1977 - "...dopo Bologna"

La repressione non è nata nel 1977, ma è il dominio quotidiano della borghesia sugli sfruttati

 

Da sempre, da quando esiste lo sfruttamento dell'uomo, gli sfruttatori hanno dominato con la violenza gli sfruttati. Nella società capitalista la borghesia ha organizzato tale violenza e la esercita collettivamente attraverso l'apparato statale, che al tempo stesso è controllo ideologico capillare sugli sfruttati attraverso le sue articolazioni, da una parte, e dall'altra violenza della borghesia, collettiva, contro gli sfruttati.

Significa calpestare la storia dire "la repressione non esiste", oppure dire che è nata oggi, nel 1977. La repressione è una costante di tutti i sistemi di sfruttamento e di controllo ideologico sulle masse degli sfruttati, cambiano nel tempi i modi in cui essa si svolge, i tempi, la copertura ideologica. Solo in determinati periodi storici essa abbandona ogni copertura ideologica, tendente a catturare il consenso degli stessi sfruttati, e si manifesta per quella che è quotidianamente violenza collettiva di classe dominante contro i dominati. Chiunque nega questo aspetto, nega che oggi ci si trova in una società capitalista, divisa in classi, divisa tra padroni e proletari, tra oppressi e sfruttatori, tra chi comanda e chi ubbidisce, e ciò perché "questi signori" hanno privilegi da difendere.

Tali teorizzazioni, portate avanti dagli apparati del PCI e dei sindacati, servono a coprire il ruolo reale che questi apparati svolgono, oggi, di repressione, non solo perché "delatori" nei confronti delle avanguardie rivoluzionarie (questa è solo una conseguenza), ma soprattutto perché cogestori di un sistema di sfruttamento, di una ristrutturazione capitalistica repressiva nei confronti dei bisognosi proletari.

Chi invece teorizza "la repressione" come un fatto dovuto solo alla contingenza del momento, considera tale aspetto come un qualcosa di eccezionale, quando magari sono solo alcuni modi di esercitarla che divengono "eccezionali", soprattutto nei momenti in cui i conflitti di classe si acutizzano e la borghesia deve necessariamente, per difendersi, ricorrere a misure speciali di repressione, oppure al terrorismo antioperaio vero e proprio.

Oggi i modi in cui questa repressione si è esercitata, da 30 anni a questa parte, stanno cambiando; questo soprattutto perché in Italia esiste ancora un proletariato non domato, forte, che cerca continuamente di impedire che la borghesia porti a termine un processo di ristrutturazione, antiproletario.

Esiste ancora uno Stato di diritto?

Con la lotta antifascista in Italia, viene instaurato un regime a "democrazia parlamentare" che nasce sì da una sconfitta proletaria maturata in circa in decennio (dal 1943 alla fine degli anni '50), ma che chiaramente, non può essere visto come un fatto unilaterale, di continuazione della dittatura della borghesia (errore in cui cadono molti schematisti), ma come frutto di un nuovo rapporto tra le classi sociali, pur rimanendo il dominio della borghesia, che però nell'esercitarsi deve tener conto di un proletariato forte e quindi deve anche darsi nuovi strumenti di controllo.

La Costituzione italiana, come patto interclassista, sancisce e formalizza tali rapporti di forza, i quali venendo a mancare negli anni '50, determinano di fatto, per molti aspetti, la non entrata in vigore neanche di quel patto.

Negli anni '60 il risorgere delle lotte operaie ripristina quei rapporti di forza, tanto che "i famosi rappresentanti della classe operaia" possono ritirare fuori quel patto del 1945 e riproporlo, come patto interclassista; da qui la battaglia della sinistra ufficiale per l'applicazione della Costituzione.

Tale battaglia è continuata sino ai primi anni '70, cioè sino a quando le condizioni economiche hanno permesso la presenza di un conflitto di classe, recuperabile all'interno di quel patto. Con la crisi economica, tale strategia è entrata in crisi, in quanto non era più possibile gestire i conflitti di classe dentro quella strategia, per cui si arriva alla fase attuale, per cui potremmo dire che continuamente quel patto viene messo in crisi e rinnovato continuamente a seconda delle nuove esigenze di difesa del sistema capitalistico.

Da qui l'introduzione nel sistema italiano di una serie di norme tendenti alla modificazione di quel patto, temporanea se le condizioni dei conflitti sociali lo permetteranno, a tempo indeterminato, anzi peggiorate fino all'aperta guerra civile, se le condizioni non lo permetteranno: cioè se il proletariato italiano non vorrà piegarsi ai padroni e al loro Stato.

Da qui un patto sociale diverso da quello del 1945, e non nella vocazione fascistoide di Andreotti e Berlinguer (accordo a 6). Unica differenza rispetto al 1945, che oggi esiste una opposizione di classe radicata che tende a darsi un progetto non più interclassista, ma classista, cioè che tende a risolvere le attuali contraddizioni, gli attuali bisogni degli sfruttati, dentro un programma, un progetto di società in cui venga eliminato il lavoro salariato, in cui venga eliminato lo sfruttamento, in cui vengano eliminate le classi sociali; una società senza classe gestita direttamente dai lavoratori, da coloro che producono, dagli sfruttati. E' questo che la borghesia non può sopportare.

Da qui lo "Stato di diritto" come patto sociale di "convivenza civile tra le classi sociali" non esiste più; al suo posto nasce un nuovo patto sociale, inserito nelle contraddizioni economico-politico-sociali di oggi, che non lascia spazio, anzi ha già dichiarato fuorilegge l'opposizione di classe così come l'abbiamo definita. Per rendere operativo tale patto occorre una ristrutturazione degli apparati repressivi, che permettano sì lo Stato di diritto (garanzia delle libertà democratiche) ma solo a coloro che accettano "il patto sociale".

Un sistema di democrazia repressiva

Quali sono i cambiamenti apportati?

1) Sistema carcerario: creazione delle supercarceri e militarizzazioni delle carceri normali; impedire qualsiasi rivolta del proletariato detenuto; impedire che dentro le carceri nascano delle lotte in grado di far saltare uno degli strumenti più potenti della repressione, tenendo presente che in periodo di crisi economica, di disoccupazione, i delitti contro la proprietà privata aumentano per cui il carcere diventa l'istituzione più amata dalla borghesia.

2) Militarizzazione e uso per risolvere i conflitti sociali di tutte le altre istituzioni repressive (case di rieducazione, manicomi, riformatori, scuole speciali, classi differenziali, ecc.).

3) Specializzazione dell'esercito in funzione di "ordine sociale": l'esercito che dovrebbe servire contro i nemici esterni viene sempre più usato in funzione antisciopero, o di ordine pubblico "febbraio-marzo 1977".

4) Ristrutturazione delle Forze dell'Ordine: creazione di corpi specializzati in funzione antiguerriglia, dotazione di un nuovo armamento leggero da usare durante le manifestazioni.

5) Subordinazione totale di tutti gli apparati alla difesa dello Stato, compresa la magistratura, cioè la separazione formale dei poteri, legislativo, giuridico ed esecutivo viene meno, ma non totalmente; ma solo "contro i nemici delle istituzioni", cioè coloro che non accettano il "patto sociale".

Per definire questi processi vengono usati termini diversi. "fascistizzazione dello Stato" oppure "germanizzazione", oppure "socialdemocrazia repressiva".

A nostro avviso tutti e tre questi modi di definire il processo attuale in Italia sono errati, non in tutto ma in alcune loro parti, in quanto non colgono complessivamente il processo in atto, che badiamo bene non è lineare, ma solo degli aspetti che poi vengono generalizzati.

Fascistizzazione dello Stato: c'è una svolta autoritaria, ma essa è diversificata, non colpisce tutti indistintamente, anzi nel modo in cui colpisce dimostra una intelligenza ineguagliabile; non solo, ma non coglie un fatto importante, che non esiste in Italia una borghesia che voglia la guerra aperta contro i proletari, anzi il patto sociale è la negazione di tale scelta (questo non significa che in futuro la borghesia non apra le ostilità aperte per mantenere il suo dominio), per cui tale definizione non permette di cogliere il rapporto tra apparati repressivi legali e apparati repressivi illegali (utilizzo dei fascisti in determinati momenti, ecc.).

"Germanizzazione": anche tale definizione non può essere accettata, perché pur avendo il processo, che si sta svolgendo in Italia, dei lati in comune con quello avvenuto in Germania, le caratteristiche profonde, le forze che determinano questo processo sono diverse; non solo, ma mentre la "germanizzazione" presuppone un processo lineare e scontato, per noi è molto contraddittorio.

"Socialdemocrazia repressiva": indubbiamente questa è la formula che più di altre coglie il processo in corso, cioè un "patto socialdemocratico" con ruolo portante dentro questo patto del PCI e gli apparati sindacali, con un ruolo repressivo del patto in sé, e che ha come esecutori il PCI e apparati sindacali. In parte cose vere, in parte no: esagera fortemente il ruolo dei riformisti, considera tale processo come un processo quasi compiuto anzi operante, mentre nella realtà tutto ciò non è vero, nel senso che non esiste da una parte la classe operaia controllata dai riformisti integrata dentro il patto sociale, come da questo tipo di analisi se ne deduce, anzi tale rapporto viene ogni giorno incrinato, per cui il ruolo dei riformisti, perso il controllo sul proletariato, verrebbe a cadere. Tale questione non è di poco conto, perché comporta tutta una prassi diversa da parte del movimento verso i settori e gli strati sociali controllati dai riformisti: con ciò vogliamo dire che prima che Berlinguer diventi il nuovo Noske e l'opposizione di classe il nuovo Movimento Spartachista ce ne vuole di tempo, e in questo spazio non può essere usata la stessa tattica come se il fatto fosse già avvenuto.

Secondo noi, per come il processo lo abbiamo descritto, è difficile trovare una formuletta che semplifichi le cose, ma crediamo che definire la fase attuale come una fase di democrazia repressiva sia quella più rispondente al tipo di analisi che abbiamo fatto, pur avendo dei limiti.

Quale strategia contro la repressione

Esistono tre risposte a nostro avviso a questa domanda, tutte e tre venute fuori e presenti a Bologna, due delle quali verificate dal movimento, parzialmente o totalmente, una terza che il movimento deve approfondire, sulla quale senz'altro si muoverà nei prossimi mesi.

1) una risposta che potremmo definire di carattere "costituzionalista", nel senso che di fronte alla nuova realtà chiede il ritorno al "patto sociale" del 1945, dove veniva garantito il diritto a dissentire, la libertà di parola; tale ipotesi riprende la vecchia battaglia del PCI per l'applicazione della Costituzione, per il rispetto dei diritti civili. Tale risposta viene praticata dai gruppi che si riconoscono nell'area di Democrazia Proletaria, tendente a coinvolgere i "cosiddetti settori democratici" dell'opinione pubblica: intellettuali, borghesia progressista, settori democratici della magistratura, coinvolgendo singoli uomini dei vertici sindacali, la sinistra sindacale e, molte volte, vista l'attuale posizione, PSI e UIL. Tale posizione, pur di avere il diritto di esistenza, predica un codismo nei confronti dei riformisti, o al meglio essere una spina nel fianco; non si pone il problema dell'alternativa, se non in termini di "governo delle sinistre", ipotesi fallimentare o utopistica, data la situazione attuale, perdente in partenza per il proletariato in quanto il tutto avverrebbe a scapito della sua autonomia; all'interno delle lotte tale area è scarsamente presente e marginale. Tale strategia non garantisce dalla repressione, apre spazi alla divisione all'interno del movimento, costringendo il movimento dentro una pratica istituzionalista facendogli perdere il suo carattere fortemente anti-istituzionale, in ultima analisi consegna il movimento disarmato nelle mani dei riformisti.

2) Una seconda risposta che punta a sviluppare i rapporti di forza militari con lo Stato attraverso un innalzamento continuo dei livelli di scontro, oppure attraverso una risposta adeguata ai livelli di scontro imposti dallo Stato; intorno a tale ipotesi si raggruppano i collettivi dell'Autonomia Operaia organizzata, che tendono, attraverso la prassi dello sviluppo di tali rapporti di forza, alla costruzione del Partito Combattente, in grado di aprire in Italia un processo rivoluzionario. Tale ipotesi è perdente, non solo perché oggi, dati i rapporti di forza, una logica che punta all'innalzamento continuo dei livelli di scontro è perdente, in quanto l'apparato repressivo dello Stato è in grado in poco tempo di isolare, criminalizzare e sconfiggere qualsiasi minoranza che si ponga su questo terreno, ma anche per altri due motivi che si sembrano forse più validi di quello di un errore tattico: a) perché tale concezione tattica rimanda ad una concezione della rivoluzione di tipo terzointernazionalista, la "presa del palazzo d'inverno"; b) perché per poter difendere tale posizione dentro il movimento, quest'area è costretta a sostenere una concezione economicistica dei bisogni, facendo leva da una parte sui lati più aberranti del sistema capitalistico (miseria, Severo, compagni in galera, ecc.), dall'altra "sui sentimenti umani" dei compagni. Tale posizione porta all'isolamento e non al suo estendersi, porta alla eliminazione di qualsiasi iniziativa di massa, in quanto oggi secondo questa ipotesi non esistono più spazi per la lotta di massa e per la soddisfazione di alcune rivendicazioni portate avanti, per cui oggi è praticabile solo la lotta per il potere; le lotte rimandano al potere, compito delle minoranze è quello di organizzarsi per la presa del potere. Un'analisi pessimistica della situazione completa il quadro: se il potere oggi non permette che si svolgano più lotte nemmeno sul terreno legalitario, se ti mettono in galera anche se fai lo sciopero della fame, oppure la raccolta di firme (vedi 12 maggio a Roma), l'unica possibilità per uscire da questo tipo di situazione è rispondere colpo su colpo praticando i livelli di scontro imposti e scelti dal nemico.

3) La terza risposta presente nel movimento, non riconducibile a nessuna area politica, che a noi sembra la più corretta, è quella che tende a far vivere il movimento sui rapporti di forza reali che esso riesce a determinare: radicamento negli strati sociali coinvolti, sviluppo della coscienza di classe e della maturità del movimento, allargamento del movimento stesso, lotte di massa gestite direttamente da tutti coloro che vi partecipano, rifiuto dell'avanguardismo e di tutte le pratiche che sono esterne alla coscienza di massa. Tale ipotesi ha il pregio di partire dallo stato di cose attuali, mantiene il carattere anti-istituzionale del movimento, anzi lo sviluppa, ma nello stesso tempo affida la difesa dei suoi contenuti, delle sue caratteristiche, della sua esistenza, alla sua reale capacità, non delegandola né allo Stato borghese e alle sue "garanzie", né alle avanguardie politico-militari. Rifiuta il terreno avanguardistico dello scontro e della lotta, cerca di spezzare la spirale repressione/lotta contro la repressione/repressione, sviluppando tutte quelle iniziative di massa (dall'informazione alla lotta) necessarie allo scopo, che non sono pacifiche per principio (prima risposta), né militari per principio, ma sviluppa continuamente la capacità militante e autodifensiva del movimento nella sua globalità.

Nessuna delle tre risposte garantisce dalla repressione, nel senso che la repressione nessun movimento per quanto forte può eliminarla, ma un movimento ha il dovere di porsi il problema della sopravvivenza e della continuità della lotta di massa, nonostante la repressione, dandosi quindi tutti quegli strumenti politico-tecnici che siano in grado di fare ciò.

Ed è da questo punto di vista che la terza risposta è, alla luce dei fatti, la più completa, la più complessiva, la più adeguata alla situazione attuale.


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