I Comunisti Anarchici e l'Organizzazione di Massa

III. Per un strategia di intervento dei comunisti anarchici

 

III.1. Unità proletaria e sue implicazioni strategiche

Quanto fin qui detto sulla storia del problema dell’unità di classe ci fornisce alcuni utili insegnamenti. Il primo, e più importante, è che i riformisti temono l’unità di classe che si cementi alla base alla ricerca della soddisfazione dei bisogni immediati; il secondo è che l’unità sindacale viene da essi intesa solo come accordi di vertice per il controllo della spontaneità delle lotte, ed in tal senso diviene un’arma contro l’azione delle minoranze rivoluzionarie. Quello che si può ricavare da questi insegnamenti è un complesso di norme di comportamento necessarie allo sviluppo di un processo rivoluzionario all’interno dell’organizzazione di massa, fine dell’organizzazione politica comunista anarchica. Richiamiamo brevemente alcuni concetti già espressi nella prima parte di questo documento, per quanto ci serve agli scopi di una definizione di una strategia di intervento che tenga conto delle discriminanti fin qui tracciate.

La premessa essenziale è che punto di riferimento costante del militante comunista anarchico deve essere l’unità di classe. Questa impostazione ci viene convalidata dal timore che i riformisti hanno dimostrato di avere per dei Consigli di Fabbrica espressioni dirette della classe operaia in fabbrica, al di fuori dei controlli verticali, o peggio ancora di un “Sindacato dei Consigli”.

D’altra parte se l’unità d classe è chiaramente una discriminante teorica dei comunisti anarchici, l’unità sindacale pone notevoli problemi tattici. Il discorso fin qui svolto dovrebbe fugare ogni dubbio sulla scelta strategica di comunisti anarchici nei confronti di un sindacato unico per tutti i lavoratori. Ma lo stare dentro il sindacato oggi pone due problemi tattici fondamentali, l’unità sindacale intesa quale Federazione Unitaria Cgil-Cisl-Uil, che bene o male continua ad essere l’unico modello nella mente dei vertici sindacali, e che ha molte scarse rassomiglianze col sindacato dei lavoratori da noi individuato nella prima parte di questo documento; ed il rapporto non frazionistico all’interno del sindacato di appartenenza.

Per quanto riguarda il primo, è fondamentale non subire il ricatto dell’unità sindacale quale la intendono i riformisti e cioè come unità dei vertici nei confronti dei lavoratori. Troppo spesso, infatti, le esigenze “unitarie” vengono invocate per mascherare scelte di linea che non si vogliono porre in discussione tra i lavoratori; ed altrettanto spesso le “consultazioni” si riducono a farse, in cui nulla può essere posto in discussione, perché ogni singola parola è frutto di un sottile equilibrio di mediazioni raggiunte in estenuanti lotte di vertice. È ovvio che questa pratica nulla ha a che spartire con i comunisti anarchici e che l’effettivo ricorso all’espressione della volontà di base dei lavoratori è l’unica garanzia di verifica di una linea sindacale che tale intenda essere.

D’altra parte è anche fondamentale non credere del tutto scollegate unità di classe ed unità sindacale. Sia perché l’unità sindacale è stata una risposta distorcente alle esigenze unitarie espresse dai lavoratori nel ciclo di lotte del 1969-1972, sia perché abbiamo visto che proprio l’effettiva congruenza tra unità di classe ed unità sindacale, riproposta con forza dal movimento degli “autoconvocati”, è avversata dai riformisti; da qui la loro opposizione evidente al Sindacato dei Consigli.

A questo punto si innesta il secondo problema tattico: come operare all’interno del sindacato di appartenenza, contemporaneamente nel senso dell’effettiva unità di classe ed in rapporto ad una linea politico-strategica coerente ai principi enunciati, senza incorrere in un rapporto frazionistico. Una volta accettato di lavorare all’interno del sindacato, in quanto operare al di fuori dei reali livelli di coscienza della classe e prefigurarsi un proletariato incontaminato, intimamente rivoluzionario, ma soffocato dai vertici malvagi, è operazione idealisticamente inutile, ed una volta scelta la Confederazione che più offre spazi alla nostra azione, da questa occorre partire per lo sviluppo di un reale processo unitario, che nasca dai lavoratori e non dalle mediazioni di linea. Quest’ultima frase chiarisce anche cosa debba intendersi per “spazio” offerto alla nostra azione: non certo il vuoto in cui sia più facile contare, ma la presenza reale dei lavoratori non disgiunta da una valutazione di tradizioni di lotta e di linea di classe.

Ne consegue che occorre anche cercare di non subire, né tanto meno cercare un’espulsione dal sindacato come minoranza, espulsione vista, a volte, come rigenerazione rivoluzionaria, sia per i motivi sopra detti del vantaggio che dall’espulsione delle minoranze rivoluzionarie riceverebbero i partiti riformisti, sia perché, comunque, ciò si tradurrebbe in una divisione della classe su problemi di coscienza rivoluzionaria. Questo del frazionismo è un nodo importante. Chiunque abbia operato, anche per breve tempo, all’interno di un sindacato sa che in esso esistono varie correnti o “componenti”. Questo fatto è tanto universalmente accettato che i vertici vengono dosati secondo la presunta consistenza delle componenti, ma non solo i vertici, anche i delegati per le consultazioni e per i Congressi, eletti su liste “unitarie”, sono frutto di dosaggi correntizi. È qui che si svela la beffa della “democrazia sindacale”, si contrabbanda per maturità la formazione di liste unitarie, magari a numero bloccato, si contrabbanda per volontà unitaria il voto palese, ma in realtà i lavoratori sono chiamati a ratificare formalmente i frutti di giochi che si svolgono al di fuori del loro controllo.

Ma che senso ha allora il problema della frazione se queste esistono “formalmente”, alla luce del sole? La verità è che le componenti, dopo essersi divisi i posti, sono disposte a mediare le rispettive posizioni politiche negli organismi dirigenti, per presentarsi poi con proposte “unitarie” ai lavoratori; sono ammesse a volte prese di posizioni autonome e fuori linea (fanno parte di una buona campagna elettorale e le componenti devono saggiare il terreno degli iscritti), basta poi la disponibilità a mediarle, pena la derubricazione dagli organismi dirigenti. La frazione non è allora, nell’ottica sindacale, questa lottizzazione del sindacato, ma la volontà di esprimersi fino in fondo e di chiamare i lavoratori ad esprimersi sempre e comunque su scelte di linea, nella chiarezza delle rispettive posizioni. A questo tipo di frazione i comunisti anarchici non possono rinunciare per scelta strategica; possono solo rinunciare ad atteggiamenti inutilmente provocatori, che facciano fallire la sostanza delle proposte per una pretesa coerenza comportamentale; l’importante è la chiarezza nei confronti dei lavoratori, non certo essere più o meno invisi ai dirigenti.

Occorre, quindi, operare in modo da non subire il ricatto della scissione, ma neppure quello dell’unità, soprattutto se intesa cooptazione nei vertici sindacali, dei quali si andrebbe di fatto a cogestire ed a coprire da sinistra la linea. La nostra strategia è quella di un compattamento dei lavoratori alla base e di un uso dei livelli superiori delle strutture sindacali solo nei termini di una loro possibile gestione dal basso. Per intendersi il problema non è quello di non entrare in una Segreteria perché, in sé, elemento burocratico, ma di non entrarvi in quanto minoranza, subendo così il ricatto dell’unità del sindacato nei vertici, quale la intendono i riformisti.

Da tutto quanto detto discende che i comunisti anarchici non possono collocarsi all’interno del sindacato alla stregua di una delle tradizionali componenti, diversa solo nei contenuti, proprio perché convinti che la linea politica ha possibilità di verifica solo con il confronto tra i lavoratori e che è quindi prioritario realizzare un metodo di funzionamento sindacale che restituisca ai lavoratori la possibilità e la capacità di decidere, cosicché questo metodo possa poi premiare le proposte strategiche più funzionali agli interessi dei lavoratori. Non è tanto importante, oggi, avanzare piattaforme più radicali, quanto spingere i lavoratori a decidere  realmente i propri obiettivi in prima persona. Porsi come componente vorrebbe dire contraddire questa scelta strategica e ripercorrere metodologie che già hanno visto fallire la sinistra sindacale, vorrebbe dire entrare nella logica dell’unità sindacale come mediazione di vertice. Che significato ha farsi cooptare nelle istanze di vertice o farsi delegare a consultazioni e Congressi su liste unitarie predisposte, se si crede che i delegati debbano rappresentare gli interessi di chi li delega ed i vertici eseguire la volontà di chi li elegge, mentre con i metodi suddetti si eseguono gli ordini che da più in alto provengono o si rappresenta i riformisti che benignamente ti includono nella “lista unitaria”? Senza contare che questi metodi nessuna chiarezza arrecano al dibattito tra i lavoratori.

E inoltre. Dovendo scegliere in quale sindacato costituirsi come componente, quale preferire? Quello più di classe? Questo è un discorso già visto. Non vogliamo negare che per tradizione e composizione le attuali Confederazioni siano differenti l’una dall’altra, come i fatti più recenti tendono a dimostrare, ma credere che la Cgil sia ancora il sindacato di classe è un grave errore strategico. Non si sta in un sindacato perché “è di classe”, ma perché è lì che i lavoratori si riconoscono ed è lì che bisogna operare per interagire con gli altri lavoratori. Dare la patente di “sindacato di classe” ad una delle Confederazioni, a parte che è azzardato ad un’analisi delle loro strategie, vuol dire ancora una volta fare una scelta di campo ideologica e non politica e strategica. Cosa farebbero i comunisti anarchici il giorno che dovessero scoprire che la Cgil non è più un sindacato di classe, se mai lo è stato? Stretti da questa logica, dovrebbero fondarne uno realmente di classe.

Ma veniamo all’obiezione cruciale. Per i comunisti anarchici non è importante rivendicare un ruolo (ed un posto) in quanto tali, ma sviluppare una strategia che dia poteri decisionali alle organizzazioni di base dei lavoratori ed individui il sindacato quale loro proiezione organizzativa generalizzata. I comunisti anarchici non hanno un ruolo nel sindacato in quanto tali, ma in quanto avanguardie riconosciute dei lavoratori, in quanto lavoratori tra i lavoratori. Essi si danno un’organizzazione politica non per farla pesare in quanto tale, ma per elaborare una strategia comune; ma nel sindacato quello che conta non è avere un delegato comunista anarchico, ma un delegato che rappresenti realmente gli interessi della base che lo esprime. Nostra speranza, politica e non personale, è quella che siano i comunisti anarchici tali delegati, ma in quanto riconosciuti rappresentanti, non in quanto comunisti anarchici. È sempre prioritario operare per l’unità dei lavoratori e per un loro ruolo9 reale nella definizione della linea strategica del sindacato, perché è dal compattamento alla base dei lavoratori che prenderà forma l’organizzazione di massa autonoma ed autogestita.

 

III.2. Elementi di strategia di intervento sindacale

La chiarezza e la definizione di una precisa strategia complessiva a lungo termine non è l’unica cosa fondamentale per il corretto intervento di classe da parte dei comunisti anarchici dentro l’organizzazione di massa ed il movimento operaio. Necessita anche una risposta immediata da dare ai lavoratori di fronte all’offensiva padronale ed alle proposte con cui i riformisti ed i vertici sindacali tentano di portare la classe al disarmo, con il conseguente adeguamento e svendita delle strutture sindacali di base. Essere coscienti di questa risposta e tenere presente il quadro da noi tracciato finora in questo documento vuol dire non rifugiarsi nello slogan in grado di darci soddisfazioni personali quanto effimere, o nel tentativo di presentare parole d’ordine o piattaforme da ritenere tanto più giuste quanto più sono radicali. Si tratta invece di individuare quali sono i contenuti che sono in grado di inceppare e contrastare il controllo riformista sulla classe; si tratta di non andare ad attaccare il sindacato in quanto tale, ma di tenere ferme certe proposte che di fatto sono alternative e riescono ad introdurre contenuti comunisti anarchici, tenendo conto cioè dell’unità, dell’autonomia, del decentramento e del federalismo, dell’autogestione delle proprie lotte, della lotta di classe e dell’azione diretta.

Il nostro obiettivo, infatti, non è quello di ritagliarci spazi da noi gestiti, ma impedire che continui ad esistere un sindacato caratterizzato dalla presenza di un vertice separato dalla base e dalle categorie. Un primo passo verso la realizzazione di questo programma è impedire che si possano utilizzare le strutture intermedie del sindacato come un momento di trasmissione di una linea politica elaborata dal vertice e calata sulla base.

E qui vanno sottolineati i rischi di questa linea. La situazione che si viene a creare, se non ci sono obiettivi praticabili ed inquadrabili nell’ambito della nostra strategia generale, semina sfiducia che, affinché non si trasformi in atteggiamenti qualunquistici, va recuperata mediante una presenza attiva di proposte e di lotte che rilanci l’iniziativa a partire dalle categorie. Solo così le strutture di base del sindacato (ancora esistenti) riprenderanno vigore per capacità d’iniziativa e non solo in fasi difensive alla lunga perdenti. È perciò che si impone la riflessione che richiamavamo all’inizio.

Il collegamento realizzatosi nelle lotte tra i compagni va reso stabile e precisato perché possa costituire lo strumento di confronto di esperienze di intervento e di lotta, per rafforzare il lavoro sindacale e politico nelle categorie e sul posto di lavoro. Dobbiamo allora elaborare proposte e programmi da portare in categoria su temi come l’inquinamento, le mansioni, il salario, l’orario, l’ambiente di lavoro, etc. Dobbiamo cercare nelle assemblee la verifica di questo programma, anche nello scontro con gli apparati sindacali, al tempo stesso va condotta una battaglia di linea e di programma politico dentro il sindacato, distinguendosi sui contenuti delle proposte ed avendo come obiettivo la rottura degli schieramenti di partito.

Alcuni esempi e considerazioni chiariranno quanto si intende dire. La linea strategica che le Organizzazioni Sindacali si sono venute a dare fin dall’Assemblea dell’Eur ha portato ad una continua svendita di obiettivi, ad una contrattazione progressivamente al ribasso; tutto ciò ha comportato l’accettazione nei fatti del blocco dei salari e di una loro reale perdita di valore, all’accettazione della mobilità più selvaggia fino ad autentici licenziamenti collettivi come alla Fiat, in pratica alla subalternità alla ristrutturazione padronale che punta all’espulsione della manodopera ed agli aumenti di produttività. A tutto questo non dobbiamo rispondere solo dicendo che  si vuole più salario e meno orario, che bisogna lavorare meno e tutti, ma dobbiamo affiancare al momento agitatorio anche l’azione di ostacolo al processo di ristrutturazione in atto.

Contrapporre per  esempio all’isolamento in cui il decentramento produttivo tenta di ricondurre i lavoratori, dei momenti di unità di lotta e di classe a livello territoriale e non; ecco quindi la pratica del collegamento delle piccole fabbriche, o di settore o in lotta, del rilancio dei Consigli di Zona intesi quali momenti reali di confronto e di progettazione della strategia sindacale. È evidente che la realtà rende questa pratica estremamente difficile e quindi obiettivo di lungo periodo, visto che essa potrà andare incontro all’ostilità palese o velata delle burocrazie sindacali, ma è anche evidente che la sua riuscita od il suo fallimento dipenderanno anche e soprattutto da quello che riusciremo a costruire precedentemente come forza ed unità operaia e come chiarezza strategica, in particolare nella situazione in movimento dei “coordinamenti”.

Oggi che la “professionalità” è divenuta la parola d’ordine sindacale e lo strumento fondamentale nei contratti di superamento degli obiettivi unificanti conquistati nelle lotte del 1968-1969 in una strategia tendente ad una ristratificazione gerarchica all’interno della fabbrica per battere in particolare l’egualitarismo, visto dal sindacalismo riformista come responsabile principale dell’appiattimento salariale e quindi della “disaffezione al lavoro”, un semplice richiamo rituale ad esso non basta: occorre invece, a partire da un’analisi delle modificazioni che la rivoluzione informatica in atto comporta nell’organizzazione del lavoro, dimostrare come non vi sia alcuna base strutturale al mito della professionalità e come quindi esso si presti solo ad un’operazione ideologica[1].

Bisogna quindi essere coscienti che tutte le richieste che partono dai bisogni materiali dei lavoratori vanno di fatto a scontrarsi con la ristrutturazione padronale e con la linea delle burocrazie sindacali. Essere quindi coscienti che rivendicare il Sindacato dei Consigli o comunque il sindacato autogestito alla base, oggi, vuol dire scontrarsi non ideologicamente con i vertici, ma cercare di inceppare la normalizzazione nella fabbrica, vuol dire ostacolare la ristrutturazione sindacale che vorrebbe accentrare ogni livello di decisione, di contrattazione e di conflittualità.

Il localismo (mancanza di strategia generale) e l’intellettualismo verso la classe (lontananza dai contenuti e dalla realtà operaia) non potranno mai portare ad una crescita della coscienza di classe, mentre la chiarezza su cose anche minime non può che favorire l’unità degli sfruttati sui bisogni  immediati, che noi dobbiamo poi saper trasformare all’interno dell’organizzazione di massa in bisogni storici.

 

III.3. Sulle strutture intermedie

Tutto questo (e la scelta più volte definita di esplicare il nostro intervento attraverso le strutture di base dell’organizzazione di massa, espressione concreta in un dato momento storico del livello di coscienza dei lavoratori, e quindi anche di quella riformista) non ci fa escludere l’esistenza e lo sviluppo di aggregazioni di militanti sindacali che si ritrovino su di una linea di opposizione, aggregazioni che noi individuiamo con il nome di Organismi Intermedi. Questi possono differenziarsi a seconda della lotta per cui sono nati e degli obiettivi che si sono posti, ma comunque non devono avere quei connotati che li caratterizzerebbero come organizzazioni politiche od appendici di queste e cioè non devono definirsi strategicamente ed ideologicamente, ma debbono agire da collegamento per chi ne fa parte.

Accanto a queste caratteristiche fondamentali che per noi contraddistinguono gli organismi intermedi, dobbiamo dire che questi possono essere gli strumenti che l’organizzazione politica dei comunisti anarchici può darsi per rendere possibile l’apertura di spazi di intervento – e poter quindi sviluppare le proprie proposte strategiche – in un’organizzazione di massa strutturata verticalmente, capace di un controllo stretto sui lavoratori e che preclude spazi reali di democrazia sindacale.

È quindi evidente che, se siamo d’accordo sull’esistenza di organismi intermedi, non lo siamo in assoluto né per sempre. Riconosciamo cioè in questi organismi una funzione tattica per meglio articolare il nostro intervento qualora ci trovassimo di fronte una certa organizzazione di massa in una certa realtà. L’organismo intermedio, allora, è uno degli strumenti che si dà l’organizzazione politica dei comunisti anarchici per far contare e per permeare della propria linea politica un sindacato che non offre la possibilità di portarla avanti. Nel caso in cui l’organismo intermedio non sia formato dall’azione propulsiva dell’organizzazione politica, sarà vagliata di volta in volta – dalla competente sezione territoriale – la possibilità di intervento al suo interno.

In quest’ottica la ricerca e l’agitazione per una reale democrazia sindacale, che in sé può anche non voler dire niente se non riempita di “contenuti”, all’interno dell’organizzazione di massa non si pone come obiettivo strategico, ma semplicemente come condizione sine qua non per poter portare avanti ed articolare la propria linea politica.

È chiaro che, nel momento in cui si sviluppa il processo rivoluzionario ed è possibile alle masse, coscienti della saldatura tra interessi storici e bisogni immediati, dar vita ad un’organizzazione di massa realmente autonoma, autogestita, di classe, il problema degli organismi intermedi viene ad essere ridimensionato fino alla sua scomparsa, soprattutto se a ciò si affianca la presenza dei comunisti anarchici strutturati nella propria organizzazione politica.

L’organismo intermedio – momento di collegamento tra lavoratori di uno stesso settore – può sorgere per problemi contingenti (ed è allora temporaneo e funzionale finché una certa lotta o problema rimane in piedi) oppure come coordinamento di lavoratori per un confronto sindacale più generale e non più limitato alla singola fabbrica, ufficio od impianto.

In questi casi bisogna fare estrema attenzione a valutarli nella loro giusta dimensione per evitare che queste strutture si pongano come “alternative” e rimangano invece adeguate al loro scopo, che secondo noi, e lo ripetiamo, deve essere quello di collegare i lavoratori sui particolari problemi di intervento, su cui sono eventualmente nati, di funzionare come momenti di scambio, informazione, socializzazione delle varie realtà di lotta, di coordinamento di compagni strategicamente e teoricamente non omogenei che hanno acquisito e sedimentato una coscienza politica e ritengono necessario confrontarsi anche al di fuori delle strutture sindacali di base, quando addirittura non ne sono fuori perché vivono realtà di lavoro che li portano ad un isolamento non voluto.

Il ruolo dell’organismo intermedio è anche quello di coordinare compagni che l’organizzazione politica incontra sull’intervento e che più concordano con le sue proposte strategiche, al fine di fornir loro l’ottica più generale in cui va inquadrata la lotta politica quotidiana nel luogo di lavoro, cioè la strategia d’intervento.

Questo può produrre due risultati: da una parte qualcuno recepirà discriminanti fondamentali di lavoro politico, che costituiscono il bagaglio che porterà nell’intervento di massa quotidiano, cercando di uniformare la propria prassi a queste discriminanti (unità di classe, azione diretta, etc.) e di farvi uniformare l’organizzazione di massa; costoro saranno quadri attivi coscienti dell’organizzazione di massa. Altri cercheranno un impegno più complessivo facendosi carico, con la maturazione politica, anche del lavoro di elaborazione di una strategia e di una teoria rivoluzionaria: costoro saranno i nuovi quadri dell’organizzazione politica.

Tutto questo, naturalmente, a patto che gli organismi intermedi non degenerino e non acquistino precise tendenze partitiche ed ideologiche proprie di un’organizzazione politica e che, nel loro caso, li porterebbe all’autoisolamento ed alla sconfitta.

Per evitare che ciò accada, l’azione dei militanti comunisti anarchici deve tendere a sollecitare il dibattito all’interno dell’organismo intermedio ed a limitare invece il suo intervento pubblico e propagandistico, sviluppando quindi il coordinamento dei lavoratori per l’intervento sindacale di base; in questo senso l’azione dei militanti comunisti anarchici deve essere costantemente controllata e coordinata attraverso opportuni strumenti che si dà l’organizzazione politica.

La presenza dei militanti deve comunque avere il supporto indispensabile dell’organizzazione politica, che deve essere costantemente presente con proposte complessive, sia sui singoli problemi sindacali che su quelli generali. Se così non fosse, l’azione dei militanti comunisti anarchici non potrebbe che risultare limitata ad un economicismo da cui riceverebbero benefici, alla lunga, solo i riformisti.

 

III.4. La nuova struttura organizzativa del sindacato ed il suo significato

Alla fine degli anni settanta le Organizzazioni Sindacali hanno intrapreso un’opera di modifica delle proprie strutture organizzative che, essendo di vasta portata, merita un’analisi che cerchi di coglierne aspetti essenziali ed implicazioni politiche, pur in presenza di una fase in cui questo progetto incontra difficoltà crescenti di fronte alla rinascita dell’iniziativa da parte del movimento dei Consigli; il programma dei vertici sindacali non è mutato e muterà solo di fronte alla continuazione ed alla crescita di questo movimento. Di esso, comunque, occorre distinguere tre diversi livelli: i propositi dichiaratamente perseguiti, i risultati concretamente conseguiti e le reali prospettive cui va incontro. Due sono le considerazioni fondamentali da cui parte la nostra analisi:

  1. questa ristrutturazione organizzativa nasce dichiaratamente all’interno del tentativo del sindacato di surrogare la crisi di legittimazione dell’apparato statale e l’incapacità dei pubblici poteri di fornire una programmazione in grado di superare la frammentarietà e l’incoerenza delle politiche economiche;
  2. essa nasce anche come risposta tendente ad adeguare la struttura sindacale a quella che si presume essere la nuova struttura tendenziale degli apparati statali e di governo territoriale, strutturazione funzionale allo sviluppo dell’assetto produttivo dell’inizio degli anni settanta.

Al di là del merito, la validità cioè delle valutazioni assunte a giustificazione dell’operazione, validità su cui torneremo in seguito, ci preme subito chiarire la logica stessa che sottende questi due presupposti. Per quanto riguarda il primo, esso è tutto interno ad una filosofia di stampo corporativo, nel senso originario del termine: il sindacato non è più soggetto politico di trasformazione in rappresentanza di una classe ben determinata, ma partecipa al governo della cosa pubblica (il caso Inps è emblematico) in una logica di spartizione del potere tra le parti sociali (o meglio tra i loro rappresentanti “legali”[2]) e di regolazione dei conflitti sociali sulla base di un “bene collettivo” la cui esistenza è data per scontata.

In questa veste il sindacato finisce per non essere più, nemmeno teoricamente, l’organizzazione che i lavoratori si danno per sostenere il confronto con l’antagonista di classe, ma il rappresentante di una base sociale (i suoi iscritti e, loro malgrado, anche gli altri) che partecipa, con le altre, alla spartizione. Se a ciò si aggiunge la visione del Governo (ribadita da Cisl e Uil, nel recente negoziato sul costo del lavoro e rifiutata ora dalla Cgil, dopo l’opposizione espressa dalla base) quale forza di mediazione e di arbitrato di questa spartizione, si vede che le assonanze col sistema corporativo si fanno molto strette, quasi ad avvalorare la sensazione che questo sindacato non si libera del suo peccato originale[3].

Tutto quanto veniamo dicendo trova conforto nel secondo punto: questo perché la motivazione che lo supportano sono tali da potersi inserire nella stessa logica. Infatti il preteso adeguamento alla ristrutturazione amministrativa e produttiva attuata da Stato e padronato, non è finalizzato a migliorare gli strumenti organizzativi del sindacato per il confronto con la controparte, ma per “conseguire efficaci risultati della programmazione, delle conversioni produttive, dell’occupazione e delle riforme” e soprattutto affinché “il sindacato non sia spettatore passivo, a fronte di tali modifiche [delle strutture istituzionali e democratiche dello Stato], ma soggetto attivo per portare avanti efficaci misure di decentramento e di trasformazione della macchina statale.”[4]

Quale doveva essere nei propositi delle organizzazioni sindacali la nuova mappa organizzativa del sindacato? Se da un lato la proposta appare lineare e si modella sulla ristrutturazione istituzionale (che in realtà è da un decennio in perenne attuazione) e su quella produttiva (ai quartieri corrispondono le strutture zonali, all’obsoleta struttura provinciale si sostituiscono i comprensori più aderenti a strutture amministrative territoriali, quali i raggruppamenti di più comuni e le comunità montane, che tendono a ridisegnare istituzionalmente lo sviluppo per aree comprensoriali intrapreso a metà degli anni sessanta dal capitalismo italiano), dall’altra essa non è frutto di unitaria elaborazione (la Cgil voleva solo zone e regioni e la Cisl solo i comprensori), ma di mediazione e questo ne marcherà profondamente la realizzabilità. Un accenno a parte meritano i Consigli dei Delegati, l’innovazione più reclamizzata per garantire la democraticità del funzionamento dell’intero sindacato. Ad una prima lettura sembra tutto bello: elezione su scheda bianca da parte di iscritti e non iscritti al sindacato, Cdd come struttura di base del sindacato, etc. Ma già ci sono le premesse per imbrigliare ogni autonomia: i delegati di gruppo omogeneo possono essere sostituiti da quelli di area omogenea, concetto indefinito, ma atto a mantenere i rapporti di forza esistenti sulla carta tra le Confederazioni, ed in più nella Conferenza di Organizzazione alla fine del 1983 si introdurrà il concetto di rappresentatività delle categorie (quadri, tecnici, etc.), puntando di fatto a corporativizzare questa struttura; nella Zona i rappresentanti dei Cdd sono solo il 60% ed al Comprensorio non sono previsti rappresentanti dei Cdz.

A tutt’oggi questo grosso progetto ha, comunque, fatto una marcia molto lenta e faticosa, interrottasi definitivamente al sorgere del movimento degli autoconvocati. Le cause sono molteplici. Una l’abbiamo già rilevata: la mediazione che aveva portato al documento unitario di Montesilvano ha subito mostrato la corda. La Cisl e la Uil non hanno mai dato vita alle Zone, anche per la pratica impossibilità di un numero sufficiente di quadri attivi. La Cgil invece ha attuato i Comprensori, ma con una miopia incredibile, scavalcando la Cisl in aderenza totale ai deliberati di Montesilvano, li ha istituiti anche nel Pubblico Impiego, dimenticando che la controparte istituzionale è ancora organizzata in province, con tutti i problemi che questo comporta. I Cdd non sono mai nati; e come avrebbe potuto essere diversamente? In un clima di pesante attacco a qualsiasi espressione di base, anche questi pallidi ritratti dei Cdf usciti dall’autunno caldo, erano considerati inaffidabili dai vertici sindacali, sempre più dichiaratamente sostenitori di una delega totale a loro concessa dai lavoratori, in palese confusione tra democrazia borghese parlamentare e funzionamento democratico di un’organizzazione dei lavoratori. È d’altra parte evidente come il gruppo dirigente del sindacato, pressato dalle sconfitte e da una crescente insofferenza operaia, impossibilitato a smentire una strategia su cui si è formato ed ha costruito il proprio potere, rifuggisse fino al limite del possibile ogni occasione che, con questa strategia, potesse rimettere in discussione la sua legittimità.

Se tutto questo è vero, ci sono però motivi ben più profondi e strutturali che hanno ostacolato l’effettivo realizzarsi della ristrutturazione organizzativa del sindacato. Proprio mentre questa si veniva profilando e prendeva corpo, il capitalismo italiano, durante tutti gli anni settanta, iniziava una sua ristrutturazione che distruggeva gradualmente il precedente tessuto di aree comprensoriali di sviluppo, smantellava le grosse  fabbriche e disperdeva il ciclo produttivo in tutto il territorio nazionale (e non solo nazionale), polverizzando in una miriade di microaziende fino al lavoro a domicilio. In questa situazione la velleità di controllare la programmazione dell’economia, dandosi strutture organizzative modellate su di uno sviluppo produttivo ormai superato, è crollata miseramente.

Sul versante dei rapporti con le istituzioni il discorso, in teoria, avrebbe anche potuto funzionare se la riforma dello Stato, immaginata dalle Organizzazioni Sindacali e che esse avrebbero voluto addirittura anticipare ed agevolare, fosse stata un processo lineare ed omogeneo. Sennonché la riforma dello Stato si è inceppata e marca anzi segni e direzioni diverse rispetto ai processi di qualche anno fa, come al tempo stesso va mutando la visione stessa dello Stato da parte del capitale. Si affermano forze che vogliono lo smantellamento dello Stato, che propugnano teorie neo-liberiste, che non vogliono uno Stato garante della programmazione, ma esclusivamente rastrellatore di capitali da destinare agli investimenti produttivi, attraverso politiche di sostegno basate sul potenziamento di quelle aziende che appaiano possedere una posizione più forte nel mercato. È così l’intera strategia sindacale ad entrare in crisi e l’azione si riduce ad una continua rincorsa della controparte, con proposte basate solo su di un progetto di sviluppo, elaborato a suo tempo dal capitale ed al quale ora ci si attacca perché si era preparati a giocare un ruolo rispetto a quello. Questa crisi complessiva di strategia investe ovviamente anche la ristrutturazione organizzativa. Essa doveva, ad esempio, permettere alle articolazioni territoriali del sindacato di gestire con gli Enti Locali una politica di sviluppo del territorio. Oggi, però, l’autonomia di spesa degli Enti Locali viene drasticamente ridotta, la loro partecipazione ai piani di settore vanificata, proprio perché in realtà i piani di settore non si fanno, come previsto, in una logica di organizzazione e razionalizzazione del tessuto produttivo, ma solo in una logica di distribuzione dei finanziamenti. Tutto ciò a dimostrare, comunque, che l’assunzione di partenza del sindacato di una incoerenza e frammentarietà delle politiche economiche governative, volte più ad una quotidianità di intervento che ad un progetto di sviluppo, è tutt’altro che veritiera; l’attuale modello produttivo non è frutto del caso, ma progetto lucidamente perseguito.

Cosa resta allora della progettata ristrutturazione organizzativa? Sembrerebbe, da quanto più sopra detto, che ben poco essa abbia inciso, ma in realtà anche in questo caso resta una traccia profonda e coerente al punto da poter ritenere che lo scopo reale, che i vertici sindacali si erano prefissi, fosse vicino dall’essere nella sostanza raggiunto. In attesa perenne dei Cdd, le sezioni sindacali nei luoghi di lavoro tendono a sparire: non hanno più nessuna funzione e nessun ruolo e la loro sorte sembra segnata. Le Zone, come strutture intercategoriali non esistono, ma anche quelle di categoria esistono solo per la Cgil; così la Zona è divenuta solo una sede decentrata del sindacato, che langue per mancanza di fondi e di quadri. I livelli regionali stentano a trovare un proprio ambito di lavoro. Quasi scomparsi gli attivi cittadini ed i coordinamenti dei delegati di sezione. Questo quadro denuncia l’assenza di un qualsiasi luogo di dibattito (i Cdf delle grosse aziende pur minacciati di sclerotizzazione per la lottizzazione, sono gli unici superstiti e da essi, non a caso, ha potuto riprendere fiato un’alternativa concreta alla situazione descritta), cosicché il primo livello “reale” di dibattito (e non di decisione si badi bene) è il direttivo comprensoriale. Ma anche la sua voce si perde nel nulla. A questa assenza di luoghi di dibattito più o meno di base ha contribuito anche l’accorpamento di alcune categorie in uniche Federazioni sindacali (si pensi alla Funzione Pubblica ed ai trasporti); l’esigenza di un accorpamento è in linea teorica giustissima, ma nella realtà la scomparsa di momenti di confronto su temi specifici rende inutile anche la discussione a livello comprensoriale, perché questo è il primo livello a cui certi problemi possono venir discussi e quindi essi arrivano informi e carichi di tali implicazioni categoriali da impedire nei direttivi ogni possibilità di sintesi politica ed, in ultima analisi, di dibattito.

Sempre più in questo sindacato sono venuti contando i vertici nazionali, sia di categoria, sia in particolare le Segreterie Nazionali. Sempre meno queste si sono confrontate con le istanze più decentrate e tanto meno con i lavoratori, sempre più invece al loro interno in cerca di abili mediazioni, su cui poi non è possibile intervenire a causa della loro ricetta così dosata in tutti i minimi ingredienti. Ne è scaturito un sindacato sempre più verticistico e burocratico, in cui la linea strategica viene veicolata dal centro alla periferia da organismi via via più decentrati, la cui unica funzione è quella di tradurla per i lavoratori e di cercare di farla loro digerire, volenti o nolenti. È questo un sindacato che si guarda al suo interno, propendendo ad autogenerarsi (non a caso nelle Tesi del X della Cgil[5] si avanza la proposta di aumentare il finanziamento degli iscritti per allargare il funzionariato), ad autolegittimarsi, ad inventarsi un ruolo istituzionale che porta i dirigenti a calcare più le stanze dei Ministeri che le assemblee operaie. In un sindacato di questo tipo i lavoratori sono massa di manovra, numero di iscritti, non certo soggetti attivi della propria emancipazione, e grande sogno dei dirigenti sarebbe quello di riuscire a garantirsi un’esistenza ed un ruolo al di fuori del consenso o dissenso dei lavoratori, al di fuori della loro stessa appartenenza ai sindacati; un ruolo al riparo dai giudizi e dalle critiche[6].

Cisl e Uil continuano pervicacemente su questa strada, mentre la Cgil scossa dalla contestazione di base incontra difficoltà e contraddizioni. Ma non è certo da un ‘pentimento’ dei vertici della Cgil (lontano tra l’altro dal venire, a giudicare dal discorso di Lama il 24 marzo 1984 a Roma) che può rifondarsi un nuovo modo di fare sindacato; questo può ricostituirsi solo dal crescere ed il rafforzarsi dell’autorganizzazione dei lavoratori e da una sempre più profonda presa di coscienza della propria volontà di contare.

 

III.5. Note conclusive

Ogni svolta che i vertici sindacali vengono operando con agilità impressionante, sembra sempre l’ultima e la conclusiva del definitivo snaturamento di quella che dovrebbe essere l’organizzazione della classe, ma una ancora più ardita ne viene proposta: la linea dell’Eur ci riserva sorprese senza fine. Ma qualcosa via via si rompe, la fiducia storica dei lavoratori verso i propri dirigenti; i primi imputati sono stati Benvenuto e Carniti e si dipingeva Lama come loro prigioniero nei “rapporti unitari”; ma ora si va facendo strada la coscienza di una profonda unità strategica di tutti i vertici sindacali. Purtroppo questa rottura non sempre ha carattere positivo; le migliaia di tessere sindacali strappate, restituite, non rinnovate, non generano coscienza, ma sfiducia, abbandono, risentimento, e gli stessi Consigli di Fabbrica che insorgono, si oppongono, resistono, alla lunga, se non raggiungono degli obiettivi se non trovano punti di riferimento, rischiano di cadere nell’apatia e nel disgusto per quello che viene vissuto come un autentico “tradimento”.

Compito dei comunisti anarchici, ambizioso certo ma nel quale giocano le prospettive della propria scommessa politica, è quello di ricucire i focolai di opposizione, cercando di fornire proposte strategiche credibili di modo che al momento di agitazione non faccia seguito il ripiegamento nella sfiducia, ma la crescita verso una prospettiva di cambiamento complessivo di una strategia, che non è perdente solo nei singoli aspetti, ma che cumula sconfitte perché nata e concepita per fare in modo che il sindacato fosse strumento di cogestione, contrattando la gestione dello sfruttamento e la sua organizzazione sul territorio attraverso un rapporto con gli Enti Locali e le strutture decentrate dello Stato.

A questa linea dobbiamo opporci con tutti i mezzi a nostra disposizione, ribadendo l’autonomia delle strutture di democrazia operaia e soprattutto rivendicando un’effettiva partecipazione all’elaborazione della linea strategica del sindacato con la richiesta di consultazioni reali e decisionali. Occorre contrapporre una reale pratica unitaria nei luoghi di lavoro al vecchio e logoro concetto dell’unità come vincolo della soggettività operaia all’interno della gabbia costituita dagli accordi di vertice.

È d’altra parte essenziale, a livello categoriale, sconfiggere i tentativi di sperequazione e di ristratificazione gerarchica che avanzano attorno alla parola d’ordine della professionalità, riaffermando una contrattazione al di fuori della logica delle compatibilità in grado per lo meno di resistere alla continua pressione sui salari che si è venuta operando in questi ultimi anni.

Abbiamo la consapevolezza che queste sono proposte difficili, ma crediamo che siano le uniche in grado di ribaltare una linea strategica della cui negatività i lavoratori stanno prendendo coscienza in maniera sempre più vistosa.

 

Note:

[1] Ucat-Ocl, Ai compagni su ... cit.  

[2] Palese è quest’aspetto di ricerca di legalizzazione e di istituzionalizzazione nella legge-quadro, non a caso avanzata nel Pubblico Impiego dove più deboli sono le Confederazioni e più diretto il rapporto con l’apparato statale; ma a questo fa bene riscontro, nel settore privato, il tentativo di trasformazione dei Cdf da originari strumenti di lotta, a pura rappresentanza sindacale di fabbrica, riconosciuta dalla controparte non per forza contrattuale, ma per concordata legittimazione.  

[3] Cfr. paragrafo II.1.  

[4] Convegno unitario sull’azione del sindacato e riforma delle strutture organizzative, Montesilvano di Pescara, 5-7/XII/11979, Progetto della Segreteria, p. 1.  

[5] Tesi programmatiche approvate dal X° Congresso della Cgil, in “Rassegna Sindacale”, a. XXVII, n. 43 del 26/XI/1981, Tesi 12, p. 150.  

[6] Cfr. le dichiarazioni di A. Marianetti, allora Segretario Generale Aggiunto della Cgil, riportate in L.L., Tesserati Cgil: calo di 123 mila in un anno, in “Il Mondo”, a. I, n. 33 del 21/V/1982, p. 4.


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