Più profitto per il capitale: i "servizi universali"

 

L'abbandono della "categoria" dei servizi pubblici e il passaggio a quella dei servizi universali apre nuove possibilità di profitto per il capitale e distrugge la solidarietà sociale.

I partiti della sinistra sono oggi al governo nella maggior parte dei paesi dell'Unione Europea e si stanno rivelando nei fatti i più coerenti sostenitori del neoliberismo. Con le politiche da essi sostenute stanno efficacemente scardinando quel sistema di garanzie che a livello istituzionale era stato costruito a partire dalla rivoluzione francese per assicurare a tutti coloro che risiedono in un determinato territorio diritti inalienabili della persona che costituiscono la base comune di garanzie che la collettività assicura a tutti coloro che si trovano in un determinato territorio. Si tratta di diritti faticosamente conquistati come quello a poter usufruire dell'assistenza sanitaria, dell'istruzione, di disporre di beni quali l'acqua, l'illuminazione, i servizi igienici, le strade; servizi insomma che vanno sotto la dizione comune di "pubblici". Questa qualificazione non deriva solo dal fatto che a gestirli sono (o forse faremmo meglio a dire, erano) gli apparati pubblici, ma perché venivano gestiti come attività di interesse generale, attraverso un'attività di tipo amministrativo e non imprenditoriale, in regime monopolistico e non concorrenziale, a segnalare la generalità dell'interesse. Certamente la gestione di questi servizi poteva essere esercitata direttamente o delegata a un soggetto privato, ma a precise e vincolanti condizioni non solo in ordine alla qualità del servizio ma alla "neutralità" di erogazione. Infatti questi servizi venivano forniti in conformità al principio di uguaglianza, con continuità e rispondendo alle esigenze dei cittadini e non all'economicità della gestione o in rapporto ad appartenenze ideologiche, etniche, confessionali, di genere.

Ad esempio si riconosceva il diritto di tutti a disporre dell'acqua corrente in casa e si richiedeva all'utente un pagamento in base al consumo che non era calcolato sul costo del servizio ma erogato a "prezzo politico". Il criterio era quello di poter fornire a tutti lo stesso servizio di identica qualità.

In questi ultimi anni si è lentamente fatta strada l'idea dell' "economicità della gestione" dei servizi cosiddetti pubblici, per poi passare alla gestione in attivo del servizio, quasi che dall'assistenza ai malati, ad esempio, i poteri pubblici, intesi come collettività, potessero ricavare un profitto.

L'idea base e originaria del servizio pubblico era invece che quasi certamente il costo economico di esercizio sarebbe stato negativo, ma che la collettività avrebbe sopportato questo onere, riconoscendo come prevalente l'interesse a fornire a tutti l'accesso al godimento di quel bene di identica qualità, come realizzazione del principio di uguaglianza, come affermazione di un diritto inalienabile della persona, che prescindeva dallo status di cittadino.

La ricerca di sempre nuovi settori di profitto affermatasi negli ultimi decenni del secolo imponeva al capitale di "immettere sul mercato" anche questi campi di attività, determinandone un costo economico, creando le condizioni per trarne profitto. Per farlo bisognava innanzi tutto smantellare l'idea del monopolio (gestito dai pubblici poteri) e quindi dire innanzi tutto che l'erogazione del servizio veniva liberalizzata, attraversando diverse fasi. Per far ciò si mitizzava il ruolo della concorrenza come un valore da affermare a vantaggio del consumatore per garantirgli costi minori a qualità maggiore di prestazioni. In un primo momento si consentiva l'accesso dei privati che agivano in regime di convenzione o di concessione. In questo caso i pubblici poteri mantenevano comunque il controllo del servizio e sovvenzionavano per i costi non economici di esso i privati che lo erogavano. Ad esempio, si da in concessione la fornitura dell'acqua ma si riconosce il diritto del gestore a avere delle sovvenzioni per quella che viene fornita in località isolate e sperdute dove il costo di esercizio del servizio è alto.

I partiti della sinistra europea si sono impossessati di questa filosofia, l'hanno fatta propria fino a diventarne i più coerenti sostenitori. Così proprio quelle forze che fino alla fine degli anni '70 avevano fatto le grandi battaglie politiche per le nazionalizzazioni si sono assunti il compito di smantellare l'intervento statale non solo in economia, ma nei servizi pubblici. Senza dirlo esplicitamente queste forze politiche hanno accettato il principio che questi settori di attività sono occasioni di profitto per il capitale. Mascherano invece la loro scelta proponendo l'idea che una gestione privata del servizio è più economica per la collettività e soprattutto più efficiente.

Basta guardarsi intorno per capire che ambedue le affermazioni sono assolutamente false. La gestione privata dei servizi pubblici non è né più efficiente né più economica; produce anzi una crescita dei costi del servizio a detrimento della qualità. Il privato infatti fornisce diverse tipologie di servizio e le differenzia nel costo.

Ma vi erano ancora due problemi da affrontare e risolvere:

  1. bisognava generalizzare su tutto il territorio dell'Unione europea (intesa come area economicamente omogenea) la possibilità del capitale di investire nei servizi e di trarne profitto;
  2. superare la categoria stessa di servizio pubblico che creava non pochi vincoli al libero dispiegarsi dell'iniziativa privata nel settore.

Ecco così intervenire la Comunità europea con la sua attività normativa. Si dirà: ma non ci sono vincoli alle decisioni della Comunità e i singoli Stati devono recepire le sue decisioni con proprie leggi, altrimenti non sono efficaci. Ebbene il diritto comunitario è strutturato in modo tale che te lo trovi nel letto senza saperlo, eppure c'è. Attraverso numerosi meccanismi esso trasmigra nei diritti nazionali e li condiziona proprio perché agisce sul piano dei principi generali.

Da qui l'idea di sostituire la categoria dei servizi pubblici con quella dei servizi universali.

Il servizio universale, a differenza del servizio pubblico, si limita ad assicurare un servizio minimo di qualità definita, ad un prezzo accessibile per tutti. I vantaggi sul piano concettuale sono evidenti: la qualità del servizio non è quella ottimale ma quella standard definita e chi chiede di più paga la differenza del costo di esercizio; il servizio ha comunque un costo economico che deve essere ricondotto ad una gestione imprenditoriale del servizio e deve quindi produrre profitto per chi lo gestisce. Lo stato, i pubblici poteri, intervengono a riequilibrare il rapporto fra costi e profitto finanziando l'imprenditore-gestore la dove i costi di esercizio del servizio sono troppo alti in modo che per il gestore vi sia sempre un guadagno.

Per comprendere le conseguenze di queste scelte basta applicarle alla gestione di un servizio pubblico. Se lo facciamo ad esempio con quello dell'istruzione comprendiamo molto meglio ciò che sta avvenendo nel settore e ci rendiamo conto che la legge sulla parità scolastica non è solo una concessione alle scuole cattoliche ma risponde al "naturale sviluppo del mercato e delle forze produttive".

La scuola deve diventare luogo di profitto e trasformarsi da un servizio pubblico a un servizio universale. E' quindi destinata a non essere gratuita. Ne viene garantita una di qualità definita e chi vuole di più e meglio paga. Lo stato finanzia e consente a chi vi investe di ricavare profitto dalla gestione del servizio.

Come si vede la costruzione è perfetta. Rimane da chiedersi cosa è rimasto nei programmi dei partiti della sinistra europea dell'idea liberale, prima che socialista, che i servizi pubblici svolgono una funzione pubblica nell'interesse della società. Essi hanno piuttosto fatta propria l'idea che nel campo dei diritti della persona la collettività interviene in via eccezionale e in misura sostanzialmente marginale rispetto alla logica di mercato che è basata sulla concorrenza e il profitto e tutto il piano dei diritti è affidato alle relazioni tra privati.

E' un attacco senza precedenti e radicale alla coesione sociale, all'idea stessa di socialità e di bene comune, al principio di uguaglianza e attraverso questo al principio di libertà; è la negazione di un'idea anche minima di solidarietà sociale per non dire di socialismo. Altro che smantellamento dello stato sociale: qui siamo andati ben oltre.

Se tutto questo non è immediatamente chiaro a tutti ciò che sta avvenendo viene percepito e soprattutto se ne vedono gli effetti. Da qui una delle ragioni della "deriva a destra" dell'elettorato sempre più sfiduciato dalla partecipazione al voto verso raggruppamenti politici di sinistra che ormai sono tali solo per continuare a sedere sul lato sinistro dei banchi del Parlamento ma che per le loro politiche sono decisamente… "sinistri".

Di fronte a questa situazione tocca a noi rivendicare un ruolo positivo delle strutture pubbliche non tanto come emanazione dell'attività dello stato ma come promanazione di quell'attività e di quella partecipazione collettiva e sociale alla gestione della società che è da sempre stata la bandiera dell'anarchismo e che si è espressa nella fase prerivoluzionaria con l'autogestione e che oggi a livello minimale deve e può esprimersi confermando la validità del mantenimento dei servizi pubblici come servizi alla persona, come nocciolo duro dei diritti di cittadinanza, come base sulla quale costruire almeno un minimo di uguaglianza sociale. Un punto insomma dal quale ripartire.