Il cambiamento di culture, schemi intellettuali e convinzioni politiche, è legato ai processi economico-produttivi e al connesso sviluppo socio-politico ed economico; si modificano così continuamente i modelli di vita a partire dalle determinazioni del rapporto di forza del conflitto capitale-lavoro.
Dal secondo dopoguerra, lo sviluppo tecnologico ha provocato forti cambiamenti sia nel metodo di produzione, sia, più direttamente, nel mondo del lavoro. L’industria è stata trasformata, le macchine, nate per migliorare la produttività lavorativa degli operai nei processi ripetitivi hanno in realtà aumentato i ritmi e i carichi dei lavoratori senza determinare pari incrementi di salario reale né corrispondenti riduzioni dell’orario di lavoro.
Si è avuto poi un altro importante cambiamento: si è passati dalla grande industria che accentrava al suo interno tutti i processi produttivi, ad un modello di decentramento produttivo.
Dal punto di vista dei lavoratori, l’informatizzazione, oltre a provocare disoccupazione strutturale, ha dequalificato il lavoro già esistente, rendendo ormai “tipico” il lavoro cosiddetto atipico a forte contenuto di precarietà.
La messa diretta a produzione dell’informazione, la conoscenza, la creatività e delle risorse in genere del capitale intangibile offrono uno spunto al dibattito tra economisti, sociologi, politici e uomini di cultura, sulle conseguenze della nuova rivoluzione: toglierà lavoro, o piuttosto ne produrrà di nuovo e di che tipo?
Jeremy Rifkin sostiene: “Entro il prossimo secolo, il lavoro di massa nell’economia di mercato verrà probabilmente cancellato in quasi tutte le nazioni industrializzate del mondo. Una nuova generazione di sofisticati computer e di tecnologie informatiche viene introdotta in un’ampia gamma di attività lavorative: macchine intelligenti stanno sostituendo gli esseri umani in infinite mansioni” [1].
Ma è nostra opinione che il lavoro non è finito, sta solo cambiando all’interno delle nuove regole della società salariale dell’era postfordista.
Ma quale costi dovranno pagare il lavoratori per questo cambiamento, sui loro salari, sulle garanzie, sui diritti? Saranno coinvolti in un processo di ristrutturazione d’impresa che li trasformerà in “un esercito di riserva senza occupazione che gode del “tempo libero” in via obbligata?” [2].
Ma per comprendere fino in fondo la fase politico-economica in cui stiamo vivendo è necessario analizzare i nuovi processi di accumulazione e la nuova rigidità del mercato del lavoro e non affidarsi a semplici e irreali proclami.
Il processo che ha caratterizzato lo sviluppo industriale degli ultimi 25 anni nei paesi a capitalismo maturo è stato, infatti, contraddistinto quasi sempre e, anche se in modo diversificato, ovunque da un forte aumento della produttività del lavoro, a cui è corrisposto un risparmio di lavoro che eccede decisamente la creazione di nuove opportunità occupazionali. In effetti gli incrementi massicci di produttività, dovuta ad intensi processi di innovazione tecnologica e ad una conseguente ridefinizione del mercato del lavoro, hanno fatto sì che tali incrementi si traducessero esclusivamente in aumenti vertiginosi dei profitti e delle varie forme di remunerazione del fattore produttivo capitale. Il fattore lavoro non ha avuto alcun tipo di beneficio in termini di redistribuzione reale di tali incrementi di produttività. Infatti, non si è realizzato incremento occupazionale, né corrispondenti incrementi nell’andamento dei salari reali, né tanto meno relativi andamenti decrescenti nell’orario di lavoro ed, infine, neppure il mantenimento dei precedenti livelli di salario indiretto quantificabili attraverso la spesa sociale complessiva.
La fase della cosiddetta nuova globalizzazione, cioè l’attuale processo di mondializzazione capitalista, ha significato, quindi, dominio delle Borse e della finanziarizzazione dell’economia, in conflitto con qualsiasi forma di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ostacolando la libertà di scelta e allargamento dei diritti sindacali e universali. Questo concretamente è il concetto di modernità del capitalismo selvaggio anche se si tenta di plasmarlo su toni più moderati ed equilibrati con irreali ipotesi di mercato sociale.
Si ricorda che negli anni ’80 si è avuto un sostanziale cambiamento nella durata dei cicli economici che, mentre nel periodo seguito alla seconda guerra mondiale duravano circa cinque anni, dal 1980 in poi si caratterizzano per una distanza di 10 anni, anche se la ripresa economica nel senso di vera e propria espansione ha poi stentato a realizzarsi. Al contempo si è cercato così di “snellire” le imprese pubbliche e private per attuare una “produzione snella”.
Si determina così l’accentuarsi delle disuguaglianze di reddito e di condizioni di vita all’interno anche dei paesi a capitalismo maturo. A ciò continua ad accompagnarsi la marginalizzazione di intere regioni del globo dal sistema di scambi e una concorrenza internazionale sempre più intensa.
La mancata ripresa dell’economia, soprattutto dagli anni ’90 in poi, è anche dovuta alla contrazione della domanda dovuta sempre più all’estrema disuguaglianza economica e sociale, allargando la forbice di condizioni tra ricchi e poveri. Si tratta di una ulteriore prova del fallimento del mercato che, lasciato libero a se stesso, accentua sempre più le distanze esistenti tra le classi sociali.
Oggi siamo in una fase di transizione dal fordismo al cosiddetto postfordismo, dalla produzione-consumo di massa di sistemi di produzione alla distribuzione flessibile. Si sono avuti in questi ultimi anni sempre più licenziamenti, che hanno portato a picchi sempre più alti di disoccupazione a carattere strutturale. Tutto questo anche perché le imprese per diminuire il peso degli oneri sociali, ritenuti responsabili del costo del lavoro eccessivo hanno cominciato ad utilizzare il cosiddetto “outsourcing”, ossia l’esternalizzazione di interi processi produttivi per aumentare l’efficienza e la produttività dell’impresa e diminuire i costi.
Domina, quindi, la produzione snella che assicura direttamente risultati, profitti mentre tutto il resto viene affidato all’esterno, le imprese tendono sempre più a limitare costi superflui e accumulare scorte eccessive in una sorta di produzione in tempo reale, sempre più flessibile. “In sostanza a differenza della produzione fordista, in cui tempi e modi di produzione erano programmati, nell’epoca postfordista tutto è affidato alle occasioni che il mercato offre. Nella produzione snella, la comunicazione, il flusso di informazioni accedono direttamente nel processo produttivo: comunicazione e produzione si fanno coincidere. Il programma di produzione è impostato a partire dalle esigenze del mercato. La delocalizzazione, la frammentazione e la dispersione dei luoghi fisici della produzione non implicano affatto una diminuzione del potere della grande impresa capitalistica. Essa continua, proprio grazie alle concentrazioni finanziarie e al downsizing (dimagrimento), a mantenere il suo potere”. [3]
Si realizzano così le filiere produttive nazionali ma anche internazionali, alla ricerca di luoghi produttivi in cui il fattore lavoro è specializzato ma bassi sono i suoi costi e le garanzie sindacali.
Vi è poi una ulteriore diversità tra il modo di lavorare fordista e postfordista ed è nella composizione, nella forma e nel modo di organizzare la forza lavoro. Mentre nel sistema fordista era necessaria una forza lavoro specializzata, e abituata al lavoro sempre uguale nel sistema postfordista ci si trova davanti ad una richiesta di forza lavoro con alto grado di adattabilità ai mutamenti di ritmo, di mansione e che sappia essere al passo con il mercato. La nascita della forza lavoro precaria ha messo in crisi la visione fondata sul tempo di lavoro formale piuttosto che sul tempo di produzione reale.
Tutto ciò porta alla diversa impostazione dei diritti sociali dei lavoratori che nel sistema fordista avevano una validità universale e venivano protetti da leggi, mentre nel sistema postfordista sono le leggi del mercato a comandare, ad imporre qualità e quantità in tempo reale e il lavoro diventa sempre più costrittivo e senza garanzie. Oggi i lavori si svolgono sempre più nell’ambito delle relazioni interpersonali.
L’attuale crisi di credibilità degli indicatori economici classici adottati dalla Statistica Economica rivela l’insufficienza della scienza economica nell’analisi della trasformazione in atto. La diffusione del postfordismo impone oltre che nuovi modelli e misurazioni economiche anche una nuova ridefinizione delle relazioni industriali e del rapporto capitale-lavoro con un ritorno ad un ruolo centrale dello Stato e del suo rapporto con il mercato. Centralità quindi di una funzione non solo di mediazione ma fortemente interventista dello Stato, mentre invece gli economisti della globalizzazione sottolineano che lo Stato sociale inteso sia come ridistributore di reddito attraverso la fiscalità, sia come creatore di redditi, rappresenta per il capitalista postfordista un fattore di disturbo da eliminare.
Parlare attualmente di era postfordista non significa che non sussistano ancora elementi tipici dei processi fordisti, anzi l’attuale era socio-economica produttiva è caratterizzata per la compresenza di strutture, soggetti, funzioni prefordiste, fordiste e postfordiste con compiti diversi nelle diverse localizzazioni produttive e nelle diverse fasi della catena del valore.
È in tale quadro storico politico-economico che vanno interpretate le caratteristiche principali del postfordismo incentrato sul paradigma dell’accumulazione flessibile. Caratteristiche che comunque si possono schematizzare con: una specializzazione flessibile, la volatilità dei mercati, la riduzione sostanziale della funzione di regolazione economica dello Stato-nazione e l’individualizzazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro con un forte abbattimento dei costi del lavoro.
A questo proposito va ricordato che Ford razionalizzando le vecchie tecnologie e la preesistente divisione del lavoro e facendo scorrere il processo produttivo davanti agli operai che rimanevano fermi nello stesso posto ottenne elevati incrementi della produttività. Il sistema fordista si instaurò dopo un processo lungo e complicato durato quasi mezzo secolo anche perché uno degli ostacoli da superare era rappresentato dalle modalità e dai meccanismi degli interventi statali.
La diffusione internazionale del fordismo si verificò in una particolare cornice storica e politico-economica nella quale gli Stati Uniti avevano una posizione dominante dovuta alle alleanze militari e ai rapporti di potere.
Il mercato del lavoro si divideva in un settore di “monopolio” e in un settore “competitivo”, molto diverso, in cui i lavoratori erano molto svantaggiati. Lo Stato allora doveva cercare di garantire un minimo di benessere sociale a tutti, e cercare di trasmettere a tutti i benefici del fordismo assicurando soprattutto assistenza sanitaria adeguata, casa e istruzione.
Gli insuccessi che si ebbero in questo ambito produssero una seria crisi del sistema; così iniziarono una serie di nuove sperimentazioni sia sul piano dell’organizzazione industriale che su quello della vita politica e sociale e ovviamente sulla composizione e le dinamiche del mercato del lavoro. Si è trattato del graduale passaggio a un regime di accumulazione del tutto nuovo, accompagnato a un sistema completamente diverso di regolazione politica e sociale.
Si parla allora di accumulazione flessibile, contraddistinta da un confronto diretto con le rigidità del fordismo. Un dominio sociale complessivo che si basa su una determinata flessibilità nei confronti dei processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di consumo. In questo senso nascono settori di produzione del tutto nuovi, nuovi modi di fornire servizi finanziari, nuovi mercati e, principalmente, da tassi molto più elevati di innovazione commerciale, tecnologia e organizzativa.
L’accelerazione del ciclo di produzione implica una parallela accelerazione negli scambi e nel consumo; la flessibilità è governata dalla finzione, dalla fantasia, dall’immaterialità,dal capitale fittizio, dalle immagini, dall’effimero, dal caso, dalla flessibilità nelle tecniche di produzione, nei mercati del lavoro e nelle nicchie di consumo.
Questo processo di accumulazione flessibile ha portato a una crescita molto elevata nel “settore dei servizi” ed al contempo ha avuto come conseguenza principale la crescita a dismisura dei livelli di disoccupazione “strutturale”, caratterizzata anche da aumenti salariali nulli in termini reali accompagnati da un sempre minore potere sindacale cha aveva caratterizzato il regime fordista.
Il passaggio ad un sistema di l’accumulazione flessibile ha portato alla nascita di nuove forme organizzative e nuove tecnologie di produzione. L’accelerazione della produzione della disintegrazione verticale - il subappalto, il ricorso a fonti esterne, e così via - hanno rovesciare la tendenza fordista all’integrazione verticale e determinando un decentramento della produzione anche in presenza di una crescente centralizzazione finanziaria.
Altri cambiamenti nell’organizzazione - come il sistema di gestione del magazzino just-in-time che diminuisce il volume delle scorte - uniti alle nuove tecnologie di controllo elettronico, produzione in piccole quantità hanno diminuito i tempi del ciclo produttivo in molti settori. Per il lavoratori questo ha avuto come conseguenza una velocizzazione dei processi produttivi e dei ritmi di sfruttamento con una conseguente dequalificazione e riqualificazione necessari per soddisfare le nuove esigenze del lavoro.
Nel mercato del lavoro questo ha portato ad una trasformazione con la nascita e lo sviluppo di regimi di lavoro e contratti di lavoro molto più flessibili.
La transizione dal fordismo all’accumulazione flessibile ha posto serie difficoltà alle teorie di ogni tipo.
Oggi, comunque, il cosiddetto modello postfordista tipico dell’area centrale dei paesi a capitalismo avanzato convive con un modello ancora fordista della periferia e addirittura con modelli schiavistici dei paesi dell’estrema periferia (dove per estrema periferia si intendono anche alcune aree marginali del centro nei paesi a capitalismo avanzato). Tutto ciò perché oggi convivono le diverse facce di uno stesso modo di produzione capitalistico, anche se lo si vuole identificare come l’era della “New e Net Economy” e del paradigma dell’accumulazione flessibile. È comunque una fase in cui si accentua crescita distruttiva senza alcuna forma di sviluppo sociale e di civiltà.
Vi è una strutturazione del capitale che si accompagna al lavoro manuale sottopagato, delocalizzato e sempre più spesso non regolamentato, a flessibilità imposta e precarizzazione del lavoro e dell’intero vivere sociale, a servizi esternalizzati e a scarso contenuto di garanzie che ne permettono l’uso, e non più sulle connessioni fra quantità prodotta e prezzo (elementi tipici del fordismo).
E a questo proposito scrive Bennet Harrison nel suo libro “Agile e Snella” (1998) “Tutto ciò determina un inasprimento delle sperequazioni, poiché due persone che lavorano fianco a fianco possono avere eguale competenza, ma una otterrà un lavoro a tempo pieno, mentre l’altra passerà da un lavoro precario all’altro” [4].
Nella transizione dal fordismo al postfordismo il lavoro cambia, sia nella sua forma di lavoro dipendente, sia nella forma del lavoro autonomo ma sempre all’interno delle diverse forme del lavoro salariato.
Le possibilità connesse al lavoro o alla mancanza di lavoro e i modi in cui vengono affrontati i rischi ad esso connesso sono diversi e quindi cambiano o vengono a mancare il welfare universalistico, la solidarietà, ecc. Ci si trova in una situazione in cui la disponibilità al precariato diventa fondamentale, sia per l’entrata e la stabilità intermittente nel mondo del lavoro dipendente e indipendente.
Le figure del lavoro tradizionali sono inserite oggi in un mondo caratterizzato dalla flessibilità.
“Il diamante del lavoro, che aveva tre facce che riflettevano luce a varia intensità, il lavoro salariato e normato, il lavoro autonomo e le professioni libere, si è scheggiato in una molteplicità di schegge dove più che le forme di cui si è al lavoro conta quanto si è nomadi lungo il ciclo produttivo e quanto si è multiattivi, cioè disponibili a più attività lungo l’arco della propria esistenza. Questo vale sia per chi è fuori nel ciclo della subfornitura, sia per chi è nel sottoscala del lavoro sommerso, che per i tanti al lavoro nella rete dei servizi” [5].
La parcellizzazione del lavoro ha modificato la vecchia concezione dell’impresa fordista ed ha ridotto il lavoro salariato con la nascita di nuove figure professionali, che svolgono i propri lavoro dentro e fuori l’impresa.
* * *
* * *
Nel precedente numero di Proteo abbiamo iniziato una analisi del lavoro atipico, precario, ecc. in Italia; vogliamo ora approfondire alcuni aspetti di questo tema che ormai è entrato prepotentemente nella nostra realtà quotidiana.
In questi ultimi anni, i processi di trasformazione economica hanno interessato tutti i principali paesi industrializzati. In tutte le economie si è assistito ad un ridimensionamento del peso dell’industria sull’occupazione complessiva dei paesi, in particolare delle grandi imprese, a favore dell’area dei servizi. In questo senso sono entrati a far parte del lessico comune i termini quali società dei servizi, economie post-industriali, post- società dell’informazione.
Questo calo dell’industria è dovuto soprattutto al processo di esternazionalizzazione di funzioni precedentemente interne e di carattere soprattutto di servizio all’industria (si pensi ai servizi legali, statistici, commerciali, informatici, di ricerca, ecc.) ma anche a fasi intere del ciclo produttivo.
La diminuzione dei posti fissi porta dunque non solo ad una maggiore precarizzazione, ma anche all’affermarsi di attività che non dipendono più dell’organizzazione classica aziendale [6].
Si sono così formate nuove tipologie di lavoro autonomo, apparentemente indipendente, ma di fatto eterodiretto e comunque che rappresentano la nuova frontiera del lavoro salariato postfordista.
Il mercato del lavoro è in veloce trasformazione, ai cosiddetti lavoro standard si accompagnano nuove tipologie occupazionali che quasi uniscono le caratteristiche di lavoro autonomo e lavoro dipendente. Quasi il 50% della occupazione nel nostro Paese si inquadra nella posizione classica di lavoro dipendente standard, mentre l’altra metà svolge un lavoro variamente regolato e organizzato.
Nascono infatti tipologie di lavoro nuove che, con le parole atipicità e parasubordinazione, riempiono un’area di lavoro nuova, non coperte più dalle tradizionali categorie di “dipendenza” e “autonomia”.
La specializzazione flessibile o la produzione diversificata di qualità introducono il concetto di consumo personalizzato, alimentato dall’affermarsi di nuovi stili di vita. Si attuano così le intermittenze delle prestazioni, con l’aumento di orari atipici, flessibili che configurano non solo le nuove modalità del lavoro ma la precarizzazione dell’intero vivere sociale in un contesto di dominio sociale flessibile.
Uno degli effetti di questi processi è dato da una sempre più grande difficoltà a riportare l’efficacia di un pieno diritto del lavoro alle nuove modalità di prestazione del lavoro. La liberalizzazione delle varie forme di contratti di lavoro atipici ha portato anche ad una riduzione dei sussidi sociali e delle integrazioni di reddito; l’introduzione della mobilità, delle forme di lavoro flessibile, precario, del lavoro temporaneo, interinale non sono supportate da alcun ammortizzatore sociale, cioè un reddito sociale garantito non solo per i disoccupati ma per tutti i lavoratori precari che interviene nei frequenti e lunghi periodi di interruzione della prestazione lavorativa, in un’era in cui si ormai “tipicizzano” le varie forme di lavoro intermittente e precario.
L’elemento che maggiormente si evidenzia è la tendenza a svolgere attività lavorative atipiche soprattutto in settori come nelle attività stagionali in agricoltura e turismo, nei trasporti e telecomunicazioni, nei servizi in genere, ma non solo.
Non va infine dimenticata una forma tutta italiana di esternalizzazione dei servizi: il subappalto a cooperative cosiddette sociali, nelle quali i soci anche se fanno parte di una organizzazione più grande sono inquadrati come lavoratori indipendenti ma sono sottoposti alle forme più dure del lavoro dipendente precarizzato. Sono poi cresciute a dismisura le figure professionali come quelle dei consulenti finanziari porta a porta, degli esperti tecnici finanziari, dei progettisti di sistemi, tutte figure lavorative che possono svolgere il proprio lavoro al di fuori dell’organizzazione imprenditoriale classica e che configurano sempre più rapporti di dipendenza personalizzati e ad alto contenuto di precarietà, contro una minoranza privilegiata di lavoratori che rientra in un’area di “aristocrazia salariata”.
Il Patto per l’Italia è la via alla distruzione del diritto del lavoro attraverso l’attuazione, il più rapidamente possibile, del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro che è stata approvata definitivamente dal Parlamento il 5 febbraio 2003 (Legge del 14 febbraio 2003, n.30). È di recente approvazione il Decreto Legislativo (del 10 settembre 2003) n. 276 (testo in vigore dal 24 ottobre 2003) riguardante l’attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30. (GU n. 235 del 9-10-2003- Suppl. Ordinario n.159).
Tra le principali novità va segnalato all’art.4 il ruolo chiave attribuito alle agenzie per il lavoro; l’art. 4 recita infatti “Presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è istituito un apposito albo delle agenzie per il lavoro ai fini dello svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale. Il predetto albo è articolato in cinque sezioni:
a) agenzie di somministrazione di lavoro abilitate allo svolgimento di tutte le attività di cui all’articolo 20;
b) agenzie di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato abilitate a svolgere esclusivamente una delle attività specifiche di cui all’articolo 20, comma 3, lettere da a) a h);
c) agenzie di intermediazione;
d) agenzie di ricerca e selezione del personale;
e) agenzie di supporto alla ricollocazione professionale” [7].
Per quanto riguarda la somministrazione del lavoro è previsto invece all’art. 20 “Il contratto di somministrazione di lavoro può essere concluso a termine o a tempo indeterminato. La somministrazione di lavoro a tempo indeterminato e’ ammessa:
a) per servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, compresa la progettazione e manutenzione di reti intranet e extranet, siti internet, sistemi informatici, sviluppo di software applicativo, caricamento dati;
b) per servizi di pulizia, custodia, portineria;
c) per servizi, da e per lo stabilimento, di trasporto di persone e di trasporto e movimentazione di macchinari e merci;
d) per la gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini, nonché servizi di economato;
e) per attività di consulenza direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione delle risorse, sviluppo organizzativo e cambiamento, gestione del personale, ricerca e selezione del personale;
f) per attività di marketing, analisi di mercato, organizzazione della funzione commerciale;
g) per la gestione di call-center, nonché per l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali nelle aree Obiettivo 1 di cui al regolamento (CE) n. 1260/1999 del Consiglio, del 21 giugno 1999, recante disposizioni generali sui Fondi strutturali;
h) per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti, per installazioni o smontaggio di impianti e macchinari, per particolari attività produttive, con specifico riferimento all’edilizia e alla cantieristica navale, le quali richiedano più fasi successive di lavorazione, l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nell’impresa;
i) in tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”.
Ed all’art. 21 si specifica che “Il contratto di somministrazione di manodopera e’ stipulato in forma scritta e contiene i seguenti elementi:
a) gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore;
b) il numero dei lavoratori da somministrare;
c) i casi e le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 20;
d) l’indicazione della presenza di eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate;
e) la data di inizio e la durata prevista del contratto di somministrazione;
f) le mansioni alle quali saranno adibiti i lavoratori e il loro inquadramento;
g) il luogo, l’orario e il trattamento economico e normativo delle prestazioni lavorative;
h) assunzione da parte del somministratore della obbligazione del pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico, nonché del versamento dei contributi previdenziali;
i) assunzione dell’obbligo dell’utilizzatore di rimborsare al somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da questa effettivamente sostenuti in favore dei prestatori di lavoro;
j) assunzione dell’obbligo dell’utilizzatore di comunicare al somministratore i trattamenti retributivi applicabili ai lavoratori comparabili;
k) assunzione da parte dell’utilizzatore, in caso di inadempimento del somministratore, dell’obbligo del pagamento diretto al lavoratore del trattamento economico nonché del versamento dei contributi previdenziali, fatto salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore.
4. In mancanza di forma scritta, con indicazione degli elementi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del comma 1, il contratto di somministrazione e’ nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore.” [8]
Per quanto riguarda il lavoro intermittente l’art. 33 cita: “Il contratto di lavoro intermittente e’ il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa nei limiti di cui all’articolo 34. ...Il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato anche a tempo determinato. Vi è poi la figura del lavoro ripartito (art.41) ossia “uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa” [9].
Si tratta anche dell’apprendistato (art.47) affermando che “il contratto di apprendistato e’ definito secondo le seguenti tipologie:
a) contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione;
b) contratto di apprendistato professionalizzante per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale;
c) contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione.”
Il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere con contratto di apprendistato non può superare il 100 per cento delle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il datore di lavoro stesso.
Inoltre il Decreto Legislativo 276 stabilisce che il periodo di apprendistato sia strutturato in una fase di formazione da attuare in una struttura formativa, e in altre fasi di lavoro alternate a momenti di formazione; sono previste agevolazioni contributive, le assunzioni sono per giovani di età tra i 16 e i 24 anni (a parte eccezioni per i portatori di handicap e alcuni residenti in determinati comuni): le ore di formazione devono essere almeno 120.
L’art 54 tratta poi del Contratto di inserimento ossia di “un contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro delle seguenti categorie di persone:
a) soggetti di età compresa tra i diciotto e i ventinove anni;
b) disoccupati di lunga durata da ventinove fino a trentadue anni;
c) lavoratori con più di cinquanta anni di età che siano privi di un posto di lavoro;
d) lavoratori che desiderino riprendere una attività lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni;
e) donne di qualsiasi età residenti in una area geografica in cui il tasso di occupazione femminile..... sia inferiore almeno del 20 per cento di quello maschile o in cui il tasso di disoccupazione femminile superi del 10 per cento quello maschile;
f) persone riconosciute affette, ai sensi della normativa vigente, da un grave handicap fisico, mentale o psichico.
2. I contratti di inserimento possono essere stipulati da:
a) enti pubblici economici, imprese e loro consorzi;
b) gruppi di imprese;
c) associazioni professionali, socio-culturali, sportive;
d) fondazioni; e) enti di ricerca, pubblici e privati;
f) organizzazioni e associazioni di categoria.
L’art. 69 invece descrive i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa sostenendo che se “instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto” [10].
Si tratta di un contratto stipulato di solito con una scrittura privata, che instaura un rapporto di lavoro parasubordinato. Il lavoratore, da un punto di vista legale-regolamentativo, offre la propria prestazione in modo continuativo ed in modo coordinato e svolge il proprio lavoro in piena autonomia, non dovendo essere sottoposto alle direttive del committente. Il lavoratore non è obbligato ad avere la partita IVA.
Con il lavoro interinale inoltre le imprese possono redigere un contratto di fornitura di manodopera con agenzie specializzate, che forniscono loro in tempo reale e solo per il periodo necessario le professionalità richieste. Di solito si tratta di un contratto a termine, che offre un lavoro limitato nel tempo, per delle qualifiche a volte molto elevate e che configura e istituzionalizza il “precariato a vita” come forma “tipica” del lavoro. “l lavoro temporaneo è previsto in casi ben precisi, stabiliti dalla legge. Secondo la normativa vigente, il lavoro temporaneo deve avere le seguenti: caratteristiche: Il tipo di prestazione professionale richiesta al lavoratore è determinata nel tempo, poiché in un’azienda si sono verificate delle condizioni di eccezionalità, che non possono essere altrimenti fronteggiate, ricorrendo al personale e alle professionalità presenti nell’assetto e nell’organizzazione dell’azienda stessa. Tali situazioni, però, non sono destinate a durare nel tempo. Pertanto il lavoratore è chiamato a fornire la propria prestazione fin tanto che i caratteri di urgenza ed eccezionalità perdurano. I casi, che potrebbero richiedere questo tipo di prestazione sono diversi. Eccone alcuni esempi:
• Intensi livelli di produzione legati a periodi o stagioni dell’anno;
• Introduzione di nuove tecnologie (nuovi programmi di gestione aziendale, aggiornamento del software, utilizzo di nuove macchine);
• Lancio di nuovi prodotti;
• Acquisizione di settori diversi;
• Sostituzione del personale, temporaneamente assente (escluso il personale assente per motivi di sciopero, o perché licenziato entro i 12 mesi precedenti l’assunzione del lavoratore temporaneo), che ha diritto alla conservazione del posto (malattia, maternità, aspettativa, incarichi esterni alla sede dell’azienda).
La professionalità richiesta al lavoratore temporaneo è di alta qualità e diversa da quelle presenti nell’azienda o nel mercato del lavoro locale.
Di conseguenza, è escluso il ricorso al lavoro interinale per i lavoratori, che non possiedono queste caratteristiche.
I diritti del lavoratore temporaneo: sebbene il lavoratore temporaneo presti la sua professionalità in condizioni diverse da quelle degli altri impiegati dell’azienda, egli ha comunque diritto ad una serie di garanzie che il datore di lavoro deve assicurargli.
1. La retribuzione del lavoratore temporaneo è eguale a quella degli altri dipendenti di pari livello dell’azienda che lo ha assunto;
2. Le imprese utilizzatrici del lavoro temporaneo sono chiamate a versare il 5% come contributo al finanziamento delle iniziative di formazione professionale dei lavoratori temporanei;
3. Le imprese utilizzatrici devono assicurare il mantenimento dei livelli di sicurezza sul lavoro, secondo la normativa vigente, anche ai lavoratori temporanei;
I prestatori di lavoro temporaneo hanno diritto alla fruizione dei servizi sociali e assistenziali di cui godono i dipendenti dell’impresa utilizzatrice (ad eccezioni di quei servizi che sono legati all’anzianità di servizio o all’iscrizione ad associazioni e/o società cooperative” [11];
Sono previste inoltre, altre forme di lavoro atipico; si pensi che ormai il lavoro a tempo pieno e indeterminato è solo uno tra le 44 tipologie di impiego. Tra le cosiddette forme atipiche si ricordano inoltre la prestazione d’opera occasionale, cioè una forma contrattuale nella quale il lavoratore realizza verso un committente un’opera o un servizio, di natura autonoma e/o libero professionale, senza nessun tipo di vincolo di subordinazione, e soprattutto in completa autonomia organizzativa ed operativa. In questo tipo di contratto non è richiesta l’iscrizione all’INPS.
Il contratto di associazione in partecipazione in cui il collaboratore che lavora, può partecipare come associato agli utili dell’impresa, dando il proprio apporto lavorativo all’impresa stessa. Lo “stipendio” ricevuto diventa quindi una sorta di anticipo sugli eventuali utili netti conseguiti dall’impresa. Va ricordato però che se alla chiusura dell’anno non vi sono utili d’impresa il lavoratore può trovarsi nella posizione di dover restituire i compensi avuti.
Vi sono poi i procacciatori d’affari, cioè un tipo di lavoratore che sostiene, per conto di un’impresa, la vendita dei suoi beni e servizi ricevendo una provvigione elargita in percentuale di quanto venduto. I procacciatori d’affari non sono obbligati a versare i contributi previdenziali.
È previsto, poi, il Job-sharing, ossia il “lavoro condiviso”, o “lavoro a coppia” o “lavoro a staffetta”, istituisce un contratto di lavoro subordinato in cui il quale un posto di lavoro viene condiviso da due lavoratori che si ripartiscono lavoro, orario e turni.
Con il contratto di formazione e lavoro ci si rivolge ai giovani in età compresa tra i 16 ed i 32 anni; si tratta di un contratto si dice che in cui coesistono lavoro e formazione, ma soprattutto instabilità e insicurezza.
In pratica con l’introduzione delle ultime novità legislative in materia di lavoro, cioè con decreti attuativi della cosiddetta “Legge Biagi” ci troviamo sempre di più in una situazione in cui è presente una forte frammentazione del lavoro produttivo, una parcellizzazione dei ruoli, una situazione in cui vi è una forte responsabilità e rischio per tutti, anche per coloro che non vorrebbero essere “imprenditore di se stessi”.
Ma i decreti attuativi della cosiddetta “Legge Biagi” sanciscono definitivamente il passaggio dal diritto del lavoro al lavoro societario e commerciale, in quanto si tratta il lavoro come una qualsiasi merce che deve sottostare alle più crudeli regole del mercato selvaggio in uno scambio fra ineguali.
In questi anni l’occupazione e della stabilità del rapporto di lavoro continua ad essere il principale problema del nostro Paese, altro che vanto il fatto che l’Italia sia diventato il paese più flessibile d’Europa. La disciplina rigida è sostituita ormai dalla “flessibilità” d’impresa che si sviluppa in modo disordinato, segmentato e senza regole, tagliando il costo del lavoro e le garanzie. [12]
Al voluto intenso, traumatico sviluppo in chiave di efficienza aziendalistica dei lavori atipici non ha corrisposto una altrettanto rapida legislazione, in quanto si è in presenza di una difficoltà, sicuramente voluta, nella collocazione e monitoraggio del lavoro atipico; anzi con vari decreti attuativi si è causata una drammatica e violenta destrutturazione del lavoro, nella forma e nella sostanza dell’incremento di sfruttamento. Il rischio molto più alto di incidenti sul lavoro e di malattie professionali per i lavoratori atipici non è tutelato in modo sufficiente.
Va considerato che in 10 anni il lavoro atipico sul totale del lavoro dipendente e’ passato da una percentuale del 9,1% del 1993 ad una del 16,2% del 2002 [14].
Le donne rappresentano la percentuale più alta di lavoro atipico (63,4%).
L’incidenza del lavoro atipico sul lavoro dipendente per area geografica nel 1993 e nel 2002: Nord-Ovest 7,4%, 14,5%; Nord-Est 10,4%, 18,6%; Centro 8,2%, 14,9%; Sud e isole 11,1%, 17,1% [15].
A gennaio del 2002, l’indice grezzo degli occupati alle dipendenze delle grandi imprese nell’industria [16] è stato dell’84,6%, mentre quello degli occupati alle dipendenze delle grandi imprese nei servizi è risultato del 95,9% al lordo e al 95,8% al netto dei dipendenti.
Analizziamo poi i dipendenti per sesso, età, ripartizione geografica e settore.
La stessa analisi è interessante per il lavoro a tempo parziale.
Ed è interessante anche analizzare l’indagine svolta dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sul Monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro, nell’Allegato statistico dell’aprile 2003 riportato e rielaborato nelle tabelle seguenti. Le tabelle mostrano per l’anno 2002 il tasso di occupazione di disoccupazione e l’incidenza del lavoro atipico distinto sia per regione sia per sesso.
Se si analizza la rilevazione trimestrale dell’ISTAT del luglio 2003 si rileva che il numero di occupati a luglio 2003 è di 22.215.000 unità. Si è avuto un ulteriore calo degli occupati nell’agricoltura e uno sviluppo minimo nell’industria. Il Nord ha registrato un aumento maggiore di occupati rispetto al Sud. Sempre secondo la rilevazione effettuata dall’ISTAT il tasso di disoccupazione è stato dell’8,3 % rispetto all’8,7 % del luglio 2002. (Cfr. Tabb.seguenti)
Nel mese di aprile 2003, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, si è avuta una crescita di 300.000 unità lavorative ( 1,4 %); questo aumento si è avuto pur in presenza di una minima crescita economica; il reddito infatti è cresciuto solo dello 0,8 per cento. Questo potrebbe avere significati diversi: basti pensare che l’occupazione “buona” è diminuita (infatti se si lavora di più senza che aumenti il reddito può significare che l’occupazione è sovrastimata). Il tasso di disoccupazione è sceso ad aprile dal 9,2% dello scorso anno nello stesso mese all’8,9%. Questo dato non deve però far intendere di essere in presenza di una reale diminuzione della disoccupazione perché la “flessibilità” porta ad una misurazione degli occupati molto “strana” in quanto vengono considerati come occupati anche coloro che in realtà lavorano solo poche ore a settimana. A ciò va aggiunto il fatto che la “nuova occupazione” ha coinvolto soprattutto il Centro-Nord e non ha toccato quasi per niente il Mezzogiorno (lo 0,1 per cento).
Se si analizzano gli occupati suddivisi per classi di età risulta che nel Mezzogiorno i disoccupati nella fascia di età tra i 15 e i 24 è di circa il 50 per cento e nella fascia di età compresa tra i 25 ed i 34 anni, il tasso di disoccupazione è del 25 %; invece nella fascia di età superiore il tasso di disoccupazione è intorno al 13%.
Se si analizza il lavoro part-time va rilevato che nel Centro-Nord interessa il 9% degli occupati mentre nel Mezzogiorno arriva al 7%.
Nel mese di luglio 2003 l’ISTAT ha rilevato un rallentamento del movimento occupazionale con una crescita dell’occupazione femminile lievemente superiore a quella maschile (si parla di un +1,5% e di uno +0,8%). Il settore agricolo continua ad avere meno occupati e anche l’industria rileva uno sviluppo minimo mentre continuano a crescere i servizi. Il lavoro dipendente è cresciuto dell’1,1% mentre il lavoro atipico (ossia a tempo determinato o a tempo parziale) è cresciuto dell’+1,8%.
Per le tabelle seguenti si è consultato il Notiziario Trimestrale del CNEL n.4 dell’ottobre 2003
Dalle tabelle si nota come, analizzando gli occupati in complesso, la percentuale degli occupati a tempo parziale in Italia sia diminuita da luglio 2002 a luglio 2003 (passando dall’8,7 al 6,6%); i dati dell’occupazione temporanea tra gli occupati dipendenti si mantiene invece a luglio 2003 come nel luglio 2002 al 10,5%.
Se si guarda il Centro-Nord i dati mostrano che la percentuale degli occupati a tempo parziale sono aumentati dal 9,2 al 9,6 (ci si riferisce sempre agli occupati in complesso e si confrontano i mesi luglio 2002 e luglio 2003); un aumento si registra anche nell’occupazione temporanea (si passa dall’8,7% al 9,1%).
Nel Mezzogiorno invece i dati sono diversi perché il lavoro parziale scende da una percentuale del 7,6% sul totale ad una del 6,7%; una diminuzione si riscontra anche nell’occupazione temporanea che scende dal 15,2% al 14%.
Dai grafici seguenti si evince che mentre il trend dell’occupazione permanente risulta essere abbastanza costante avendo solo una leggera crescita, l’occupazione temporanea alterna dei periodi di crescita (anche se misurata) a periodi di calo.
Anche dal grafico si evince che l’occupazione part-time è in crescita al Centro-Nord mentre è in diminuzione nel Mezzogiorno.
Questi dati mostrano che il lavoro temporaneo cresce dove è meno diffuso (cioè nel centro-nord) mentre diminuisce dove è più diffuso (ossia nel Mezzogiorno).
Il sistema economico fordista era indirizzato ad un azione pubblica rivolta sia al sostegno della domanda aggregata sia all’ampliamento degli interventi di welfare. Nell’attuale società postfordista, vi è l’esigenza per i lavoratori del più alto livello formativo possibile; oltre ciò la crescente atipicità e precarietà dei rapporti di lavoro richiede un miglioramento degli istituti di tipo generale oltre che una più attenta dinamica della contrattazione sindacale.
Inoltre considerato che nell’attuale società postfordista si sono accentuate le disparità sociali vanno ancora più garantite le coperture sociali di bisogni sempre più pressanti quali la salute, la pensione, il reddito sociale garantito, ecc. Il postfordismo invece ha porta al declino del welfare e dei salari; si riaffacciano forme di lavoro servili simili alla schiavitù, determinati spesso su basi etniche.
In questo contesto la generalizzazione e globalizzazione del capitalismo selvaggio hanno accentuato “l’incremento dei movimenti internazionali della popolazione. Essi riflettono gli squilibri economici e demografici tra i paesi del Sud e del nord del mondo: i primi con tassi di incremento demografico superiori al 65% e i secondi con tassi inferiori al 10%. I movimenti avvengono in un quadro di sostanziale chiusura delle frontiere, per cui una quota significativa di immigrati lavora in condizioni di informalità. Ma quest’ultimo dato va visto anche in rapporto ai più generali processi di informalizzazione dell’economia, a loro volta legati ai fenomeni di deindustrializzazione, di decentramento produttivo e di terziarizzazione dell’economia ...la flessibilizzazionee la crescente eterogeneità delle forme di lavoro dipendente mettono in discussione il quadro normativo esistente, fatto di protezioni forti a favore dei lavoratori dipendenti con contratti a tempo indeterminato nelle imprese medie e grandi (i cosiddetti insiders), mentre non emergono proposte capaci di consentire una grande varietà di esperienze lavorative differenti accompagnate a garanzie di sicurezza e di servizi garantiti a tutti i residenti come diritti di cittadinanza” [17].
E se si analizza la disoccupazione e in particolare quella femminile si può ancora dire “ Si parla di flessibilità e lavoro atipico come carta vincente per combattere la disoccupazione femminile. Ma, non è così, non solo per i motivi sopra elencati.
Attraverso il ricorso a queste forme contrattuali, le donne continuano ad essere una presenza evanescente nel mercato occupazionale, lontana dai luoghi di decisione e dalle “alte sfere”. All’interno di una famiglia, la donna è colei che più frequentemente ricorre al lavoro atipico per poter dedicare più tempo al lavoro di cura (figli, marito e anziani), sminuendo così la propria capacità professionale, rinunciando alle proprie aspirazioni, riducendo il proprio contributo economico e di conseguenza la propria indipendenza. Insomma, nella nostra società, la flessibilità piuttosto che favorire l’occupazione femminile, rafforza la divisione dei ruoli secondo l’appartenenza di genere e continua ad allontanare le donne dalla “sfera pubblica”, perché svolgano a tempo pieno il “lavoro” di mamma e moglie.
Un controsenso questo anche più evidente se si considera che le donne italiane sono più istruite e più competenti, sono anche più disoccupate ed assenti quasi in totale dai luoghi decisionali. Per concludere, ben venga la possibilità di lavorare in modo diverso....purché di lavoro si tratti! [18]
Le nuove forme del lavoro sono precarie, senza garanzia istituzionale e protezione sociale; ci troviamo in una situazione in cui il disagio del lavoro cresce e nel quale la rappresentanza non risponde in modo efficace alle esigenze sempre più pressanti.
A ciò si aggiunge la quasi del tutto assente sindacalizzazione dei nuovi lavoratori che necessitano di essere rappresentati e di avere tutele contrattuali in una nuova frontiera di un sindacalismo conflittuale di base che opera oltre che sui posti di lavoro nel sociale e nel territorio e che ha fino ad oggi lavorato sulle contrattazioni collettive. Il sindacato si trova a dover fare i conti con nuove figure di lavoratori che devono essere rappresentati e difesi. I sindacati concertativi per la quasi totalità hanno avallato e voluto un progetto consociativo che si è risolto come un gran regalo alla Confindustria, ai governi di centro-sinistra prima e di destra poi; i sindacati consociativi sono certo responsabili di aver appoggiato l’attuazione del progetto ideologico del padronato e governativo che ha introdotto i nuovi rapporti di lavoro, uno più precario dell’altro distruggendo la libertà e la dignità del lavoratore.
In conclusione le novità del mondo del lavoro, la sua trasformazione rendono sempre più rilevanti e fondamentali la realizzazione delle lotte per i diritti, per la dignità, per i contratti di lavoro e soprattutto per la qualità del lavoro oltre che naturalmente per lo sviluppo della solidarietà internazionale e di classe.
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
[1] Cfr. Rifkin J., in particolare su questo argomento si veda il suo “Fine del lavoro”.
[2] Cfr. Rifkin J., anche sulle nuove frontiere socio-economiche della società informatizzata.
[3] Cfr. J. C. Barbier, H.Nadel, La flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli Editore, 2002, Roma.
[4] Su tali argomenti si veda anche il precedente nostro articolo su PROTEO n. 1/2003.
[5] Cfr.Cnel: Rapporto “Postfordismo e nuova composizione sociale”, Documenti CNEL, Roma 2000, pag. 34
[6] Il Codice Civile prevede due tipi di attività lavorative: rapporto di lavoro subordinato o rapporto di lavoro autonomo. Nel caso del lavoratore subordinato sarà considerato prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, lavorando alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Nel caso del lavoratore autonomo vi sarà un contratto d’opera in cui una persona di obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente; di solito questo tipo di lavoratore è detentore di partita IVA con pagamento a fattura.
È chiaro che gli imprenditori sono sempre più spesso portati ad utilizzare questa seconda tipologia di lavoratori perché costano meno (non hanno oneri previdenziali, di maternità, malattia ecc.) e sono utilizzabili solo nel caso di necessità effettiva.
[7] Cfr. Decreto Legislativo del 10 settembre 2003 n.276.
[8] Decreto Legislativo del 10 settembre 2003 n.276
[9] Decreto Legislativo del 10 settembre 2003 n.276
[10] Decreto Legislativo del 10 settembre 2003 n.276
[11] Cfr. http://www.italiadonna.it/public/percorsi/13009/13009003.htm
[12] È importante fare una distinzione tra flessibilità dell’occupazione e flessibilità del lavoro; infatti “Flessibilizzare un’occupazione significa, in sintesi renderne variabili le caratteristiche: i tempi di lavoro che ad essa sono associati, i luoghi e le condizioni del suo esercizio, i suoi elementi statutari e giuridici. “Flessibilizzare” il lavoro e, per contro, assicurare che l’attività umana specifica (cioè il fattore produttivo lavoro) divenga malleabile ed adattabile alle diverse congiunture della produzione. La conseguenza immediata della flessibilità dell’occupazione è la messa in discussione degli elementi di garanzia e di sicurezza che la caratterizzano. Al contrario flessibilizzare il lavoro non comporta in sé, alcuna conseguenza di questo tipo... la flessibilità del lavoro e dell’occupazione è quindi un concetto contraddittorio e sfaccettato, le cui conseguenze non sono univoche, né socialmente, né economicamente.” Cfr. J. C. Barbier, H.Nadel, La flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli Editore, 2002, Roma,pag.17.
[13] Per approfondimenti consultare in particolare “Le rilevazioni trimestrali” pubblicate dall’Istat.
[14] La definizione dell’ISTAT (2001) di lavoro atipico avviene attraverso quattro variabili:
1) il tempo della prestazione (se è temporaneo o permanente)
2) il tempo di lavoro (durata, se è lavoro a tempo pieno o part-time)
3) la presenza di diritti previdenziali (se presenti e in che misura)
4) il tipo di atipicità ossia se si tratta di contratti di lavoro atipico per intero o di contratti parzialmente atipici.
[15] ANSAweb - ROMA, 18 MAR 03
[16] Per approfondimenti consultare il documento “Scenari di sviluppo delle economie locali” pubblicato sul sito www.istat.it.
[17] Cfr. Mingione E, Pugliese E., Il lavoro; Carocci editore, Roma, marzo 2002, pag.131 e 135.
[18] http://www.italiadonna.it/public/percorsi/13009/13009007.htm
Fonte: Proteo N°2-3, 2003
CASO
Vladimiro P. ricorda che, nel suo primo giorno di lavoro in uno dei maggiori ipermercati di Milano, il capo, con un sorriso finto come i suoi denti regolari, per prima cosa gli disse:
"Qui, se vuoi, puoi fare tanta strada, puoi fare carriera, puoi passare in fretta dalla divisa alla cravatta. Puoi salire, diventare capo, guadagnare. L'azienda sa compensare chi le è fedele e si rende disponibile per far marciare i suoi progetti. Se dimostri di essere all'altezza della situazione verrai accolto nella famiglia e non avrai nulla da temere. Altrimenti non resterai a lungo in questo posto. Tocca a te ragazzo fare i passi giusti".
Oggi Vladimiro, dopo aver lavorato due anni, sei giorni su sette, sapendo ogni giorno quando iniziava ma non quando finiva, è stato messo fuori. L'azienda non gli ha rinnovato il contratto di formazione lavoro, lo ha escluso dai suoi programmi, perché si era fidanzato e la sua disponibilità straordinaria era in qualche modo precipitata. La storia di Vladimiro è una delle tante, tutte uguali, che si possono facilmente raccogliere tra i giovani lavoratori. Francesca, Emilio, Rosetta, Filippo: i nomi cambiano ma la storia resta sempre la stessa.
Tratto dal Libro di R. Curcio edito sensibili alle foglie.