Scuola divisa o scuola di tutti?
Il sistema scolastico italiano fra stato, regioni e interessi privati
di Maria Franca Poli,
rsu Liceo Scientifico Copernico Bologna
Non vorrei perdere troppo tempo nell’argomentare la mia critica al progetto Moratti di riforma della scuola, critica peraltro su cui è facile trovare ampie condivisioni.
Mi preme però sottolineare che se mettiamo insieme i pezzi del mosaico che nell’ultimo anno è stato composto sulla scuola da questa compagine di governo - mosaico fatto di leggi, circolari, direttive varie - è facile notare come la riforma della scuola altro non sia che un pretesto per soddisfare gli appetiti delle varie parti della maggioranza di governo, ciascuna delle quali porta nel progetto scuola la sua anima di volta in volta aziendalista, clericale, familista, legaiola. Un progetto da quattro soldi.
E dico da quattro soldi perché questo programma di riforma non ha dietro di sé nessun elemento ideale di riferimento, nulla a che vedere con un qualsiasi progetto sociale, nessuna idea di società che non sia arretrata, e profondamente marcata da disuguaglianze sociali. Quella disegnata dalla pseudo-riforma Moratti è una scuola brutalmente privata delle risorse per funzionare, organizzata come un’azienda, dipendente dagli interessi del mercato, piegata ad una curvatura confessionale, che riproduce al suo interno le disparità sociali invece che rimuoverle, che educa alla subalternità invece che alla libertà di pensiero e di scelta.
Detto questo, vorrei però spostare il mio intervento su un’altra questione fondamentale sulla quale ritengo, credo fondatamente, sia più difficile trovare una convergenza di opinioni.
Mi riferisco al progetto della regione Emilia-Romagna finalizzato a regionalizzare la scuola, e presentato come un buon provvedimento legislativo volto a contrastare la deriva reazionaria di questo governo.
Il tentativo non è nuovo. Già negli anni scorsi la Regione aveva cercato (per ben quattro volte in cinque anni!) di invadere - in modo arrogante e senza mai coinvolgere il mondo della scuola - le competenze statali nel campo dell’istruzione. Oggi, con la revisione del titolo quinto della costituzione che lascia aperti ampi spazi di ambiguità, le regioni si sentono pienamente legittimate ad intervenire in campo scolastico con provvedimenti il cui impianto lascia, per usare un eufemismo, quantomeno perplessi.
Le questioni da sollevare sono due, una di merito e una di metodo.
Nel merito. Dalla lettura della bozza di lavoro della legge regionale emerge una immagine di scuola la cui funzione fondamentale è prevalentemente quella di avviamento al lavoro, invece che di promozione della formazione civile del cittadino, così come impone il dettato costituzionale. Si tratta poi di un progetto che irrigidisce l’autonomia della scuole (l’autonomia didattica, non l’autonomia corrispondente all’assegnazione della personalità giuridica alle singole scuole, derivante dalla legge Bassanini sull’autonomia scolastica), condizionandole nella scelte sperimentali e di aggiornamento dei docenti, e non riconoscendone gli organi elettivi di autogoverno ma arrogandosi il potere di nominare organi di rappresentanza del sistema scolastico statale.
E’ poi chiaro che la regione non gestirà in proprio il sistema scolastico ma, in accordo con una tipica logica aziendale, lo devolverà ad altri enti locali; soprattutto a enti convenzionati privati, in assoluta coerenza con gli intrecci economici tra enti locali ed imprese.
Non c’è bisogno di sottolineare che dietro la gestione regionale della scuola si nascondono grossi interessi, sia economici sia politici. In sostanza, il progetto mira a trasformare quello scolastico in un sistema misto pubblico-privato, facendo diretto riferimento alla legge n° 62 del marzo 2000 sulla parità scolastica per trovare giustificazione e legittimità. La legge regionale e quella sulla parità scolastica, contro la quale è in corso la raccolta di firme per indire il referedum abrogativo, e che meriterebbe un altro capitolo, sono quindi in sinergia tra loro.
Nel metodo. L’intervento regionale sulla scuola, al di là dei contenuti che essa propone, finirebbe per rappresentare una devastante operazione di frammentazione regionalistica della scuola, preludio inevitabile di una sorta di balcanizzazione del sistema. Va da sé, infatti, che il progetto della regione Emilia Romagna, se approvato, farebbe da apripista all’intervento delle altre regioni sulla stessa materia.
Quale situazione si verrebbe a creare, allora, in un Paese come il nostro, attraversato da sempre da profondi squilibri regionali - sia economici che culturali - da ritardi ed arretratezza di intere aree geografiche, degradate, descolarizzate e in balia dei poteri forti che si sono insediati sul territorio?
Basti pensare alla cultura mafiosa di certe aree del sud, a quella leghista delle regioni del nord, a quella reazionaria recentemente manifestata dal presidente della Regione Lazio a proposito dei libri di testo di storia…
Naturalmente non si tratta di difendere a spada tratta la situazione attuale, perché lo Stato non ha mai deciso interventi strutturali nelle aree più descolarizzate, né ha mai valorizzato la cultura generale e la ricerca, men che meno quella didattica. Anzi, il sistema scolastico in genere è stata abbandonato al suo destino, e se è arrivato vivo e vegeto fino ad oggi non è certo stato grazie agli interventi statali, ma alla buona volontà e all’impegno profuso da tanti docenti nonostante la condizione di sottosalario e lo stereotipo, così radicato nell’opinione pubblica, dell’insegnante nullafacente che sceglie la scuola per lavorare poco.
Il richiamo al territorio nei progetti scolastici sarebbe interessante se effettivamente intendesse sanare in modo mirato le differenti problematiche locali, utilizzando la scuola come un efficace strumento sociale, invece di renderla dipendente dall’avidità delle imprese locali. Ma oggi, nel sistema liberista in cui tutti ci troviamo, questa visione regionalistica assume un carattere miope e localistico. Avallarla significa consentire che i gruppi di interesse disseminati sul territorio possano, da una parte, condizionare la formazione dei giovani; dall’altra, spartirsi le risorse pubbliche.
Risulta dunque quanto mai necessario mantenere un sistema scolastico unitario per tutto il Paese, sul quale agire per migliorarlo, affinchè garantisca effettivamente l’autogoverno della scuola fondato sulla partecipazione diretta di chi la scuola la fa e la vive tutti i giorni. Un sistema scolastico laico e pluralista che risponda solo alla sua finalità primaria, la formazione civile del cittadino, e non agli interessi di chi vuole la scuola cattolica, quella della Padania, quella della cultura mafiosa, quella dei ricchi, eccetera e nel quale non si facciano differenze tra poveri, ricchi, cattolici, laici, musulmani, italiani, stranieri, settentrionali, meridionali…
Questo carattere laico e plurale della scuola oggi, in una società sempre più complessa e mondializzata, attraversata da enormi conflitti alimentati ad arte da una cultura dell’allarmismo sempre più spregiudicata, è necessario come l’aria che respiriamo. Potenziare in tutto il territorio, particolarmente nelle aree più degradate, le scuole pubbliche statali - specialmente quelle dell’infanzia che sono il principale fattore di condizionamento della successiva formazione e che oggi sono in gran parte cattoliche – è condizione essenziale per garantire ovunque occasioni di confronto con opinioni e culture diverse, ed offrire a tutti le stesse opportunità di formazione e di partecipazione ai livelli alti dell’istruzione, a Milano come a Pomigliano.
Non occorre ribadire che questa impostazione non è certo quella fatta propria dall'attuale governo, impegnato al contrario a demolire brutalmente quel che di buono resta della scuola pubblica statale.
Ma l’opposizione politica a una tale deriva reazionaria non può certo essere condotta, per i motivi che dicevo, dalle regioni. Va piuttosto guidata dai movimenti nelle scuole e nella società, dai sindacati di base, insomma da tutte quelle realtà che fondano la loro attività su un progetto sociale ampio, all’interno del quale la scuola diventi veramente la scuola di tutti e per tutti.