PENSIONI E LIQUIDAZIONI
DIFENDERE IL SISTEMA PUBBLICO
L'attacco al sistema pubblico della previdenza inizia nel 1992 con la "riforma" del governo Amato, a cui seguono quella del governo Dini nel 1995, quella del governo Prodi nel 1997 ed ora quella del governo Berlusconi del 2004.
In tutti i casi sono state addotte ragioni che poggiano sui seguenti pretesti:
Contemporaneamente sono stati ritenuti irrilevanti i seguenti fattori:
Invece di intervenire sulla separazione tra assistenza e previdenza, di recuperare l'evasione contributiva e di evitare le decontribuzioni, si è fatta avanti una filosofia in base alla quale si ritiene che la previdenza debba fondarsi su 3 pilastri:
Per far ciò era necessario cambiare il sistema dei versamenti a fini pensionistici e quindi passare dal sistema retributivo (pubblico, solidaristico ed intergenerazionale) al sistema contributivo (privatistico, individualistico ed anti-generazionale). E fu la controriforma Dini. Ma già nel 1993, con l'accordo della Triplice sindacale, erano stati istituiti i primi fondi pensione allo scopo di tagliare la spesa pensionistica ed immettere risorse fresche nel mercato finanziario italiano, notoriamente in cerca di liquidità.
In teoria i fondi pensione sarebbero di 2 tipi: quelli a prestazione definita e quelli a contribuzione definita. Non esistendo nella realtà il primo tipo di fondi, dal momento che nessun operatore finanziario può garantire ai clienti che a determinati investimenti corrisponderanno determinate realizzazioni, tutti i fondi sono invece a contribuzione definita: cioè si sa (forse) quanto si versa ma….non si sa quanto si incasserà!
Questi ultimi fondi a loro volta possono essere di 2 tipi: quelli aperti gestiti dalle agenzie finanziarie, dalle banche, dalle assicurazioni…, e quelli chiusi o negoziali di categoria o aziendali, cogestiti dai sindacati confederali e da rappresentanti delle organizzazioni padronali.
Sono questi ultimi i fondi che piacciono ai sindacati confederali, i quali sostengono che sarebbero più sicuri, con minori rischi e più "democratici".
Così, sulla base di questo "convincimento" CGIL-CISL-UIL insieme a CONFINDUSTRIA-CONFCOMMERCIO E CONFSERVIZI hanno costituito nel 2003 una associazione dei fondi pensione negoziali denominata "Assofondipensione" di cui fanno parte 18 fondi con un patrimonio pari a 4 miliardi di euro. Presidente è Bombassei, di Confindustria, vicepresidente è Morena Piccinni della segreteria confederale della Cgil.
Costoro, insieme alla CONFAPI ed alla CONFARTIGIANATO hanno poi raggiunto l'accordo per un avviso comune da inviare al governo basato su 4 punti:
Diventano quindi poco credibili, i sindacati confederali & Co. nel difendere le pensioni pubbliche, se poi si danno così tanto da fare per far partire i fondi pensione. Così il sindacato si trasforma in un'agenzia finanziaria che gestisce i soldi dei lavoratori; e questi ultimi -non essendo più portatori di un diritto collettivo- rischiano di farsi travolgere da comportamenti individualistici in cui conta il successo finanziario personale e del proprio fondo pensione.
Per aderire ai fondi occorre in media un versamento di poco più dell'1% del salario trattenuto in busta paga, più un altro 1% che versa il datore di lavoro. Ma ovviamente non bastano. Allora si ricorre allo smobilizzo della ex-liquidazione, ora TFR o TFS, per convogliarli nei fondi pensione, previo il meccanismo del silenzio-assenso del singolo lavoratore. Interventi di detassazione sui rendimenti dei fondi e viceversa di tassazione sul rendimento del TFR (dell'11% imposta nel 2001 dall'Ulivo, mentre il governo Berlusconi non ha applicato la no-tax area al TFR dal 2003), tendono a forzare la scelta dei lavoratori verso l'adesione ai fondi pensione di categoria, pur di fronte ad una situazione tale da consigliare, invece, il permanere nel sistema attuale e di non aderire ai vari fondi costituiti. Infatti dall1.1.2000 al 31.12.2003 i fondi chiusi hanno avuto un rendimento totale del +5,25%, mentre nello stesso periodo il TFR ha avuto un rendimento del 13,44%!! Quindi se i lavoratori avessero investito il loro TFR nei fondi pensione di categoria, avrebbero avuto un rendimento inferiore dell'8,19% senza contare i costi di gestione che si aggirano intorno all'1-1,5%. Di fronte a questi dati scoraggianti, i gestori dei fondi di categoria stanno giocando la carta della gestione "prudenziale" dei fondi, la quale sarebbe in grado -secondo loro- di garantire un rendimento sicuro comparabile a quello del TFR (che si rivaluta del 75% del tasso d'inflazione più un punto e mezzo) o almeno del 2,5% su base annua. Tale garanzia sarebbe data dall'investimento in obbligazioni piuttosto che in azioni, come se non fosse noto che spesso le obbligazioni vengono emesse da aziende fortemente indebitate, a rischio di speculazione (vedi casi Cirio e Parmalat), oppure da titoli di stato ugualmente a rischio come i bond dell'Argentina.
Nonostante l'impegno e le 14 tonnellate di propaganda cartacea dei sindacati confederali & Co,, finora ha aderito ai fondi meno del 10% dei lavoratori dipendenti. E allora per disinnescare le perplessità, le resistenze e una ancora timida opposizione dei lavoratori, è stato inventato il grimaldello del silenzio/assenso per aderire al fondo, mentre se un lavoratore in futuro vorrà restare nell'attuale regime di mantenimento del proprio TFR, dovrà fare esplicita dichiarazione al datore di lavoro ed all'INPS o all'INPDAP, ecc.
In una tale situazione in cui si gioca a monopoli con i contributi dei lavoratori e le loro liquidazioni, contando sulla disinformazione e sul disorientamento, occorre aprire un grande dibattito ed una grande mobilitazione di base
per difendere il sistema previdenziale pubblico
Marzo 2005
Commissione Sindacale FdCA