Università: un nuovo movimento?

 

Inaspettatamente, il 17 ottobre in molte città sono ricomparsi per strada gli studenti medi e universitari per manifestare contro il numero chiuso e per il Diritto allo Studio.

E' stato un ritorno rumoroso, colorato e francamente piacevole e che ci ha visto presenti come organizzazione politica e come militanti; ma perché la mobilitazione possa crescere sono necessarie alcune considerazioni.

La protesta contro il "numero chiuso" - introdotto per decreto in alcune Facoltà - e in difesa del diritto allo studio farebbe pensare che oggi in Italia tutti possono iscriversi all'Università e che esiste quindi la cosiddetta "Università di massa".

In realtà l'accesso all'Università in Italia è di tipo censitario. Uno studente, specie se "fuori sede", costa alle famiglie molti milioni all'anno e viene quindi mantenuto con grandi difficoltà, anche dal cosiddetto ceto medio. Da ciò consegue che il "numero chiuso" vuole rispondere ad altre esigenze che non sono quelle della selezione degli studenti.

Vi è infatti la limitazione degli accessi invocata dalle categorie professionali, come è il caso di Medicina e Architettura. In questo caso si vuole diminuire alla fonte il numero di laureati per far recuperare spazio alle professioni e avere quindi una presenza di medici e architetti non inflazionata di laureati in questi settori. Questa politica è sbagliata perché riduce in assoluto il numero dei laureati in determinate discipline e non interviene sulla fase finale della qualificazione, da un lato differenziandola professionalmente rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, dall'altro comprimendo la durata temporale degli studi in modo da consentire che i laureati in queste come in altre discipline possano entrare nel mercato del lavoro più giovani e quindi potenzialmente in grado di trovare una collocazione rispetto, ad esempio, ai loro colleghi di altri paesi.

C'è poi il numero chiuso (o programmato) richiesto per esigenze didattiche relativamente a situazioni insostenibili. E' un non senso, ad esempio, una Facoltà di Giurisprudenza presso "La Sapienza" di Roma con circa 42.000 iscritti, e costituisce di per se un caso di negazione del diritto allo studio.

Il rimedio contro queste situazioni non è tuttavia il numero chiuso, bensì lo smembramento dei mega Atenei che non può essere attuato facendo di una grande Facoltà un Ateneo, ma ricomponendo le discipline ed i saperi in una dimensione più umana e che permetta agibilità, scambio culturale e vivibilità anche dal punto di vista del rapporto studenti-docenti, funzionalità e fruibilità dei servizi, adeguatezza delle strutture edilizie. Riteniamo che sia accettabile e utile che ogni Ateneo non superi i 40.000 iscritti, ma guardiamo con sospetto e diffidenza all'operazione di "smembramento" che non può risolversi in un artificio burocratico. Interventi di razionalizzazione di questa portata incontrano le resistenze del corpo docente, spesso interessato a mantenere consolidati equilibri di potere.

Tuttavia il numero degli iscritti sulla carta non può essere l'unico parametro di riferimento. Questo dato va letto e interpretato anche chiedendosi perché il sistema universitario italiano è quello che ha il più basso rapporto tra numero di iscritti e laureati.

Gli studenti iscritti possono essere suddivisi di fatto in varie fasce. Il 50% circa non frequenta ed è fuori corso; il 20 % frequenta saltuariamente perché lavora o non può permettersi economicamente di frequentare e da esami ogni tanto: per questi ultimi una offerta didattica ad orari e con caratteristiche diversificate (ad esempio, corsi pomeridiani o serali) sarebbe forse la migliore soluzione.

A frequentare dunque è solo il 30%, nella più favorevole delle ipotesi, ed è solo questo che consente all'Università italiana di non esplodere: non esistono infatti strutture capaci di accogliere gli studenti iscritti una volta che questi decidessero tutti di frequentare.

Alcune proposte agli studenti

Se ciò è vero occorre pensare al potenziamento della didattica e ciò non può consistere nella semplice utilizzazione di tecnologie di trasmissione delle lezioni, ma bisogna inventare una didattica interattiva con luoghi collettivi di ascolto sul territorio. Più semplicemente la lezione è un momento della comunicazione ma ben più importante è la comunità di studenti che si costruisce intorno all'Università. Se ciò è vero le mega aule, gli atenei super affollati dove è impossibile frequentare non sono luoghi di aggregazione studentesca e quindi di crescita collettiva. Ecco perché occorre investire nel "diritto allo studio", ripensandolo. Un primo intervento potrebbe essere quello di intervenire sulla politica dei costi e degli alloggi. Soprattutto quest'ultimo punto presenta notevoli difficoltà, poiché molte città sedi di Università vivono sugli studenti e quelle che ospitano grandi Atenei vedono la loro economia fortemente supportata e condizionata dalla presenza degli studenti soprattutto fuori sede, sia per quanto attiene la politica della casa e i suoi costi, che quella degli acquisti dei generi alimentari e della domanda culturale e giovanile. Pertanto per allargare il "diritto allo studio" va innanzi tutto impostata una politica dei costi.

Il primo intervento deve riguardare la politica della casa consentendo agli studenti l'occupazione delle case sfitte da più di due anni attraverso un contratto di affitto a prezzi controllati, stipulato dal Comune (garante) con i proprietari. Una misura di questo genere estendibile certamente ai senza casa anche non studenti, consentirebbe di calmierare notevolmente nelle aree di insediamento universitario il mercato degli affitti e quello immobiliare, bloccando la speculazione.

Si potrebbe tenere conto in via prioritaria delle proprietà dello Stato, prive di destinazione e non utilizzate come abitazioni per occuparle e darle in affitto a prezzi controllati a studenti e senza casa.

Gli studenti risentono al tempo stesso di strutture carenti e di mancanza di luoghi di aggregazione, con conseguente emarginazione sociale.

Un passo nella direzione di dare soluzione a questi problemi è la messa a punto di una politica cittadina - ovvero del territorio - che preveda la realizzazione di strutture bibliotecarie e la realizzazione di sale di lettura attrezzate con una minima dotazione di biblioteca (vocabolari, dizionari enciclopedici, opere generali, ecc.), collegamenti telematici in modo da consentire la ricerca bibliografica in linea, e soprattutto annessi locali di incontro e socializzazione degli studenti, al fine di consentire lo scambio di esperienze e l'aggregazione giovanile. Non dobbiamo dimenticare infatti che una delle ragioni non ultime dell'afflusso nei grandi Atenei è da rinvenire nella scelta della città come luogo di incontro, di una vita diversa più stimolante e ricca di opportunità anche di socializzazione.

L'effetto sarebbe duplice: intervenire in modo positivo sulle carenze di strutture di aggregazione dei giovani offrendo alternative valide, decongestionamento delle biblioteche vere e proprie che potrebbero così essere restituite all'uso degli studenti; attuare una diversa politica del territorio e dell'utilizzo dei centri urbani.

Il ruolo dei comunisti anarchici

Suggerimenti e idee volutamente molto specifiche, certamente discutibili che vengono forniti al fine di aiutare compagne e compagni a discutere, intervenire e lavorare, agendo sul piano della concretezza, molto apprezzato dai giovani.

Un capitolo a parte merita poi la politica dei contenuti dello studio, che deve formare ed aiutare a esaminare criticamente la realtà. Un sapere critico si costruisce con una didattica che non può essere solo quella della lezione cattedratica, ma deve sperimentare e conoscere moduli didattici seminariali. Occorre che lo studio non sia finalizzato esclusivamente alla preparazione professionale, come ci viene ossessivamente ripetuto, ma fornisca strumenti culturali, contribuendo a formare, trasmettendo valori come l'antirazzismo, la solidarietà sociale, l'antifascismo, la ricerca dell'autogestione della propria vita e della società, il piacere per la conoscenza e la cultura.

Da qui la nostra proposta ai giovani di formare gruppi e collettivi di lavoro rigorosamente autogestiti. L'organizzazione politica può e deve confrontarsi con queste aggregazioni, deve offrire l'uso degli strumenti materiali (fotocopiatrice, computer, ecc.), astenendosi dalla tentazione sempre presente di voler pilotare, influenzare e dirigere la formazione politica e culturale dei giovani.

Le iniziative culturali dell'organizzazione possono essere l'occasione per un confronto con i giovani, ma non devono in ogni caso rappresentare una violazione della loro autonomia.

dicembre 1997