1977 - "...dopo Bologna"

Un Convegno che si è svolto per le strade

 

Il Convegno di Bologna non è stato come tutte le altre assemblee nazionali del movimento; le altre volte i compagni, che non hanno partecipato, hanno discusso i contenuti che i propri delegati andavano a dire, hanno letto le mozioni conclusive, i documenti assembleari; questa volta invece è stato diverso. Chi c'è stato a Bologna ha vissuto il convegno, chi non c'è stato ha perduto un'occasione, per cambiarsi, per rinnovarsi, per capire nel profondo delle sue e delle altrui contraddizioni, ha potuto conoscere la formalità (i documenti, i volantini, gli interventi) ma non potrà mai conoscere il resto: cioè tre giorni di dibattito a volte informale, tre giorni di scambio di esperienze, tre giorni vissuti per le strade di Bologna.

Il convegno, per la maggior parte, forse quella più importante, si è svolto infatti per le strade: nei capannelli di Piazza Maggiore, nei cortei spontanei che nascevano continuamente e percorrevano le strade della "zona libera", sino al primo accerchiamento della polizia; nei gruppi di compagni che scandivano slogan e parlavano ad alta voce per le strade intorno all'università, nelle iniziative spontanee di animazione, nelle felici e intelligenti attività dell'"ala creativa", cioè di tutti quei compagni che rifiutando di partecipare alle assemblee, molte volte sterili, hanno preferito esprimere la propria creatività e la propria partecipazione coinvolgendo i proletari di Bologna, con la banda, con i girotondi intorno agli autobus, con la satira e l'ironia; le cerbottane con le frecce di carta, scagliate contro i poliziotti durante il corteo di domenica, erano la conclusione di tutte queste attività dei giorni scorsi, attività che più di qualsiasi volantino o comunicato delle assemblee sono riuscite a rompere il muro di ghiaccio che divideva i proletari bolognesi dai giovani giunti a Bologna da tutta Italia, che rendeva diffidenti gli operai e i giovani di Bologna verso gli altri giovani e gli altri operai.

Un vecchio modo di fare politica

Questo aspetto del convegno (che se proprio vogliamo trovare un'etichetta era la gioia e la felicità di tanti giovani proletari o emarginati, vissuta liberamente, era l'affermazione di ciò che nel movimento viene chiamato "gioia di vivere" o "riprendiamoci la vita"; era la necessità di affermare la volontà di cambiare i rapporti sociali esistenti, affermando la necessità di tale cambiamento non in una fatidica "società comunista", ma già da oggi dentro il movimento che tende alla costruzione di una società senza classi), venuto fuori in modo preponderante, era vissuto dentro le contraddizioni del movimento e non era, a nostro avviso, come qualcuno ha teorizzato, un voler fuggire la realtà delle contraddizioni presenti: condizioni materiali, diversità tra le diverse componenti "ideologiche", contraddizioni tra i diversi strati sociali, repressione, rapporto con le istituzioni, rapporto con gli intellettuali, prospettive della lotta.

C'era in quest'aspetto del convegno il rifiuto delle assemblee in corso, sul modo in cui esse si svolgevano, frustrante e castrante per la maggior parte dei compagni; e tale rifiuto forse veniva anche determinato dalla coscienza che era sì importante starci a Bologna, ma che quelle assemblee non avevano né la forza, né la maturità, né l'autorità per decidere le sorti del movimento, e che queste avrebbero fatto una foto del movimento, ma non erano in grado di sviluppare le contraddizioni presenti.

Il ruolo delle minoranze organizzate

Le tre giornate di Bologna hanno mostrato a tutti i compagni i problemi da risolvere, ma non li hanno risolti, né potevano. Lo si è capito sin dall'inizio, dalle assemblee del movimento di Bologna preparatorie del Convegno, in cui ancora una volta i problemi non si mettevano in luce, non ci si confrontava, ma ci si schierava, senza capire che in questo modo si bloccavano sul nascere tutte le discussioni.

Nessuna delle "componenti organizzate" presenti metteva in luce i problemi, facendo quindi decidere i compagni sulle soluzioni più opportune, ma fornivano tutte delle soluzioni già pronte, a monte delle quali ogni "minoranza organizzata" aveva visto a modo suo i problemi e li aveva risolti a modo suo, non permettendo alla maggioranza dei compagni di socializzare le proprie esperienze.

Stando così le cose, tutte le assemblee hanno seguito uno schema classico di andamento, ancora per niente sconfitto (tranne alcune commissioni, dove vuoi per il numero dei partecipanti, vuoi per la capacità dei partecipanti stessi, partendo dalle proprie esperienze reali, di sfuggire al "modulo" che ha paralizzato la discussione in quanto, diventando un problema solo di schieramento, si cercava l'aspetto a volte quello meno significante e più mistificante) che permettesse di schierarsi.

E' il caso delle assemblee al Palazzotto dello Sport, dove il problema della repressione e del rapporto con le istituzioni, è stato ridotto a quello "se usare o no la P.38", con le conseguenze che poi si sono verificate; lo stesso dicasi per il problema della democrazia, se essa va allargata, oppure se bisogna parlare di "attacco al cuore dello Stato"; altre assemblee si sono ridotte invece ad una passerella di "leader" più o meno conosciuti, intellettuali organici o no; mentre la commissione operaia, (esaltata un po' da tutti), si è salvata in corner domenica mattina, perché in Piazza Maggiore, tolti tre o quattro interventi, il resto degli interventi sono stati ancora dei comizi complessivi, in cui l'operaio perdeva la sua caratteristica per diventar l'oratore di questo o quel gruppo, non riuscendo mai a partire dalla propria situazione, dalla propria fabbrica, dai problemi che essa poneva, per giungere ad una soluzione generalizzabile; la stessa discussione avuta per tutti e tre i giorni sulle condizioni materiali di preparazione del convegno, veniva vista e affrontata in termini strumentali: scontro oppure contrattazione con la giunta di Bologna.

Il problema della strategia del movimento

Da tali contraddizioni è venuto fuori un problema lampante, che nessuno ha voluto affrontare, perché per molti significa negare il proprio ruolo oppure trasformare il movimento in un partito politico: il problema della strategia del movimento.
Lo scontro era e rimane sulla strategia del movimento, da cui dipendono tattiche differenti. Da buon leninisti, le minoranze organizzate presenti, da PdUP - AO - Lega ad Autonomia Operaia organizzata, hanno ingaggiato una lotta furiosa per la direzione del movimento, esponendo al movimento le proprie tattiche, stando bene attenti e non far conoscere al movimento e a non farlo discutere sulla strategia; da questa logica nascono le "prevaricazioni" degli Autonomi dentro le assemblee, da questa stessa logica nasce la convinzione in Lotta Continua di doversi riorganizzare, per "difendere" i contenuti del movimento di massa.

Tutto ciò si basa su un presupposto falso e fallimentare: che il movimento non può omogeneizzarsi a livello strategico, partendo dalle proprie esperienze, per cui o diventa cinghia di trasmissione oppure Partito.

Il movimento discute e può organizzarsi sui propri bisogni, lasci ai "professionisti della strategia" decidere il percorso strategico delle lotte.

Bologna non ha risolto niente, eppure...

Da questo punto di vista si può dire che Bologna è stata fallimentare, nel senso che non è riuscita nemmeno a farli venire fuori tali problemi; noi cerchiamo di elencarli così come sono venuti fuori a Bologna, non pretendendo di dare una risposta, ma dicendo chiaramente che tali problemi andranno affrontati da tutte le situazioni di lotta:

1) l'ipotesi Democrazia Proletaria, Governo delle Sinistre si è dimostrata oltre che impraticabile, fallimentare; su questo nessuna delle componenti che hanno portato avanti tale progetto ha fatto autocritica, anzi ci sono tutti i presupposti perché alle prossime elezioni tale ipotesi rispunti fuori e veda di nuovo uniti PdUP - AO - Lega, LC, MLS;

2) il lottarmatismo, come strategia insurrezionalista tendente alla costruzione del Partito Combattente, è fallimentare, perché è l'applicazione pura del leninismo più ortodosso e porterà alla sconfitta il Movimento;

3) il movimento deve costituirsi una strategia e svilupparsi contro queste due ipotesi, riuscendo a vivere e a svilupparsi come movimento di massa dove tutti gli sfruttati, solo perché sfruttati, hanno diritto di cittadinanza. Il movimento deve svilupparsi dandosi tendenzialmente una strategia omogenea e rifiutando qualsiasi tentativo di trasformarlo in un partito, in cui gli sfruttati non hanno più la "cittadinanza" solo perché tali e con tanta voglia di liberarsi, ma in quanto condividono una determinata concezione del mondo e della storia, per dirla coi paroloni;

4) la democrazia assembleare e la strutturazione orizzontale del movimento, pratica già sperimentata e attuata dal movimento, ma che occorre radicare al suo interno.

Tali problemi, che a nostro avviso sono i temi che a Bologna erano nell'aria ma non sono mai calati sulla terra, non sono stati risolti; non solo, ma ricompaiono continuamente nelle discussioni interne al movimento.

La solidarietà rivoluzionaria e la critica rivoluzionaria

Uno dei problemi più scottanti venuto fuori in maniera drammatica a Bologna per i fatti successi al Palazzotto dello Sport (ma è un problema di vecchia data che il movimento non è riuscito a risolvere), pur sembrando semplice, è quello della solidarietà rivoluzionaria di fronte al nemico di classe, per tutti i militanti rivoluzionari senza distinzione, e quello della critica rivoluzionaria, che al tempo stesso comporta quello di democrazia interna al movimento.

Esiste una prassi, che definiamo di marca stalinista e borghese, che è quella della calunnia, al limite della delazione, che pratica la solidarietà nei confronti dei propri affiliati, che di fronte al nemico di classe divide nel caso attuale i "buoni dai cattivi" (termini impropri introdotti nel movimento dai mass-media della borghesia), per cui tutti coloro che hanno una prassi diversa diventano "oggettivamente" provocatori; di rimando esiste un'altra prassi a nostro avviso anch'essa di marca stalinista, che pratica la solidarietà rivoluzionaria, ma non ammette la critica rivoluzionaria (la critica, sia ben inteso, e non la calunnia!!!), nel senso che non ammette che si critichi i suoi comportamenti o di altri settori.

Queste prassi esistono tutte e due nelle assemblee del movimento e quindi difficilmente riescono a convivere, da qui il carattere "violento" delle assemblee del movimento.

Di fronte a tale situazione, le scomuniche e le calunnie non servono, né serve fare una battaglia politica per il "pacifismo delle assemblee".

Bisogna sconfiggere le due prassi e bisogna batterle insieme perché tutte e due sono allo stesso modo pericolose per il movimento. Nessuno può ergersi a difensore del "vero" movimento, così come a nessuno può essere permesso di risolvere tali contraddizioni a colpi di spranga.

La libertà di parlare e di essere ascoltati dentro le assemblee è un diritto di tutti i compagni del movimento, delle minoranze scomode e delle maggioranze pallose. La parola d'ordine "i controrivoluzionari non parlano", pur se giusta in astratto, nella pratica è molto pericolosa, perché con le attuali divergenze esistenti, ogni settore considera gli altri controrivoluzionari, per cui le "assemblee pacifiche" si avranno, seguendo tale logica, solo quando un settore sarà diventato maggioranza assoluta, oppure quando il movimento di classe sarà stato costretto da questo tipo di prassi a spaccarsi e a dividersi in tante chiese.

Inoltre esiste un discorso molto preciso: che il movimento lotta non per distruggere la libertà, anzi lotta per affermarla, per affermare una libertà non solo formale, ma materiale e reale, che si costruisce, costruendo rapporti sociali egualitari e autogestiti.

Pertanto la libertà di parola va negata solo nel caso di reale e provata, senza ombra di dubbio, lesività nei confronti del movimento, e non per il gusto di non far parlare, né crediamo che il movimento abbia bisogno di "numi tutelari", per cui le "avanguardie" zittendo questo o quell'altro, impediscano al movimento al movimento di essere traviato dalla demagogia di chiunque.

I compagni sono sufficientemente maturi e grandi per dire no alle mamme e ai papà e per prendere nelle proprie mani il proprio destino, scegliendo la via che ritengono giusta. A meno che i compagni che usano questa prassi non ritengono che sin da oggi bisogna educare le masse al dispotismo del comitato centrale; solo in questo caso tale prassi sarebbe giustificata, ma sappiano sin da oggi questi compagni che ci troveranno come ostacoli insormontabili sulla loro strada.

I mass-media e Bologna

La stampa di regime, cioè gli organi di stampa padronali e dei partiti dell'"arco costituzionale" hanno avuto un ruolo fondamentale e sono riusciti a condizionare l'andamento stesso del convegno.

Prima che il Convegno iniziasse (con L'Unità che passava le veline), tutti i giornali si scagliano contro "la marcia degli squadristi libertari" su Bologna, con un'operazione di criminalizzazione preventiva del convegno e dei partecipanti. A giudizio della stampa, a Bologna sarebbero arrivati o delinquenti e i terroristi della peggior specie con toni da 1948: infatti i toni usati per descrivere i partecipanti sono vicinissimi a quegli stessi usati dalla DC nel 1948 contro il PCI.

Da ultimo il comizio dell'onorevole Belinguer al Festival nazionale di Modena dell'Unità, in cui definisce i partecipanti "untorelli", riesumando i "Promessi Sposi" del Manzoni, ma dimenticando di aggiungere che gli "untorelli" non sono mai esistiti, ma erano una invenzione della classe al potere di allora, per deviare la rabbia dei proletari, del popolo, contro i fantasmi, piuttosto che contro i loro reali nemici; evidentemente il lupo cambia il pelo, ma non il vizio, cioè gli strumenti di controllo e di repressione.

Iniziato il Convegno, il Comune di Bologna e il PCI passano sempre le veline, tutta la stampa inizia l'opera di divisione del movimento facendo appello alle "formazioni cosiddette responsabili" per isolare il cosiddetto "partito armato"; come contropartita "un piatto di lenticchie".

Tale fase è confacente all'attuale piano di criminalizzazione delle lotte; infatti dopo aver criminalizzato i gruppi armati clandestini, adesso si tenta di criminalizzare il settore dell'Autonomia Operaia, poi andranno avanti; non credano coloro che oggi stanno dando una mano a tale piano, di cavarsela, vendendo "per un piatto di lenticchie" questi compagni.

Finito il convegno, la stampa esulta: ha vinto la democrazia. Il PCI è il nuovo partito d'ordine e per una settimana viene idolatrato dai bottegai di Bologna e dalla borghesia italiana.

Il mostro è scomparso? Si è volatilizzato? Per niente! Ricompare puntualmente quando il movimento dalla discussione passa alle lotte.

L'opera di criminalizzazione continua e non colpisce solo chi usa la P.38, come vorrebbero "i nostri bravi opportunisti", ma tutti coloro che lottano contro la ristrutturazione, sia che queste lotte vengano portate avanti con mezzi legali, che illegali.


La repressione non è nata nel 1977, ma è il dominio quotidiano della borghesia sugli sfruttati

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