SULL’APPELLO AGLI ATTIVISTI SINDACALI ANARCHICI E LIBERTARI PER UNA PIATTAFORMA DEL SINDACALISMO CONFLITTUALE DI CLASSE A PRASSI LIBERTARIA - discussione aperta a tutti i contributi

I CONTRIBUTI (che senza indicazione contraria si intendono personali) VANNO INVIATI A fdca@fdca.it

Pippo Gurrieri  FLTU-CUB Ragusa  01/01/01 , Cosimo Scarinzi, CUB Torino 07/01/01
Saverio Craparo CGIL Scuola, Firenze (in risposta al compagno  Gurrieri) 10/01/01, Enrico Ranieri ASBEL/CN0, Roma (26/01/01) Roberto e Carlo, Modena (01/02/01), Tiziano Antonelli (03/02/01)


Devo innanzitutto chiarire che la proposta contenuta nell’Appello per una piattaforma, ecc, mi trova d’accordo in quanto l’esigenza di un maggiore e più stretto coordinamento tra i compagni anarchici e libertari attivi nel sindacalismo conflittuale, è reale, e abbisogna di un percorso che cominci a sbloccarla da suo senso astratto per renderla operativa e reale. Detto questo la mia impressione in merito all’appello è che ci si è trovati di fronte a un qualcosa di prestabilito, (compreso data e luogo del convegno), quando ancora vi erano una quindicina di adesioni, tutte, tra l’altro, di compagni che potremmo considerare anche promotori, il che ha tolto potenzialità e interesse all’appello stesso, provocando l’emergere dei distinguo e prese di distanza.

Se la pretesa dell’appello è quella di coinvolgere il grande numero dei compagni attivi nell’arcipelago sindacale, è stata una mossa sbagliata prefissare una data, senza considerare, tra l’altro, le esigenze di tutti i compagni, ed in modo particolare di quelli del Sud e del profondo Sud, mortificati dall’esigenza di tre giorni liberi occorrenti per spostarsi, rispetto alla media di tre ore della maggior parte degli altri compagni.

Nel merito dell’appello. Esso contiene un’analisi del contesto socio-economico abbastanza condivisibile, senz’altro espressa per grandi linee, in cui si nota la vistosa mancanza di una citazione della situazione estrema in cui si dibattono fette di popolazione sempre più stritolate dal sistema, protagoniste di lotte anche spontanee, per uscire dalla disperante disoccupazione o dal precariato nelle sue varie sfaccettature; questo è forse legato all’analisi generalizzante fatta, cui sfuggono le sfaccettature molto marcate che nel meridione esistono e caratterizzano sia le organizzazioni sindacali di base che le stesse lotte.

Vi è un evidente tentativo di affievolire le degenerazioni irrimediabili del sindacalismo riformista e istituzionalizzato di CGIL CISL e UIL, ma soprattutto della prima; si scrive infatti che il sindacato confederale "non ha saputo opporsi" sottintendendo che comunque avrebbe voluto farlo, quando i compagni sanno che le cose non stanno così, e che il sindacalismo riformista ha governato la fase economica in atto, cosa che fa da qualche decennio. Quindi l’idea che i lavoratori si fanno di questo sindacato non è senz’altro negativa se è un’idea basata sulla constatazione del suo ruolo e della sua irrecuperabilità a logiche di difesa degli interessi di classe.

In questo senso, tali tentennamenti e ambiguità danno un senso di arretratezza all’appello: vi sono strutture di base, quindi lavoratori, che da 30/25 anni hanno affrontato e risolto questo problema, praticando forme di lotta e organizzazione alternative al sindacalismo triplicino. Io posso dirlo senz’altro per quanto riguarda la categoria dei ferrovieri cui appartengo, perché molto prima della FLTU-CUB, prima dello stesso COMU, gli organismi di base alternativi ai sindacati di potere, esistevano e muovevano alcune centinaia di lavoratori.

Non ritengo che vadano applicati all’arcipelago dei "Cobas" gli stessi criteri che si applicano ai sindacati ufficiali, soprattutto quando si parla di unità: i cobas, nella loro grande frammentazione organizzativa, rappresentano l’unico percorso possibile in questa fase, per la riacquisizione di una dignità di classe, e una grande risorsa, proprio per la ricchezza delle esperienze, messa a disposizione del proletariato, che nella pratica ha dimostrato di non essere attaccato alle sigle come certi personaggi ex-gruppettari oggi a capo delle varie organizzazioni. Questo è dimostrato ogni qual volta, nella scuola o nei trasporti, nelle industrie o tra i precari, si organizzano lotte unitarie. L’unico parametro unitario possibile è quello dei contenuti delle lotte; esso potrà provocare accorpamenti e aggregazioni tra sigle, anche se sono convinto che solo la durezza dello scontro sociale riuscirà a semplificare il quadro.

Il ruolo dei militanti sindacalisti anarchici e libertari non può essere, pertanto, quello di cercare cuciture tra sigle, piattaforme intercobas tendenti all’unità o improbabili correnti libertarie, quanto quello di lavorare ai contenuti di una battaglia che deve riuscire ad accelerare i termini di uno scontro con il potere ancora lontano dalle possibilità di materializzarsi. Gli anarchici e libertari, è vero, come dite vero, lavorano senza guardare alle sigle: io però farei un distinguo perché alcune sigle, come quella della CGIL, andrebbero invece guardate: è un’ambiguità che i compagni che la vivere devono cercare di sciogliere al più presto.

Pippo Gurrieri


Torino, 7 gennaio 2001

Cari compagni,

come ho già detto a quelli di voi con i quali ho avuto modo di parlare, guardo con simpatia ad ogni tentativo di aggregazione e di confronto dei militanti libertari impegnati in campo sindacale e, di conseguenza, anche a quello che avete avviato. Quindi, pur non ritenendo di firmare l’appello per le ragioni che indicherò più avanti, conto di partecipare al convegno.

Non insisto sulle ragioni, che ritengo evidenti, che militano a favore uno sforzo unitario sul terreno sindacale. Nemmeno ritengo necessario tornare su quanto condivido di ciò che scrivete nell’appello.

Mi limito a segnalarvi alcuni dei dubbi che l’appello mi ha suscitato nella speranza che se ne possa discutere più distesamente:

  1. quando si tratta dei sindacati di stato non mi sembra possibile prescindere dalla natura sociale dell’apparato sindacale. Ritengo, infatti, che, nel corso dei passati decenni si sia sviluppata, in una serie di paesi occidentali, una vera e propria borghesia di stato, con la corrispondente piccola borghesia, che controlla, in problematica coabitazione/concorrenza con la borghesia del settore privato, i processi della produzione di merci e, soprattutto, quelli della riproduzione sociale capitalistica;
  2. il ceto politico sindacale va analizzato con gli stessi strumenti con i quali analizziamo la borghesia imprenditoriale e le altre classi che animano l’attuale universo sociale. Di conseguenza, le scelte dell’apparato sindacale vanno spiegate, in primo luogo, con la sua fisiologica tendenza a riprodursi come ceto particolare dell’attuale società;
  3. non siamo, in altri termini, in una fase di opposizione fra sindacalismo riformista e sindacalismo rivoluzionario ma, casomai, di opposizione fra sindacalismo di stato e movimenti autonomi dei lavoratori quando i lavoratori rompono la passività e l’atomizzazione che caratterizza la loro/nostra normale condizione;
  4. il sindacalismo di base o alternativo si sviluppa dentro questa contraddizione e ne è necessariamente segnato. Decenni di statalizzazione del movimento operaio hanno prodotto relazioni sociali, mentalità, forme di mediazione che lo stesso riformismo al contrario che caratterizza le politiche statali degli ultimi decenni non hanno affatto metodicamente spazzato via aprendo lo spazio ad un rinato sindacalismo d’azione diretta di dimensioni analoghe a quello della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX;
  5. lo stesso sviluppo del sindacalismo di base è un prodotto del riformismo al contrario del capitale. Settori di lavoratori sentono l’esigenza di un sindacalismo militante che l’apparato dei sindacati di stato, collocato saldamente nell’ambito del corporativismo democratico, non può permettersi. Eviterei, pertanto, l’apologia del sindacalismo di base. Si tratta di un’esperienza di straordinario rilievo ma non della forma finalmente trovata dell’autorganizzazione di classe del terzo millennio;
  6. voi, nell’appello, vi rivolgete ai militanti sindacali libertari e non ai sindacati. Ne deriva, come conseguenza, che il confronto non può svolgersi solo sull’opportunità, incontestabile, di favorire forme di unità nelle iniziative o sul piano organizzativo fra diversi sindacati. Le questioni della statalizzazione del sindacalismo, del ruolo della borghesia di stato, delle forme più efficaci di rottura del controllo corporativo non possono che essere poste con forza alla discussione;
  7. da quanto si assume nel merito di queste questioni, deriva con evidenza, una serie di scelte politiche precise. Se non si tratta di scegliere fra sindacalismo riformista e sindacalismo rivoluzionario ma fra sindacalismo di stato e sindacalismo indipendente andrebbero chiarite le ragioni delle diverse scelte. Per dirla con più franchezza che discrezione, sembra poco plausibile il porre sullo stesso piano sindacati di stato e sindacati di opposizione non perché i secondi siano meritevoli di adorazione ma perché i primi sono irrecuperabili anche alla funzione sindacale minima e cioè alla difesa, nel quadro delle relazioni sociali capitalistiche e statali, degli interessi immediati delle classi subalterne;
  8. se assumiamo che il patto corporativo che ha caratterizzato l’età dell’oro del capitalismo abbia momenti di crisi significativa, ne consegue che vanno individuati gli assi di intervento più adeguati al fine di rompere questa gabbia e di rilanciare un’azione di classe efficace. Su questo terreno sono possibili forme di unità di azione fra compagni appartenenti a diversi sindacati;
  9. se ogni discorso plausibile sull’unità del sindacalismo di base ha come precondizione la rottura con il sindacalismo di stato è anche vero che va svolta una riflessione sui caratteri, i pregi, i limiti delle varie esperienze che si sono date non per giocare a chi ha ragione e chi torto ma per ragionare assieme su questioni importanti quali, per fare un solo esempio, il rapporto con i diversi partiti parlamentari e il ruolo della critica libertaria al parlamentarismo;
  10. credo, infine, che tutte le esperienze vadano rispettate nella loro specificità. Se è giusto discutere con i compagni che scelgono di stare nei sindacati istituzionali senza preclusioni è altrettanto giusto tenere conto delle ragioni di scelte diverse che non possono essere ricondotte a personalismi che pure esistono ma non spiegano molto. Fra di noi vi è chi ritiene possibile un sindacalismo di segno esplicitamente libertario, chi vede nel sindacalismo alternativo un’esperienza adeguata ad affrontare la situazione attuale, chi non appartiene a organizzazioni sindacali pur essendo impegnato sul terreno della lotta di classe, chi sta nei sindacati istituzionali. Una buona discussione deve, a mio avviso:

10.1 non nascondere le differenze e le loro ragioni;

10.2 definire il piano di lavoro comune possibile senza titubanze ma anche senza forzature.

Fraternamente, Cosimo Scarinzi


I distinguo avanzati da Pippo Guerrieri relativamente all’appello sono sostanzialmente cinque. Analizziamoli brevemente.

  1. L’operazione sa di prestabilito e questo ne mina la riuscita. Ora a me pare che di coordinare il lavoro dei compagni anarchici e libertari attivi sindacalmente se ne parli da molti anni, troppi; eppure, nonostante svariati tentativi nulla sia stato costruito a tutt’oggi. Nessuno di noi può scommettere ragionevolmente che questa sia la volta buona, anche se lo speriamo. Resta, comunque, incontrovertibile il fatto che qualcuno, se vuol giungere allo scopo deve prendere l’iniziativa. Ciò non significa altro che predisporre un testo che funga da base di discussione (per essere eventualmente sovvertito), fissare un luogo ed una data per discuterne e fare così i primi passi. Se così non è, che si formuli un’altra ipotesi di lavoro, che non lasci l’amaro sapore del preordinato.
  2. E veniamo alle critiche di merito. Nell’analisi non si terrebbe sufficientemente conto delle condizioni estreme in cui operano fette di popolazione e militanti sindacali dislocati geograficamente nel meridione della penisola. Che dire? L’analisi era evidentemente generica: quel poco che aveva senso riportare in un appello che per motivi evidenti doveva restare confinato nel raggio di quattro pagine. Come però non rendersi conto che queste situazione estreme non sono più l’eccezione, ma tendono invece a divenire la regola, tanto più vigente quanto maggiormente il moderno capitalismo globalizzato si estende; basti pensare, per restare nell’ambito nazionale, alle condizioni di lavoro dell’avanzatissimo nord-est. Per quanto a me paia evidente, ripetiamo lo scopo della sintesi di lettura della fase riportata nell’appello: dovunque, non solo nel terzo mondo, non solo nel quarto mondo, non solo negli angoli più sperduti della terra, ma anche nei gangli centrali dell’impero, negli Stati Uniti, ovunque l’economia sia in marcia (apparentemente), le condizioni di lavoro tendono a divenire sempre più precarie, incerte, aleatorie, temporanee, a singhiozzo e occorre prepararsi a veder smantellare (o almeno è necessario lottare per contrastare lo smantellamento di) quelle garanzie sociali, quelle certezze del posto di lavoro, quella forza collettiva per contrattare un salario più dignitoso possibile. La situazione si fa estrema ovunque.
  3. Gli estensori dell’appello avrebbero esperito un subdolo tentativo di affievolire le degenerazioni irrimediabili del sindacalismo riformista. A riprova si cita una frase decontenstualizzata circa l’incapacità di opporsi del sindacalismo confederale alla degenerazione delle regole del lavoro più sopra richiamata. La frase esiste effettivamente a p. 1, ma non è isolata e viene ampiamente ripresa nella pagina successiva, che spero sia stat letta con pari attenzione. Bastino alcune citazioni. "Far propri gli interessi economici nazionali (una sorta di neocorporativismo), sacrificando gli interessi dei lavoratori." "Nel suo percorso verso la completa istituzionalizzazione, il sindacalismo concertativo ha quindi il destino di agenzia di carattere consultivo […]." Esistono settori di opposizione, "ma queste realtà non sembrano più poter ‘recuperare’ i sindacati confederali […] a forme di rappresentanza e di lotta[…]." Occorre altro?
  4. Dall’accusa precedente discenderebbe per l’appello un’irrimediabile arretratezza, cieco agli orizzonti sereni e promettenti offerti dal giovane sindacalismo di base. Qui la discussione rischia di allargarsi troppo e di investire lo scopo stesso dell’incontro che si ha in animo di fare; non mi sogno pertanto di esaurirla e neppure di essere del tutto convincente. Noto solo due cose. Se i confederali non hanno avuto la buona volontà di contrastare la globalizzazione (l’hanno anzi agevolata), i tanti sindacati di base, che ad essa si oppongono, non sono addivenuti a grandi risultati: mi si risparmi, per favore, il frusto argomento che se tutti i compagni coscienti avessero contribuito… etc. etc., invece di restare ingabbiati … etc. etc.; le lotte si vincono solo grazie alla presa di massa che si ha solo se si mobilitano i lavoratori nel loro complesso ed è su questo che (purtroppo) il sindacalismo di base ancora mostra una qualche difficoltà, il problema resta sempre lo stesso e non si aggira col volontarismo: come sottrarre il proletariato al comando riformista. A questo punto chiedo al compagno Guerrieri, e a tanti altri compagni: sono sicuri che il loro impegno di militanti nel sindacalismo di base sia la strada giusta per portare la coscienza dei propri compiti storici nel proletariato, così fortemente sottoposto ancora al controllo della triplice? È proprio la mancanza di sicurezze, anzi, che ci obbliga al confronto.
  5. In parte ho già risposto alla quinta obiezione, che nasce dal vedere tanti compagni firmatari dell’appello militare ancora nell’odiata CGIL (odiata più della CISL e della UIL) e quindi viziati da un’ambiguità preoccupante. Taciamo dei personalismi imperanti nel sindacalismo di base, taciamo per carità di patria (sia detto senza riferimenti a velleità patriottarde); eppure sono proprio questi che spiegano uno sminuzzamento nocivo e a volte francamente ridicolo. Taciamo anche sulle politiche spesso corporative che alcuni spezzoni del sindacalismo alternativo perseguono o subiscono sotto il ricatto di una rappresentatività inseguita come soluzione al mantenimento di posizioni di dominio di piccoli comandanti (vicenda contratto scuola firmato dalle RdB qualche anno fa valga per tutti). Il fatto vero è che io sono proprio stufo di sentire sempre la stessa solfa, questa si veramente arretrata. Il lavoro dei compagni si misura su quel tanto di crescita di coscienza di classe e rivoluzionaria che riescono a suscitare con il loro intervento, sulla coerenza dei contenuti proposti alle lotte dei lavoratori con obiettivi anticapitalisti e non sulla sedicente radicalità della sigla sindacale cui appartengono. Del resto il compagno Guerrieri sembra essere d’accordo su questo punto, tanto da considerare opportuno il coordinamento di anarchici e libertari sui programmi e sulle iniziative di lotta. Ambiguo è colui che risponde solo alla propria coscienza, rifiutandosi di scendere a misurasi con il vero livello di coscienza delle masse. Ambiguo e orgoglioso di sentirsi avanguardia, tanto avanguardia da non vedere più alcuno alle proprie spalle per miglia e miglia: da qui al saccente disprezzo della vile plebaglia, di individualistica memoria, il passo è breve. Sì, io sono iscritto alla CGIL, e nessuno meglio di me sa la profondità dell’abisso in cui si è cacciato questo sindacato; eppure, nonostante tutto, il suo radicamento nella scuola (certamente immeritato) è di vari ordini di scala superiore a quello dei tanti sindacati autoproclamantesi di base. Il problema esiste e non lo si aggira con gli anatemi, facili quanto inutili. Spesso fa schifo stare in CGIL e bisogna ingollare rospi enormi: sarebbe più semplice e gratificante fare il rivoluzionario puro e sputare sentenze sugli altri. Ma quale ne sarebbe il vantaggio? Cosa si guadagnerebbe dalla scomparsa di qualsiasi voce critica all’interno dei sindacati che firmano i contratti, aprono le lotte e le chiudono a loro piacimento?

È alla luce di quanto sopra che appare utile scegliere degli obiettivi comuni da proporre nei posti di lavoro, senza curarsi delle tessere che ognuno di noi ha in tasca. Il confronto sui contenuti è faticoso, ma proficuo; arroccarsi sulla presunta consapevolezza di aver tutto compreso e tutto da insegnare agli altri sulla via salvifica della rivoluzione è un gioco che francamente non mi interessa.

Saverio Craparo CGIL Scuola, Firenze

ENRICO RANIERI  A.S.B.E.L./C.N.L. – Roma

 Cari compagni,

la lettura dell’appello mi ha dato modo di fare alcune riflessioni e considerazioni. Per iniziare ritengo positiva ogni proposta di confronto e di possibile operatività tra compagne/i anarchici e libertari che agiscono sul terreno dello scontro sociale e di classe.

Detto questo entro in merito, almeno su alcune delle questioni.

L’analisi del sindacalismo concertativo non mi convince.

Pur nella sua, necessaria, sinteticità l’appello unifica due aspetti che per me vanno distinti: l’analisi sul ceto burocratico e gli scenari di lotta sviluppati anche da lavoratori iscritti a CGIL-CISL-UIL. I sindacati concertativi non stanno andando verso la completa istituzionalizzazione. Proprio nel ciclo produttivo, di relazione tra le classi e di lotte che ci sta alle spalle, che si può definire del "compromesso socialdemocratico", va, a mio avviso, collocata la piena realizzazione della funzione istituzionale di freno delle lotte, di controllo sui lavoratori e di mediazione al ribasso svolta da CGIL & co.

E’ in quell’epoca che si sancisce il loro essere una istituzione del dominio, superando il modo para-istituzionale ancora più datato.

D’altra parte è evidente che le forme, e la sostanza, della lotta di classe coinvolgono anche lavoratori iscritto ai sindacati di stato. Ed in questo i libertari e gli anarchici scelgono i lavoratori, e la loro unità, più delle sigle, come è detto nell’appello. Ma essere interni alle lotte e vicini ai lavoratori è una cosa, pensare ed agire, come ha tentato ha di fare la sinistra dei sindacati ufficiali, immettendo questi momenti di lotta, di formazione di quadri e competenze, nella battaglia per modificare i punti di riferimento di tutto l’apparato sindacale concertativo è un’altra.

Soprattutto dopo la sconfitta, dentro il sindacato ufficiale, dell’esperienza dei consigli di fabbrica, dopo lo smantellamento della FLM e dopo il congresso CGIL dell’EUR, eventi che avvengono a cavallo degli anni ’70 e ’80 dello scorso millennio! Non è solo perdita di tempo ma confonde gli obiettivi delle lotte nelle loro articolazioni tattiche e strategiche, producendo frustrazioni e allontanamento dalla realtà.

Ritengo, per altri versi, condivisibile ma estremamente parziale la lettura data nell’appello degli eventi: precariato, disoccupazione, immigrazione, che pure entrano prepotentemente nella formazione della realtà attuale vengono sottostimati.

Realtà attuale e quotidiana in cui dominio e sfruttamento non si limitano, per altro, alla sola attività lavorativa.

I problemi del territorio, la sfera della riproduzione e del consumo, l’ecologia dei rapporti e delle produzioni, la qualità della vita, vengono citati solo nella parte finale dell’appello, senza grosse analisi, risultando "appiccicate" ad un testo che analizza soprattutto altro.

Questi elementi, a mio avviso, non sono solo tattici od "alla moda", ma entrano in modo forte nella formazione di una strategia libertaria, o meglio, nell’insieme di aspetti strategici complementari tra loro per liberarci/liberare dal/il lavoro salariato e dalle determinazioni autoritarie del potere.

Io mi occupo da tempo del rapporto tra teoria e prassi nei percorsi di autogestione sociale soprattutto in aree rurali, in un ambito, invero molto difficoltoso, di relazioni tra conflitto/i e progetto/i.

Gli aspetti progettuali del federalismo, dell’azione diretta, dell’autogestione, del mutuo appoggio, della sfera pubblica non statale, del municipalismo libertario sono aspetti da far vivere nella materialità "a favore" delle/nelle classi subalterne, arricchendo di pratiche l’elaborazione teorica. A fianco dell’autogestione delle lotte, insieme ai conflitti "contro". In un sistema di relazioni ed alleanze tra individui, situazioni, composizione di classe. Tutto questo è trattato dall’appello in maniera superficiale e sbrigativa, quando è trattato.

Questi aspetti hanno anche delle specificità tipiche del sindacalismo libertario ed anarchico. Il progettare nel fare, il "qui ed ora", la conoscenza e l’intervento nel territorio, sono aspetti dell’anarchismo sociale a cui ci richiamiamo pur nelle diversità (che non vanno taciute ma se analizzate e comprese possono essere una ricchezza).

La composizione di classe nell’ambito agricolo e rurale, l’organizzazione del lavoro in agricoltura, le agricolture naturali e la sicurezza alimentare, la formazione dei prezzi e la cooperazione nel consumo, il rapporto tra ambienti urbani-agrosistema-ambienti selvatici, le possibilità di percorsi autogestionari nelle campagne ed il loro rapporto con la composizione di classe nelle metropoli, le nuove tecnologie, il rapporto tra scienza/sapere/sfruttamento di umani e natura (ma sono separabili questi due aspetti?), sono tra gli elementi che i militanti libertari nel conflitto sociale dovrebbero analizzare, proponendo sintesi ed azione.

Le esperienze della lotta di classe, la memoria e la progettualità libertaria in essa, non si possono ridurre negli schemi "canonici" del sindacalismo.

E’ necessario e possibile produrre attività in avanti e per questo auspico che l’appello non sia il solito rituale che ogni tanto esce dalla "diaspora" sindacale dei libertari.

Per ora mi fermo nello scrivere rimandando ai giorni del dibattito la ricerca di chiarezze ulteriori e l’articolazione di proposte.


SULL’APPELLO AGLI ATTIVISTI SINDACALI PER UNA PIATTAFORMA DI CLASSE E LIBERTARIA.

Ringrazio i compagni per averci fatto riflettere sull’identità del nostro lavoro politico e sindacale degli ultimi dieci anni.

Il rapporto tra identità e memoria storica è sempre fonte di frustrazioni e rimozioni, però è doveroso cercare di dare delle risposte alla realtà in cui ci troviamo ad operare, e accettare i giudizi sul nostro intervento o sul nostro attendismo.

Non credo che in questa situazione sociale e politica sia totalmente vero affermare che le confederazioni sindacali non siano coscienti dei propri limiti, almeno per quanto riguarda il dibattito che si è svolto sul quotidiano "il Manifesto" in merito al congresso della Cgil, ed inoltre occorre anche constatare che la mentalità "collaborativa" è dilagata all’interno del mondo del lavoro (specie tecnici e impiegati) in particolare nelle aziende dei distretti avanzati in regioni come l’Emilia. E questo oggi è un problema del fare sindacato a tutti i livelli, anche perché in questa situazione le stesse Rsu anno serie difficoltà ad aggregare sui temi contrattuali , per non parlare del ruolo autonomo che spetterebbe al sindacato rispetto agli obiettivi delle aziende in specifico, del padronato in generale.

Il passaggio sull’identità sindacale è oggi centrale, in collegamento con una realtà in forte trasformazione, ma che produce spinte anche di tipo reazionario (xenofobia, estrema-destra, leghismo…).

Certamente il sindacato si preoccupa della propria esistenza come ceto, come aggregato di personale e funzionari, e rispetto a questo aspetto gli spazi di confronto sono scarsi, ma sulla realtà delle aziende, sui contenuti contrattuali, sulle condizioni di lavoro, permangono ancora spazi di dibattito.

Ma su questi temi il sindacalismo potrà dare solo risposte parziali, occorre infatti anche una linea politica di dibattito, che si inserisca nei programmi degli Enti Locali, delle Regioni, nella politica nazionale di tipo anche istituzionale, la sfida lanciata a Seattle è anche questa, per rispondere alla globalizzazione dei mercati e delle economie.

Sono infatti in discussione elementi basilari della condizione di vita e di lavoro, la stessa riclassificazione dei modelli sociali. La difesa dei diritti civili e sociali impongono un impegno a tutto campo e a livelli differenziati, dal locale al generale. Sapendo cogliere gli elementi di movimento sociale e sindacale a livello europeo, per costruire obiettivi e aggregazioni che rilancino la democrazia diretta, l’autogestione, la solidarietà sociale.
Saluti e auguri per il convegno,
Roberto e Carlo
Modena li, febbraio 2001.


Cari compagni,ho ricevuto, tramite a-infos, il vostro appello per il 4 febbraio. Vi ringrazio dell’invito anche se non mi considero precisamente un attivista sindacale, mi considero piuttosto un militante politico che interviene nel movimento dei lavoratori e in particolare nel movimento cooperativo.

Ritengo comunque importante l’iniziativa di cui vi siete fatti carico ed opportuna ogni iniziativa che stimoli il dibattito, il coordinamento e l’iniziativa politica comune fra gli anarchici .

In questo spirito, vorrei comunque sottoporre alcune impressioni sulla vostra proposta, suggerite dalla riflessione teorica e che l’esperienza pratica si è limitata a confermare.

Credo che il problema strategico fondamentale sia la rinascita del movimento operaio, a cui devono essere orientati i nostri sforzi, un movimento che non è rinato spontaneamente fino ad adesso e non possiamo attendere che nasca da solo. Dobbiamo come minimo creare le condizioni che stimolino questa rinascita, con un’attività che affronti temi generali e, pur basandosi sui sindacati di cui facciamo parte, punti all’unità nella lotta di tutti i lavoratori, privilegiando i contenuti, i metodi e le forme di organizzazione del movimento che, per quanto "larghe", devono sempre basarsi su modelli anarchici.

Naturalmente è più opportuno parlare di movimento dei lavoratori, visto l‘irriducibilità delle componenti che ne fanno parte alla semplice componente operaia.

Vorrei qui precisare l’utilità che ci offre il fare riferimento al movimento, anziché esclusiavamente alla classe o alle organizzazioni dei lavoratori.

Il proletariato è un insieme che raggruppa tutti gli individui che, privi di mezzi di sostentamento, sono costretti a vendere la propria forza-lavoro per vivere. Si riferisce quindi ad individui che si trovano in condizioni di inferiorità, di sfruttamento, di miseria e sofferenza. Come è possibile passare da questo concetto a quello del proletariato rivoluzionario? La riflessione parte appunto dalle condizioni di sofferenza e dall’esigenza e dalla possibilità di migliorare la propria posizione, il concetto si muove dalla condizione del proletariato posto dal capitalismo al proletariato che si pone come forza trasformatrice. Questo movimento del concetto rispecchia il movimento concreto, storico del proletariato: è nel movimento del proletariato per la propria emancipazione che gli anarchici hanno sempre trovato il terreno più fertile per le proprie idee, per la propaganda, per la lotta e l’organizzazione, per la realizzazione di modelli di società libertarie. La base di questo rapporto sta nella scelta individuale che ogni proletario fa quando decide di partecipare ad un movimento di lotta. Per quanto determinato dalle condizioni oggettive, non si ha movimento se il singolo lavoratore non decide di parteciparvi.

Il proletariato quindi rimane pur sempre un insieme di individui, una costruzione logica che noi usiamo per semplificare la realtà sociale, che comunque non esiste da nessuna parte al di fuori degli individui che ne fanno parte e delle scelte di questi individui.

Nell’appello si fa un riferimento importante al tema dell’unità di classe; Questi elementi sono fondamentali nella formazione di militanti sindacali e nella rinascita del movimento dei lavoratori, e non vanno sottovalutati. Nella lotta per strappare migliori condizioni di vita e maggiori libertà, i lavoratori traggono una notevole forza dalla loro unione, ma è un’unione molto concreta, che si può concretizzare nel fatto di non lavorare al di sotto delle tariffe e nel non oltrepassare i picchetti di sciopero.

Credere però che sulla base di questa unità materiale, derivante dalla condizione materiale in cui si trovano i lavoratori, sia possibile costruire immediatamente una unità più profonda, sia possibile un porsi della classe in sé e per sé è fare della metafisica.

Se il movimento è il tramite attraverso cui il proletariato, in quanto posto dal capitalismo, si trasforma in soggetto politico, tale movimento non si dà senza una divisione della classe, quanto meno in un’"avanguardia" e in una "massa", ma più concretamente in una molteplicità di stati e di passaggi, di organismi e organizzazioni politiche, culturali e sindacali che devono trovare sì un punto d’incontro, che non è dato a priori ma è il risultato di un percorso collettivo. E’ dell’assenza di questo movimento che si soffre oggi, più della metafisica unità di classe e della irraggiungibile unità sindacale.

A questo proposito vale la pena di ricordare che l’organizzazione permanente è l’unico strumento attraverso cui si possa fare attività sindacale; l’adesione a questo o a quel sindacato risponde spesso a situazioni oggettive che non possono essere superate solo con il volontarismo, d’altra parte, non credo si possa nemmeno chiedere a compagni che sono riusciti a costruire nel proprio posto di lavoro, nella propria categoria, una rete di rapporti libertari, di buttare tutto alle ortiche per inseguire una unità sindacale con chi punta solo a ricostruire una cinghia (o anche solo una stringa) di trasmissione con il movimento operaio.

In questa prospettiva l’apporto degli anarchici è determinante, perché solo modelli organizzativi che si rifanno alla pratica libertaria possono dare una risposta alle esigenze di una realtà multiforme come è quella della classe oggi, e perché solo una prassi politica chiaramente antigovernativa ed antiparlamentare può dare una risposta all’attacco alle condizioni di vita degli sfruttati.

Giustamente, fin dall’inizio del vostro appello, mettete in primo piano il metodo, che deve caratterizzare gli anarchici. Io non credo comunque che la definizione "democrazia diretta" sia quella più adatta descriverlo: la rottura fra la corrente libertaria e quella autoritaria, consumatasi fra il Congresso dell’Aja e quello di Saint Imier della I Internazionale, è avvenuta anche sul metodo di organizzare il movimento operaio, e già allora la corrente libertaria proponeva un modello di organizzazione basato sull’autonomia dell’individuo nel gruppi, e del gruppo nella federazione.

Questo modello non si riferisce solo all’organizzazione degli anarchici, ma parte dal presupposto che un modello anarchico di organizzazione sia il migliore per qualunque tipo di organizzazione.

Già allora la democrazia diretta, nella forma dei plebisciti, aveva fornito la legittimazione al cesarismo; oggi spesso l’assemblearismo fornisce la base al bonapartismo di tanti piccoli dirigenti sindacali.

Più avanti riuscite a dare una descrizione sintetica di quello che è accaduto in questi ultimi anni, io però credo che se vogliamo trasformare la denuncia in azione politica, dobbiamo sostituire alla descrizione l’indagine critica che ripercorra la catena causa-effetto.

L’anarchismo individua nel Governo e nella sua attività la principale causa della cattiva organizzazione sociale e delle sofferenze umane.

Se applichiamo questo schema ai fenomeni da voi denunciati, possiamo vedere che lo scenario che appare risponde a precise iniziative governative, a leggi promulgate in questi anni: la normativa antinquinamento, il sostegno al decentramento produttivo, l’esportazione dei capitali, l’introduzione di nuove forme di contratto di lavoro, soprattutto l’attacco al reddito proletario, visto che il prezzo della forza lavoro viene ormai fissato dal governo e la sua contrattazione normata dallo stesso Governo, in modo che i possessori di forza lavoro non possano accedere autonomamente al mercato, ma solo attraverso il filtro dei sindacati di Stato (vedi limitazione delle libertà sindacali e di sciopero).

L’agitazione contro il Governo è un elemento importante della rinascita del movimento dei lavoratori, e in questo senso l’azione degli anarchici è fondamentale: "Poiché il governo tiene oggi il potere di regolare, mediante le leggi, la vita sociale ed allargare o restringere la libertà dei cittadini, noi non potendo ancora strappargli questo potere, dobbiamo cercare di diminuirglielo e di obbligarlo a farne l'uso meno dannoso possibile. Ma questo lo dobbiamo fare stando sempre fuori e contro il governo, premendo su di lui mediante l'agitazione della piazza, minacciando di prendere per forza quello che si reclama. Mai dobbiamo accettare una qualsiasi funzione legislativa, sia essa generale o locale, poiché facendo così diminuiremmo l'efficacia della nostra azione e tradiremmo l'avvenire della nostra causa."

Ricapitolando quindi io credo che sia necessario collegare le lotte dei vari settori, con l’obiettivo di gettare le basi di un nuovo movimento dei lavoratori. In questo processo gli anarchici possono dare un contributo importante, con la proposta di un modello organizzativo libertario e federalista e con la critica del Governo e della sua azione antiproletaria. Una tappa importante di questo percorso sarà la lotta sulla previdenza. Per questo la Federazione anarchica livornese ha indetto un convegno per i giorni 17 e 18 marzo, con lo scopo di approfondire i temi in discussione e definire gli appuntamenti di una campagna specifica: questi giorni potranno essere un’utile prosecuzione dell’appuntamento di Firenze.

Vi ringrazio infine di avermi dato l’occasione di mettere a punto queste riflessioni, che mi hanno permesso anche di precisare le mie posizioni, e spero che altri compagni intervengano in merito.

Tiziano Antonelli

Livorno, 01/02/01

t.antonelli@tin.it