei lavoratori, non può avere al proprio interno metodologie e prassi democratiche. Il gran parlare di democrazia sindacale e per ultimo la proposta Trentin di scioglimento della corrente comunista, appaiono più operazioni politiche interne al travaglio ideologico del PCI, che non scelte dettate dalla necessità di democratizzazione della vita sindacale.
Da sempre, come militanti della lotta di classe ci battiamo nel sindacato contro logica spartitoria delle cariche nelle strutture dirigenti e lottiamo perché vi sia una verifica costante dell’operato dei dirigenti e dei funzionari da parte dei lavoratori, sottraendo ai partiti il controllo della politica della CGIL. Questa battaglia veniva dipinta come estremista se non addirittura priva di significato, e si scontrava con un vero e proprio atteggiamento di omertà nei confronti dell’esistenza delle componenti. Oggi, con una faccia di bronzo tipica di tutti gli opportunisti, si dice che tale gestione ha ingessato la dinamica politica e la dialettica sindacale, ha mortificato la democrazia interna, ha impedito ai lavoratori di contare realmente.
In realtà, dietro la proposta di superamento delle correnti si cela, e nemmeno tanto, un progetto ben più pericoloso e autoritario della situazione attuale. Si vuole definire una nuova maggioranza che abbia come riferimento non i lavoratori ma il sistema delle imprese e il mercato; il confronto sul programma, su cui definire maggioranze e minoranze, segna quindi l’abbandono definitivo del punto di vista di classe. "Il 'socialismo', l’emancipazione del lavoro…non sono più il punto di partenza, il dato acquisito dal quale muovere" proclama Trentin su Rassegna Sindacale n° 38 del 15 ottobre 1990. L’impresa, il profitto, il mercato saranno ancor più gli assi su cui costruire le politiche rivendicative. Nessuno spazio, quindi, per chi ancora crede, come noi, che il conflitto sociale sia strumento di emancipazione e progresso delle condizioni di vita dei lavoratori, per chi vuole mantenere aperta una prospettiva di cambiamento e superamento dell’attuale sistema economico-politico.
In questa logica, il superamento delle componenti non è affatto garanzia di maggior democrazia.
Un sindacato che accetta la centralità dell’impresa, un sindacato delle compatibilità e della cogestione, un sindacato che si fa carico della produttività accettando la logica della conquista dei mercati, un sindacato che accetta valori e obiettivi della controparte, non può che avere una grande struttura burocratica. In questo tipo di sindacato il peso maggiore lo avranno ancor più i funzionari legati ai partiti e non ai lavoratori.
Contro la legge sulla regolamentazione del diritto di sciopero
Funzionale a queste scelte è la legge per la limitazione del diritto di sciopero che valorizza la preventiva concertazione a scapito della conflittualità. E’ questa una legge fortemente limitativa dell’autonomia di classe, imposta ai lavoratori dai vertici sindacali, dal padronato e dal Governo.
Essa è la risultante di un sindacato sempre più istituzione e sempre meno espressione dei bisogni dei lavoratori. Il conflitto di classe viene rigidamente regolamentato, sottratto al controllo dei lavoratori. La rinuncia al diritto di sciopero nei pubblici servizi è l’anticamera di una regolamentazione per legge di tale diritto anche nelle aziende. Anche se momentaneamente il dibattito sembra essere cessato, l’iniziativa per un’abrogazione di questa legge e per la sua disapplicazione di fatto, deve essere una costante della nostra azione sindacale. La necessità del sindacato di tutelare nei servizi l’utenza deve necessariamente passare per la capacità politica di promuovere la comprensione fra utenti e lavoratori sui motivi che rendono necessaria la lotta nel settore e non essere risolta autoritariamente attraverso una legge dello Stato.
Per un sindacato di classe
Siamo convinti che per una ripresa dell’antagonismo di classe, per far rinascere il sindacato di classe, occorre partire dai bisogni reali dei lavoratori
Ripresa delle lotte salariali
La lotta sul salario va ripresa e rilanciata. I dati sull’andamento dell’economia non solo confermano il vantaggio accumulato da parte del profitto sui redditi, ma questa stagione contrattuale ha finalmente fatto scoprire a chi non voglia essere volontariamente cieco o in malafede, che le paghe operaie (figure niente affatto scomparse) sono ancora oggi intorno al “milione e due” e quindi del tutto insufficienti in relazione al costo della vita.
Va tuttavia contrastata la tendenza a concedere aumenti retributivi “ad personam” o legarli alla produttività e all’andamento del mercato. Queste scelte favoriscono un’ulteriore frammentazione dei lavoratori, dando così maggiore potere al padronato nel governo della forza lavoro. L’aumento del salario accessorio o le forme così dette di “gainsharing”, sempre più in uso, vanno rifiutate.
E’ necessario aprire una nuova stagione di rivendicazioni egualitarie per contrattare la babele di voci e condizioni normative in cui i lavoratori si trovano. Forti aumenti egualitari quindi e sulle voci pensionabili, una politica salariale legata da un forte principio di solidarietà.
Forte riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e superamento delle forme precarie di lavoro
All’introduzione inevitabile di nuova tecnologia che genera espulsione di manodopera, deve accompagnarsi la battaglia per la riduzione d’orario di lavoro come strumento irrinunciabile per difendere l’occupazione e migliorare le condizioni di vita.
L’orario di lavoro in questi dieci anni è aumentato con il ricorso di fatto obbligato allo straordinario per sopperire all’insufficienza del salario. Pertanto bisogna legare la battaglia delle riduzione di orario a forti aumenti retributivi, perché essa sia credibile e vincente.
Part-time, flessibilità dell’orario, job sharing, contratti di formazione lavoro, contratti a termine, sono tutte forme di supersfruttamento e di divisione dei lavoratori. Oltre a garantire manodopera sfruttata e sottopagata, e quindi scarsamente sindacalizzabile, esse permettono un maggior profitto ai padroni, facendone ricadere gli oneri sociali sulla collettività.
Difesa dei servizi pubblici contro la privatizzazione
Si tratta di difendere il concetto della socialità che i servizi pubblici sottendono. Non si possono far ricadere sui lavoratori le cause dell’inefficienza anche perché non sono i lavoratori a decidere e a determinare gli standards di funzionamento. Responsabile delle sfascio è la politica governativa che privilegia le proprie clientele economiche ed elettorali, non garantendo la fruizione dei servizi. Ad essere penalizzati sono sempre i lavoratori che oltre a non avere strutture pubbliche efficienti, non possono permettersi di accedere alle strutture private. Quello che sta avvenendo nella sanità come nell’istruzione è emblematico; migliori ospedali e titoli di studio più elevati a chi può permetterselo.
Per la democrazia nel sindacato di classe
L’unica reale possibilità per una vera democrazia sindacale è il rilancio in tutti i luoghi di lavoro dei Consigli di Fabbrica e dei Delegati, riconoscendo a queste strutture la titolarità della contrattazione. Tutti elettori e tutti eleggibili, nessuna nomina da parte delle OO.SS. Nessuna organizzazione sindacale deve pesare di più rispetto alla sua rappresentatività reale.
Occorre puntare a coordinamenti territoriali di tutti i Consigli di Fabbrica e dei Delegati in grado di recepire le istanze della fabbrica e di ciò che la circonda, di raccordare i lavoratori la cui distinzione categoriali è sempre più nominalistica e sempre meno legata alla specificità della prestazione lavorativa.
Ogni organizzazione sindacale, così come qualsiasi aggregazione e coalizione dei lavoratori, deve avere la possibilità di esprimersi liberamente nei luoghi di lavoro. L’agibilità deve essere in rapporto alla proporzionalità dell’adesione e alle risultanze delle elezioni dei Consigli di Fabbrica e dei delegati.
Le piattaforme, così come gli accordi, devono essere sottoposti all’approvazione in assemblea di tutti i lavoratori.
Nessuna legge di sostegno alle rappresentanze sindacali può essere vista in questa fase come positiva. Le leggi costituiscono sempre la cristallizzazione dei rapporti di forza e oggi qualsiasi legge rappresenterebbe un vincolo e un limite maggiore ad una possibile ripresa dell’antagonismo e protagonismo sociale.
Le leggi di sostegno al sindacato sono strumento della sua istituzionalizzazione.
Per l’internazionalismo proletario
L’attacco padronale, che si colloca nel quadro generale della ristrutturazione capitalistica, deve essere letto come fenomeno internazionale. L’internazionalizzazione dei processi produttivi impone l’esigenza di far crescere una nuova internazionale dei lavoratori. Tale unità internazionale è essenziale poiché da essa dipende la capacità dei lavoratori di contrastare l’offensiva internazionale del capitalismo all’interno delle metropoli, permettendo così ai popoli del terzo mondo una reale possibilità di riscatto.
I sindacalisti libertari rivendicano il loro ruolo di forza di classe nella ricostruzione della CGIL nel secondo dopoguerra, quando caratterizzarono la loro presenza nella riorganizzazione del movimento operaio, con i medesimi obiettivi che oggi essi ripropongono a tutti i lavoratori, per rifondare un sindacato autogestito e di classe che superi ogni compatibilità con il sistema capitalistico per la difesa degli interessi dei lavoratori, per la loro organizzazione internazionale, per la liberazione dal lavoro.
Si rivolgono oggi ai compagni che come loro lavorano nel sindacato sulle linee espresse da questo documento affinché lo sottoscrivano e lo diffondano.
Dicembre 1990
Angeli Giulio (Lucca), Direttivo Regionale
FILT della Toscana
Cimbalo Gianni (Firenze), Direttivo Nazionale SNU
Craparo Saverio (Firenze), Direttivo Nazionale SNS
Gritta Maurizio (Cremona), Direttivo Comprensoriale Federbraccianti di
Cremona
Lucchesi Roberto (Lucca), Direttivo Comprensoriale FP di Lucca
Oldani Giuseppe (Cremona), Direttivo Comprensoriale FNLE di Cremona
Paganini Enrico (Firenze), Consiglio di Fabbrica SIO, Fed. Chimici
Petrone Rocco (Prato), delegato Uffici Doganali Prato e Firenze
Quaglia Stefano (Firenze), Delegato FP
Restifo Claudio (Livorno), Direttivo Comprensoriale FP di Livorno
Romito Donato (Pesaro), Direttivo Comprensoriale SNS di Pesaro Urbino
Salvadori Mario (Lucca), Direttivo Comprensoriale FILT di Lucca
Schiavone Lele (Livorno), Delegato FILT
Valente Carmine (Livorno), Direttivo Regionale FP della Toscana
Valente Cristiano (Livorno), Delegato FILT di Livorno
Zanella Adelina (Pordenone), Delegata FP – San Vito al Tagliamento