Anarchia e comunismo

 Carlo Cafiero

  

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Il nostro ideale rivoluzionario è molto semplice: si compone, come quello di tutti i nostri predecessori, di questi due termini: libertà ed eguaglianza. Vi è solo una piccola differenza.

Ammaestrati dall'esperienza degli inganni commessi dai reazionari di ogni tipo e in ogni tempo per mezzo delle parole libertà ed eguaglianza, abbiamo ritenuto opportuno mettere a fianco di questi due termini l'espressione del loro esatto valore. Queste due monete preziose sono state falsificate tanto sovente che noi vogliamo in via definitiva conoscerne e misurarne esattamente il valore.

Affianchiamo dunque a questi due termini, libertà ed eguaglianza, due equivalenti, il cui significato preciso non può dar luogo a equivoci e diciamo: “Vogliamo la liberta, cioè l'anarchia, e l'eguaglianza, cioè il comunismo”.

L'anarchia, oggi, è l'attacco; è la guerra a ogni autorità, a ogni potere, a ogni Stato. Nella società futura, l'anarchia sarà la difesa, la barriera contro la restaurazione di qualsiasi autorità, di qualsiasi potere, di qualsiasi Stato: libertà piena e completa dell'individuo, che liberamente e spinto soltanto dai propri bisogni, gusti e simpatie, si unisce ad altri individui nel gruppo o nell'associazione; libero sviluppo dell'associazione che si federa con altre nel comune o nel quartiere; libero sviluppo dei comuni che si uniscono in federazione nella regione e così via, delle regioni nella nazione, delle nazioni nell'umanità.

Il comunismo, il problema che oggi ci interessa maggiormente, è il secondo termine del nostro ideale rivoluzionario.

Il comunismo attualmente è ancora l'attacco; non è la distruzione dell'autorità, ma la presa di possesso in nome di tutta l'umanità di ogni ricchezza esistente sulla terra. Nella società futura il comunismo sarà il godimento di tutta la ricchezza esistente da parte di tutti gli uomini, secondo il principio: da ciascuno secondo le sue facolta, a ciascuno secondo i suoi bisogni, vale a dire: da ciascuno e a ciascuno secondo la sua volontà.

Bisogna tuttavia notare - e ciò in risposta soprattutto ai nostri avversari, i comunisti-autoritari o statalisti - che la conquista e il godimento di tutta la ricchezza esistente debbono essere, secondo noi, opera del popolo stesso. Non essendo né il popolo né l'umanità degli individui che possano afferrare la ricchezza e tenerla tra le mani, se ne è voluto concludere, è vero, che per questa ragione bisogna istituire tutta una classe di dirigenti, rappresentanti e depositari della ricchezza comune. Ma noi non siamo di questo parere. Nessun intermediario, nessun rappresentante, che finisce sempre per rappresentare solo se stesso! Nessun moderatore dell'eguaglianza e nemmeno nessun moderatore della libertà! Nessun nuovo governo o nuovo Stato, per quanto possa definirsi popolare o democratico, rivoluzionario o provvisorio.

Poiché la ricchezza comune è diffusa su tutta la terra e appartiene di diritto all'umanità intera, coloro che si trovano alla portata di questa ricchezza e in grado di utilizzarla la sfrutteranno in comune. Gli abitanti di un dato paese utilizzeranno la terra, le macchine, i laboratori, le case ecc., e se ne serviranno tutti in comune. Come parte dell'umanità, eserciteranno di fatto e direttamente il loro diritto a una parte della ricchezza umana. Ma, se un abitante di Pechino venisse in questo paese, avrebbe gli stessi diritti degli altri: usufruirebbe, in comune con gli altri, di tutta la ricchezza del paese, cosi come avrebbe fatto a Pechino. [...]

Ma ci viene chiesto: è attuabile il comunismo? Avremo prodotti a sufficienza per lasciare a ciascuno il diritto di prenderne a volontà, senza richiedere agli individui più lavoro di quanto ne vorranno fare?

Rispondiamo: si. Certamente, si potrà applicare questo principio: da ciascuno e a ciascuno secondo la sua volontà, poiché nella società futura la produzione sarà tanto abbondante che non ci sarà alcun bisogno di limitare i consumi, né di esigere dagli uomini più lavoro di quanto potranno o vorranno dare.

Quest'immenso aumento di produzione, di cui oggi non siamo nemmeno in grado di farcene un'idea, può esser immaginato se esaminiamo le cause che lo provocheranno. Tali cause sono essenzialmente tre:

  1. L'armonia della cooperazione nei diversi rami dell'attività umana, sostituita alla lotta attuale che si fa con la concorrenza.

  2. L'introduzione su scala immensa di macchine di tutti i tipi.

  3. L'economia considerevole delle forze di lavoro e delle materie prime, ottenuta con l'abolizione delle produzioni nocive o inutili. [...]

Bisogna infìne tener conto dell'economia immensa che si farà sui tre elementi del lavoro: la forza, gli strumenti e la materia, che oggi sono orrendamente sprecati poiché li si utilizza per la produzione di cose assolutamente inutili, se non addirittura dannose per l'umanità.

Quanti lavoratori, quanto materiale e quanti strumenti di lavoro sono usati attualmente per l'esercito di terra e di mare, per costruire le navi, le fortezze, i cannoni e tutti quegli arsenali d'armi offensive e difensive. Quante di queste forze sono impiegate per produrre oggetti di lusso che servono a soddisfare soltanto i bisogni della vanità e della corruzione! 

E quando tutta questa forza, tutte queste materie, tutti questi strumenti di lavoro saranno applicati all'industria, alla produzione di oggetti che essi stessi serviranno a produrre, quale aumento prodigioso della produzione vedremo realizzarsi! [...]

Non è tutto affermare che il comunismo è una cosa possibile: possiamo affermare che è necessario. Non solo, si può essere comunisti: bisogna esserlo, a rischio di fallire lo scopo della rivoluzione.

In effetti, se dopo la messa in comune degli strumenti di lavoro e delle materie prime mantenessimo l'appropriazione individuale dei prodotti del lavoro, saremmo costretti a conservare il denaro, e, di conseguenza, un'accumulazione di ricchezza maggiore o minore a seconda del merito, o piuttosto dell'abilità di ciascuno. In questo modo l'eguaglianza sparirebbe, poiché colui che giungesse ad avere ricchezze maggiori si sarebbe già elevato per questo stesso fatto sopra il livello degli altri. Non resterebbe che un passo da fare perché i controrivoluzionari restaurassero il diritto d'eredità. E, in effetti, ho sentito un socialista ben noto, proclamantesi rivoluzionario, sostenere l'assegnazione individuale dei prodotti e fìnire col dichiarare che non vedrebbe alcun inconveniente se la società permettesse la trasmissione ereditaria di questi prodotti: la cosa, secondo lui, non avrebbe conseguenze. Per noi, che conosciamo da vicino i risultati raggiunti dalla società con questa accumulazione delle ricchezze e loro trasmissione ereditaria, non vi possono esser dubbi al proposito.

L'assegnazione individuale dei prodotti ristabilirebbe non soltanto la diseguaglianza tra gli uomini, ma anche l'ineguaglianza tra i diversi generi di lavoro. Vedremmo ricomparire immediatamente il lavoro “pulito” e il lavoro “sporco”, il lavoro “nobile” e quello “spregevole”; il primo sarebbe fatto dai più ricchi, il secondo sarebbe attributo dei più poveri. Allora, non sarebbero più la vocazione e il gusto personale a spingere l'uomo a darsi a un genere di attività piuttosto che a un altro: sarebbe l'interesse, la speranza di guadagnare di più in una data professione. Rinascerebbero cosi la pigrizia e la diligenza, il merito e il demerito, il bene e il male, il vizio e la virtù e, di conseguenza, la “ricompensa” da un lato e la “punizione” dall'altro, la legge, il giudice, lo sbirro e la prigione.

Vi sono socialisti che insistono nel sostenere quest'idea dell'assegnazione individuale dei prodotti del lavoro basandosi sul sentimento di giustizia.

Strana illusione! Col lavoro collettivo, impostoci dalla necessità di produrre in grande e di applicare su larga scala le macchine, con questa tendenza, sempre più accentuata, del lavoro moderno a servirsi del lavoro delle generazioni precedenti come si potrebbe determinare qual è la parte di prodotto dell'uno e quale dell'altro? E assolutamente impossibile, e i nostri stessi avversari lo sanno tanto bene che finiscono per dire: “Ebbene, ci baseremo per la ripartizione sull'ora di lavoro”; ma nello stesso tempo ammettono essi stessi che sarebbe ingiusto, poiché tre ore di lavoro di Pietro possono spesso valerne cinque di Paolo.

Una volta ci dicevamo “collettivisti” per distinguerci dagli individualisti e dai comunisti-autoritari, ma in fondo eravamo semplicemente comunisti-antiautoritari, e, dicendoci “collettivisti” pensavamo di esprimere in questo modo la nostra idea che tutto dev'essere messo in comune, senza fare differenze tra gli strumenti e i materiali di lavoro e i prodotti del lavoro collettivo.

Ma un bel giorno vedemmo spuntare una nuova setta di socialisti, i quali, risuscitando gli errori del passato, si misero a filosofare, a sceverare, a distinguere su questa questione.

Ma affrontiamo finalmente la sola e unica obiezione seria avanzata dai nostri avversari contro il comunismo.

Tutti sono d'accordo che si va necessariamente verso il comunismo, ma ci viene osservato che, all'inizio, non essendo suffìcientemente abbondanti i prodotti, bisognerà stabilire il razionamento, la divisione, e che la miglior divisione dei prodotti del lavoro sarebbe quella basata sulla quantità di lavoro fatta da ciascuno.

A questo rispondiamo che nella società futura, anche quando si fosse costretti a razionare i beni, si dovrebbe rimanere comunisti; cioè il razionamento dovrebbe esser fatto non secondo i meriti, ma secondo i bisogni.

Prendiamo la famiglia, questo piccolo esempio di comunismo, di un comunismo autoritario piuttosto che anarchico, è vero, ma che d'altronde non cambia nulla in questo caso.

Nella famiglia il padre guadagna, supponiamo, cento soldi al giorno, il figlio maggiore tre franchi, un ragazzo più giovane quaranta soldi, e il minore soltanto venti soldi al giorno. Tutti portano il denaro alla madre che tiene la cassa e dà loro da mangiare. Non tutti portano in modo eguale, ma a pranzo ciascuno si serve come vuole e secondo il proprio appetito: non vi è razionamento. Ma arrivano tempi brutti e l'indigenza costringe la madre a non rimettersi più all'appetito e al gusto di ciascuno per la distribuzione del pranzo. Bisogna dividere in razioni e, sia per iniziativa della madre, sia per tacito accordo, le porzioni di tutti vengono ridotte. Ma notate, questa ripartizione non vien fatta secondo i meriti perché sono soprattutto i ragazzi più giovani a ricevere la parte maggiore, e, per quel che riguarda il boccone migliore, è riservato alla vecchia che non guadagna proprio nulla. Anche durante la carestia si applica in famiglia questo principio del razionamento secondo i bisogni. Potrebbe essere altrimenti nella grande famiglia umana del futuro?

È evidente che ci sarebbe altro da dire su questo argomento, se non lo trattassi davanti ad anarchici.

Non si può essere anarchici senza essere comunisti. In effetti, la minima idea di limitazione contiene già i germi dell'autoritarismo. Non potrebbe manifestarsi senza generare immediatamente la legge, il giudice, il gendarme.

Dobbiamo esser comunisti, perché nel comunismo realizzeremo la vera eguaglianza. Dobbiamo essere comunisti perché il popolo, che non afferra i sofìsmi collettivisti, capisce perfettamente il comunismo, come gli amici Réclus e Kropotkin hanno già fatto notare. Dobbiamo essere comunisti, perché siamo anarchici, perché l'anarchia e il comunismo sono i due termini necessari della rivoluzione.


C. CAFIERO, Anarchia e comunismo. Riassunto del discorso pronunciato dal compagno Cafiero al Congresso della federazione giurassiana, in “Le Révolté”, Ginevra 13-27 novembre 1880; ora in C. CAFIERO, Rivoluzione per la rivoluzione, a cura di G. Bosio, Roma 1970, pp. 47-56.