La proposta di accordo sul costo del lavoro
Una sconfitta strategica del movimento dei lavoratori

 

Su proposta del Governo, la Confindustria e le Segreterie Nazionali di CGIL. CISL e UIL, il 3 luglio hanno dato il loro assenso allo “Schema di protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche de lavoro e sul sostegno al sistema produttivo”.

La seconda fase della trattativa sul “costo del lavoro” e la “riforma” de salario e della contrattazione chiude una vertenza fortemente voluta dal padronato e dai Governi (Andreotti, Amato e Ciampi per imporre la “politica dei redditi” con la cancellazione della Scala Mobile e salari subordinati ai tetti programmati di inflazione e un sistema di contrattazione e di relazioni sindacali cogestionarie e neocorporative che abbassano fortemente il tenore di vita di tutti i lavoratori. Per evitare questa sconfitta di portata storica occorre che i lavoratori pubblici e privati, che hanno tutto da perdere e niente a guadagnare da questo accordo, lo respingano, impedendo che esso sia siglato dalle Organizzazioni Sindacali il 22 luglio prossimo.

C’è il rischio concreto che i lavoratori, che non sono stati per niente consultati dai vertici sindacali né al momento della presentazione della Piattaforma, né nel corso delle trattative, siano ora chiamati ad una consultazione puramente formale. Infatti, a fronte di una trattativa durata due anni, si chiede ai lavoratori di esprimersi in una settimana e mentre molti sono in ferie; ciò allo scopo evidente di carpire consensi a una proposta governativa di tipo liberista, neocorporativa, cogestionaria che subordina i lavoratori agli interessi del padronato e del capitale.

Attraverso l’intesa raggiunta il 3 luglio tra Governo, Confindustria e organizzazioni sindacali confederali si realizza, infatti, un mutamento radicale del sistema contrattuale e salariale nel nostro paese, rendendolo funzionale agli interessi del padronato pubblico e privato, del capitalismo italiano oggi impegnato a superare la congiuntura economica, finanziaria, politica ed istituzionale e a ristrutturarsi.

E’ nostra opinione che questo accordo debba essere collocato tra quei provvedimenti che mirano a riscrivere nei fatti la Costituzione, nella direzione di costruire una Seconda Repubblica che non disdegna avventure neocolonialiste – l’intervento in Somalia e Mozambico oggi e quello in Iraq e Libano ieri ne sono un esempio –, tutta protesa ad una alleanza tra capitale e lavoro in funzione di esaltazione degli interessi nazionali. Un paese “nuovo” fatto di accentuazione delle diseguaglianze, di negazione della solidarietà, governato dalla rappresentanza truccata del sistema maggioritario, caratterizzato dalla frammentazione territoriale, con un regime forte del sostegno di un sindacato unico ed istituzionalizzato. Questi elementi emergono nettamente – come vedremo – dalla lettura dell’accordo.

La “politica dei redditi e dell’occupazione”

Il paragrafo di apertura del documento riproduce il testo già siglato dalle Segreterie Nazionali CGIL-CISL-UIL, all’insaputa dei lavoratori, con il governo Amato e accetta completamente la “politica dei redditi”. Esso prevede ogni anno due sessioni di incontri di concertazione.

Nella prima, a maggio-giugno, antecedente alla presentazione del testo della Legge Finanziaria, saranno definiti i parametri fondamentali a cui dovrà attenersi la politica economica del Governo (spesa pubblica, tassi di inflazione programmata, crescita del PIL e politica per l’occupazione).

Nella seconda fase, a settembre, le parti sociali dovranno stabilire i loro comportamenti concreti sulle specifiche materie, provvedendo a subordinare i salari alle scelte fatte nella fase precedente.

Come si vede, si tratta della definizione di una prassi di concertazione triangolare che esclude totalmente ogni autonomia del sindacato, poiché tutte le retribuzioni da lavoro dipendente saranno poste sotto controllo, prevedendo aumenti che restino al di sotto del tasso programmato di inflazione, che diviene il limite invalicabile degli aumenti salariali, ma non sempre raggiungibile.

Si afferma che l’individuazione di “comportamenti virtuosi” serve a creare nuova occupazione e ad assicurare la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni e dei trattamenti pensionistici, ma le decisioni concretamente assunte sulle specifiche materie vanno nella direzione opposta. Si pongono sotto controllo i salari, lasciando nei fatti libere di fluttuare tutte le altre voci di spesa.

Gli “assetti contrattuali”

Gli “Assetti contrattuali” saranno articolati in: un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) di categoria e un secondo livello di contrattazione aziendale. Ambedue questi strumenti sono segnati da forti vincoli e limitazioni.

Il contratto nazionale diventa quadriennale per la parte normativa, invece dei tre anni attuali, e biennale per la parte economica.

Il CCNL definisce l’ambito, le modalità e le materie della contrattazione aziendale, inoltre stabilisce le procedure per la presentazione delle Piattaforme contrattuali nazionali ed aziendali, nonché i tempi di apertura dei negoziati “al fine di minimizzare i costi”, prevedendo 4 mesi di “pace sociale”, per cui eventuali scioperi dei lavoratori durante tale periodo non sono consentiti. Si porta così un attacco a fondo alla cultura di classe della CGIL che ha sempre affermato, nelle sue componenti sane, che la contrattazione va accompagnata e sostenuta da azioni di lotta e che anzi non si interrompono le lotte soprattutto durante le trattative. Fare la scelta del “raffreddamento del conflitto” significa partire dall’assunto che il sindacato è parte dell’istituzione ed esso non riceve la sua legittimazione e la sua forza dalla lotta dei lavoratori, ma dalle istituzioni stesse. Tanto importante per i padroni è questo bisogno di spogliare i lavoratori della loro cultura che gli scioperi in tali periodi sono puniti con pesanti sanzioni economiche.

La contrattazione aziendale si svolgerà secondo le modalità decise dal contratto nazionale e avrà validità quadriennale. Per la definizione degli obiettivi della contrattazione decentrata, sarà necessario valutare le condizioni generali dell’”Azienda” e le sue prospettive di sviluppo, di competitività, nonché la sussistenza delle condizioni di redditività. Il diritto alla contrattazione decentrata, assicurato sulla carta, è tuttavia da conquistare nelle singole situazioni di lavoro. Tuttavia, se solo si riflette all’accettazione del disarmo completo dei lavoratori attraverso le procedure di raffreddamento dei conflitti, si può ben immaginare quanto debole sarà la forza per conquistare tale diritto. Nella sostanza, lo scontro fra le parti su questo punto è rinviato ai contratti nazionali di categoria che il sindacato affronta in una posizione di sempre maggiore debolezza. Comunque, anche quando gli ostacoli all’inizio della trattativa fossero rimossi, eventuali aumenti economici in contrattazione aziendale saranno legati ad obiettivi di produttività, di qualità e di competitività che le aziende si prefiggono.

E’ evidente la totale subordinazione del lavoro alla logica dell’impresa, la cui accettazione diviene l’unico modo reale per acquisire aumenti salariali, che però hanno tutte le caratteristiche di fuoribusta legalizzati, visto che per essi il Governo provvederà ad emanare un apposito decreto che ne sancirà l’esenzione, almeno parziale, dagli oneri contributivi: più soldi netti nelle tasche dei lavoratori, ma senza alcun effetto sui trattamenti pensionistici e sul salario differito.

Ogni due anni si tiene una sessione si contrattazione salariale per stabilire i minimi contrattuali nazionali. Essi dovranno essere rigidamente subordinati ai tassi di inflazione programmata. Nella sessione biennale successiva “ulteriori punti di riferimento del negoziato saranno costituiti dalla comparazione tra l’inflazione programmata e quella effettiva”. Come si vede, non c’è alcun automatismo che tenda a perequare il salario all’andamento reale dell’inflazione. Pertanto, i salari perderanno inevitabilmente potere d’acquisto. Inoltre, per la definizione di questi aumenti, si dovrà “tenere conto delle politiche concordate nelle sessioni di politica dei redditi”, nonché “delle tendenze generali dell’economia e del mercato del lavoro, del raffronto competitivo e degli andamenti specifici del settore”.

La contrattazione salariale è senza dubbio una delle parti peggiori e più inaccettabili dell’Accordo.

Per quanto riguarda la reintroduzione del meccanismo della Scala Mobile sui salari e le pensioni, nemmeno se ne parla. Non c’è traccia neanche di un istituto, sia pur vago e generico, di riallineamento automatico dei salari agganciato al tasso di inflazione, meccanismo rivendicato inizialmente dalle Confederazioni sindacali. Nell’Accordo si parla solo di una ridicola “indennità di vacanza contrattuale” che entrerebbe in azione dopo 3 mesi dalla scadenza del contratto nazionale, facendo scattare un aumento dei minimi retributivi pari al 30% del tasso di inflazione programmata, che come è noto è un valore fittizio fissato dal governo nel quadro della sua politica economica. Passati 6 mesi tale indennità passerebbe al 50% (sempre del tasso di inflazione programmata in corso!) fino a quando non sarà rinnovato il contratto.

“Politiche del lavoro”

Accanto alla “Politica dei Redditi” e a un sistema contrattuale cogestionario, l’Accordo prevede l’inserimento di strumenti di deregolamentazione del mercato del lavoro e di super sfruttamento, specie per i giovani per i quali viene esteso a 32 anni il limite d’età per assaporare i “contratti di formazione”, che consentono di sottopagarli, di sotto-inquadrarli e di licenziarli a discrezione dell’azienda. Ci viene detto che tutto ciò va accettato per facilitare l’occupazione, ma da più di 10 anni i contratti di lavoro in Italia vengono sempre più resi privi di vincoli per il datore di lavoro, senza che ciò abbia prodotto nuova occupazione. In realtà l’obiettivo del padronato è quello di rendere sempre più precarie e incerte le condizioni di lavoro per aumentare il ricatto sulla forza lavoro, accentuare la sconfitta del movimento operaio, ostacolarne l’organizzazione.

E’ previsto inoltre il contratto d’inserimento con una paga più bassa per i primi due anni lavorativi, il contratto a termine anche di 6 mesi e prende forma il rapporto di lavoro interinale. Si tratta di “manodopera a noleggio” gestita da agenzie di mediazione private (una sorta di caporalato legalizzato!) che divide i lavoratori ulteriormente tra quelli garantiti e quelli ricattabili. Si rafforza la tendenza a strutturare l’occupazione in modo che attorno ad un nucleo sempre più ristretto di lavoratori occupati a tempo pieno ed indeterminato, si sviluppi una galassia di lavoratori con stati giuridici, retribuzioni, condizioni di lavoro differenziati, ma accomunati dall’unico destino della precarietà. E’ facile capire con quali conseguenze per la forza contrattuale del mondo del lavoro, per le forme di solidarietà al suo interno, per l’esistenza stessa di un’organizzazione sindacale come l’abbiamo sempre concepita.

Non dobbiamo poi dimenticare che è previsto il riconoscimento delle “Rappresentanze sindacali unitarie” (RSU) aziendali che cerca di introdurre una democrazia bloccata e costituisce oggettivamente un rafforzamento del potere sindacale da parte delle Confederazioni. In pratica si introduce anche per le rappresentanze dei lavoratori il metodo maggioritario: 1/3 delle rappresentanze avviene su lista bloccata proposta dalle organizzazioni sindacali; basterà che queste conquistino, alleandosi tra loro, un altro 18% dei seggi e avranno in mano il 51% delle RSU. Non c’è che dire: una bella democrazia.

Ma l’arroganza di chi ha stipulato l’accordo è tale da riproporre il monopolio dei sindacati confederali, messo in discussione anche di recente, dalle iniziative dei Consigli Unitari. Questa proposta, prevedendo l’emanazione di una legge che la ratifichi, dovrebbe permettere di impedire il Referendum sull’Art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, sottoscritto da oltre 700mila firme, con la scusa che le norme attualmente vigenti sono state cambiate (in peggio) dal legislatore!

“Sostegno al sistema produttivo”

Il testo dell’Accordo si conclude con una parte dedicata al “Sostegno al sistema produttivo”, articolata in 5 punti. Si tratta di accordi già siglati da Confindustria e OO.SS. confederali col precedente Governo Amato. Per quanto riguarda la ricerca e l’innovazione tecnologica si fanno dichiarazioni di intenti prive di una effettiva portata. Gran parte degli strumenti richiamati come, ad esempio, gli art. 2 e 3 della L. 168/89 sull’autonomia universitaria dovrebbero essere operativi da ben quattro anni e non lo sono. Sorge perciò il sospetto – confermato da molte esperienze – che in realtà si vuole così coprire l’interessante settore della formazione nel quale da tempo la Confindustria opera alla ricerca di lauti guadagni a spese della collettività, sostenendo che esistono competenze e capacità di privati nella formazione, mentre nella stragrande maggioranza dei casi queste sono totalmente inesistenti. Quel che si vuole è consentire che un ulteriore 1% del Prodotto Nazionale lordo venga destinato nominalmente alla ricerca e messo in realtà a disposizione delle imprese per le loro speculazioni. Si teorizza la stretta collaborazione fra università e impresa per creare “nuclei di ricercatori strettamente connessi con le esigenze dell’attività produttiva” e si ribadisce la necessità di tecnicizzare il sapere incidendo sui diplomi di laurea, o post-laurea, per preparare “quadri specializzati nelle nuove tecnologie”. Ancora una volta si vuole ridurre la libertà di insegnamento a favore del libero mercato del capitale.

Di identico contenuto il capitolo 2 sulla formazione professionale, che tende a subordinare il sistema formativo pubblico ai voleri del padronato e fargli sfruttare le risorse in esso presenti a fini privati. Un discorso a parte va fatto per il punto 3 dedicato alla finanza per le imprese e alla internazionalizzazione dei mercati.

Le affermazioni contenute in questa parte dell’accordo sono frutto di una cultura industriale arretrata che ignora l’internazionalizzazione della proprietà delle imprese e pensa ancora al sostegno all’occupazione in chiave di abbassamento dei costi delle “industrie nazionali”, accettando una impossibile concorrenza del mercato del lavoro “al ribasso”. Per battere le produzioni provenienti dalle aree dove predominano il lavoro nero e precario, lo sfruttamento di manodopera priva di ogni tutela e garanzia sociale, il lavoro dei bambini, ci si arrampica sugli specchi per abbattere i salari in Italia, invece di pensare a misure di solidarietà e riequilibrio tra i diversi paesi, soprattutto in materia di condizioni di lavoro e di ammontare dei salari. Andrebbero infatti alzati i salari bassissimi della aree povere e assicurate, anche a quei lavoratori, l’assistenza medica e sociale, e la salubrità degli ambienti di lavoro, il rispetto dell’ambiente, la qualità della vita.

Quanto previsto in materia di riequilibrio territoriale, infrastrutture e domanda pubblica, va considerato come una mera dichiarazione programmatica, prova ne sia che non vi sono indicazioni di strumenti operativi se non la richiesta di una accelerazione delle procedure relative al rilascio di atti di concessione e autorizzazione. Si chiede in sostanza che lo Stato si accolli le spese per le infrastrutture delle industrie, consentendo investimenti veloci e facili rientri dei capitali impiegati a tutti coloro che intendono lucrare sui profitti che questo settore può dare.

Grande sconcerto crea infine il capitolo dedicato alla politica delle tariffe, dove il recupero di produttività, il rinnovamento tecnologico, il rilancio dei servizi mascherano la possibilità di aumenti dei costi per l’utenza senza limite alcuno, il che contraddice nell’arco di poche pagine la conclamata “politica dei redditi”; se le tariffe tendono a sfondare vistosamente (e dichiaratamente) i tassi programmati di inflazione, questi ultimi si manifestano per quello che in realtà sono: puri simulacri, atti solo a frenare la dinamica salariale per tenerla ben al di sotto dell’inflazione reale.

Se si aggiunge infine che l’accordo pone una definitiva pietra tombale su qualunque meccanismo automatico di recupero dei salari rispetto all’inflazione e sancisce le scelte in materia pensionistica e sanitaria adottate dal governo Amato, il panorama è completo. Né valgono ad alleviare il carattere profondamente antipopolare della manovra i lievi recupero in materia di fiscal drag prospettati dal governo, non a caso in concomitanza con la farsa della consultazione, ma oculatamente al di fuori del protocollo di intesa.

Sul piano politico più generale questo accordo approfondisce la separazione tra organizzazioni sindacali e lavoratori, ne disarticola le organizzazioni ed in particolare quelle su posizioni di classe, semina sfiducia e disinteresse, allontana quadri sindacali e lavoratori sindacalizzati dalla militanza, lascia spazio ai sindacati leghisti, fa crescere non solo la protesta sociale ma anche la tendenza a rinchiudersi nella tutela di interessi particolari, tendenza che caratterizza i settori ancora forti del mondo del lavoro a svantaggio della grande maggioranza dei lavoratori.

Federazione dei Comunisti Anarchici
Luglio 1993