Sul post referendum

La lotta di classe non è una marcia trionfale. Avanzamenti ed arretramenti hanno segnato la storia dell’emancipazione degli sfruttati. Siamo degli anarchici materialisti e, benché guidati dall’ottimismo genetico dei rivoluzionari, sappiamo che le lotte in cui ci impegniamo nei movimenti e nei sindacati possono essere vittoriose oppure trovare ostacoli di varia natura. Quanto più le lotte si pongono l’obiettivo di allargare gli spazi di democrazia, di aumentare salario per tutti/e, di estendere diritti politici, sociali e sindacali a settori sempre più ampi della classe lavoratrice –specialmente oggi con la crescente insicurezza occupazionale e salariale- tanto più è dura la risposta dei capitalisti per difendere i loro interessi di classe.

E’ con questa coscienza che i comunisti anarchici si sono impegnati nel referendum sull’estensione dell’art.18. Si trattava di una battaglia che cercava di sfruttare il limite abrogativo del meccanismo referendario per by-passare il parlamento e spalancare l’accesso all’art.18 ad altri 6 milioni di lavoratori. Avrebbe creato non pochi problemi al Patto per l’Italia ed a quanto esso prevede per sospendere gli effetti dell’art.18 in aziende che  in futuro superino i 15 dipendenti. Purtroppo  la nostra FdCA è stata l’unica federazione anarchica ad impegnarsi chiaramente in questa battaglia e ad entrare nei comitati per il SI’, mentre altrove si restava imprigionati nella trappola dell’astensionismo militante in imbarazzante compagnia, riproponendo quella politica confusionaria che oggi li ha collocati sul piano della Confindustria e del governo.

E la risposta di questi ultimi 2 insieme a grande parte dell’Ulivo è stata proprio dura: i ricatti nelle piccole aziende, lo spauracchio della crisi occupazionale, l’inciucio dell’astensionismo, la disinformazione dei media. Non hanno vinto, ma hanno impedito che vincesse il SI’. La posta in gioco era altissima: non potendo misurarsi usando il NO hanno puntato sul mancato quorum per fermare una diffusione del sindacato nelle piccole aziende, per avocare al parlamento e solo al parlamento la potestà di regolare il lavoro.

Non hanno vinto, ma hanno impedito che ci fossero mutamenti nei rapporti di forza attualmente a loro favorevoli.

E se 3 milioni in piazza a Roma il 23 marzo 2002 ci sono sembrati una grande dimostrazione di opposizione sociale al governo e di sfida al centro-sinistra, cosa dovremmo oggi concludere sugli 11 milioni che hanno votato SI’?  Vittime di un gioco politico perfido ed ormai vecchio di 1 anno tra Bertinotti e Cofferati? Vittime dello Stato e dei meccanismi istituzionali del referendum? Oppure la dimostrazione oggi dell’esistenza di vasti settori di popolazione disposta ad esprimere la sua opposizione alle politiche del governo e pronta anche ad andare oltre le ambiguità di certi sindacati e di certi partiti del centro-sinistra? Quegli 11 milioni sono l’espressione di una inutilità, oppure sono un segnale di diffusa consapevolezza dello scontro in atto?  Ora che il referendum è passato si torna alle posizioni del 23 marzo 2002: il ddl 848bis che modifica l’art.18 è ancora lì pronto in parlamento. Dopo 1 anno –oggi lo sappiamo- siamo 8 milioni in più. Non ci hanno fatto vincere, ma siamo confortati nel proseguire il nostro lavoro nei movimenti, nei sindacati, nelle lotte di quartiere perché cresca l’opposizione sociale, l’autogestione delle lotte, la voglia di alternativa…libertaria.

 F.d.C.A. – Segreteria Nazionale

18/06/2003