Per un pugno di Euro
È quanto offre il Governo per i contratti del pubblico impiego e quanto intende offrire Confindustria per il rinnovo dei contratti del settore privato. A rigore di norme avrebbero anche ragione. Oggi, una CGIL finalmente memore della propria natura di sindacato di lotta per il solo fatto di essere stata costretta all’opposizione da un padronato aggressivo e da un governo per nulla mediativo (caso mai mediatico) e una CISL così innamorata della concertazione da firmare qualsiasi foglio gli presentino sotto la penna, salvo poi dover spiegare ai lavoratori quali conquiste abbia ottenuta al di fuori del classico pugno di mosche, chiedono a gran voce aumenti salariali che eccedano i tassi programmati di inflazione. Proprio loro però nel ’93 firmarono gli infausti accordi estivi e quindi o non sapevano cosa firmavano (e sono degli irresponsabili) o lo sapevano (ed allora sono dei bugiardi). Come stanno le cose?
Negli accordi suddetti le rivendicazioni salariali venivano di comune accordo limitate al tassi di inflazione programmata e l’eventuale differenziale tra questo e l’andamento reale dell’aumento dei prezzi era solo uno degli elementi del calcolo e limitatamente al rinnovo contrattuale solo economico intermedio (biennale) tra un contratto quadriennale ed il successivo: nessuna clausola prevedeva un recupero automatico. I vertici sindacali di allora (e c’era anche Cofferati) potevano prevedere l’apparire all’orizzonte di un fronte padronale poco incline alle concessioni e di un governo meno disposto a mediare tra le parti di quello di allora e quindi più apertamente filopadronale. Non lo fecero e confinarono il salario in una gabbia senza uscita, riducendo la contrattazione ad un faticoso, tradivo e molto parziale recupero della riduzione del potere di acquisto, più debole della vecchia scala mobile.
Così le rivendicazioni economiche, già indebolite dalla sconfitta sull’abolizione della scala mobile, da anni di contrattazione al ribasso (il salario non è una variabile indipendente, aveva sancito Lama nel 1977, aprendo la stagione delle vacche magre), dal 1993 in poi sono scomparse dai tavoli di trattativa, relegate ad un calcolo ragionieristico. In dieci anni il potere di acquisto dei lavoratori ha subito un’erosione costante, cumulando un ritardo intorno al 30% nei confronti del carovita e ciò tenendo conto dei tassi ufficiali di inflazioni, quelli dell’ISTAT, al momento giustamente e finalmente contestati. Era dagli anni Trenta che i lavoratori non andavano incontro ad una stagione rivendicativa talmente deficitaria, con le conseguenze che essa ha comportato: estensione del doppio lavoro, disponibilità ad ogni intensificazione d’orario, subalternità alle scelte padronali.
Ovviamente il quadro diventa più fosco se lo sguardo si allarga alla galassia crescente dei lavori atipici, part-time, in affitto, su chiamata, temporanei, etc. con tutta la loro carica di frantumazione del fronte proletario, di ricattabilità del singolo, di estrema compressione salariale. Dove era il sindacato quando queste innovazioni del mercato del lavoro venivano introdotte e andavano a minare la base sociale stessa della sua esistenza come agente contrattuale?
La Fdca da tempo pensa che la ricostituzione di un fronte antagonista alla politica del padronato debba avere il suo fulcro in una rinnovata ed inflessibile attenzione al problema del salario. E ciò non solo perché essa serve ha ridare ai lavoratori solo una piccola parte di ciò cui il loro lavoro gli dà diritto. Un’avanzata sul fronte economico rende più consapevole la classe dei lavoratori, li affranca da quella che ormai sembra una condanna alla sconfitta e all’arretramento e con ciò ricostituisce quel nucleo forte che può ricominciare seriamente a pensare di porre sotto controllo il ciclo produttivo ed il mercato del lavoro. Quando il salario arretra, le condizioni di vita peggiorano e viene meno qualsiasi possibilità di ampliare l’orizzonte delle lotte e con ciò si aprono le porte allo sfarinamento del fronte dei lavoratori verso i microproblemi dei singoli, che non investono più nella lotta collettiva. E mai come in questo momento l’emergenza salariale ha raggiunto limiti di guardia, a fronte di una sempre crescente concentrazione della ricchezza in poche mani.