Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica

L'attacco padronale '73/80

La strategia sindacale ed i comportamenti di classe: il ruolo dei comunisti anarchici

 

A cura della Commissione sindacale dell'O.R.A.
gennaio 1981

 

Alcune considerazioni sullo sviluppo della strategia di sfruttamento capitalistico in Italia dal 1973 al 1980

I punti più avanti sviluppati vogliono servire a tracciare i fenomeni principali cui abbiamo assistito e stiamo assistendo, attraverso i quali si sviluppa la strategia di riorganizzazione padronale dello sfruttamento. Va precisato che queste parti non rappresentano un'analisi compiuta dei fenomeni studiati (non è un documento di analisi economica), ma sono funzionali all'individuazione del percorso strategico sviluppato dal capitalismo. Su questa base, poi, individueremo alcune possibilità di risposta da parte dei comunisti anarchici e della classe nel medio periodo.

A tale scopo useremo materiali o fonti diverse già elaborate da altri compagni, che, però, in questo contesto vengono "viste" al fine di individuare una nostra strategia di risposta.

Prima di passare ad analizzare più in dettaglio il contesto italiano è indispensabile riferirsi ad un quadro di mutazioni internazionali.

"Il 15 agosto Nixon annunciava la non convertibilità del dollaro in oro. (...) Fu questa una manovra che permise agli USA di esportare all'estero l'inflazione interna e di far passare il sistema monetario mondiale da una fase di cambi tendenzialmente stabili ad una fase di cambi continuamente pilotati secondo le convenienze dei vari paesi e le manovre degli speculatori" (1)

Questi fatti, al di là delle date, sono importanti poiché lo svilupparsi dell'instabilità monetaria ed il crescere dell'inflazione - soprattutto in Italia - sono stati (assieme all'aumento del prezzo del greggio) tra le maggiori cause della crisi nel '73.

Attraverso il controllo del fenomeno inflativo si sviluppa da una parte la ristrutturazione produttiva costringendo le aziende a rinnovarsi per restare concorrenti e dall'altra si eliminano gradatamente le conquiste salariali prese nei cicli di lotte 68/'69 e 72/'73.

Le molte misure congiunturali prese dai vari governi dal '73 ad oggi tendono sempre a garantire la possibilità di ristrutturazione industriale guidata dai nuovi settori trainanti abbassando gradatamente il costo del lavoro.

L'inflazione ha le funzioni di:

  1. ridurre la busta paga
  2. costringere il lavoratore a maggiori ore lavorative
  3. ad una posizione di difesa.

E' importante ricordare che "chi prevedeva, sulla base di un rigido determinismo il capitalismo giunto nel 1973 ad un punto di non ritorno e non in grado di trovare nuovi modelli di sviluppo, ha trovato negli anni successivi amare delusioni. Su questi filoni il sistema, dopo una breve pausa nel 1974/'75, trova la via di una nuova ripresa, che ha marciato sicura, anche se non senza momenti critici, e che oggi lo rende in grado di assorbire la nuova spinta al rialzo del prezzo del petrolio senza compromettere le ipotesi che prevedevano l'avvio di un nuovo ciclo espansivo nel 1981, dopo una pausa nel 1980, originata da alcune cause contingenti interne alla situazione economica statunitense". (2)

La crisi di ristrutturazione da tutti sventolata è servita perciò a riorganizzare i cicli produttivi ai fini di un nuovo sviluppo economico che garantisse, a differenza del "boom" degli anni '50/'60, un dominio maggiore sulla forza lavoro.

"Se prima del 1973 la rigida divisione internazionale del lavoro assumeva un aspetto fortemente verticalizzato nella produzione, assegnando ad ogni area un livello tecnologico ben preciso, oggi i confini vanno allargandosi e le produzioni ad alto contenuto tecnologico devono diffondersi il più possibile, sia per fornire un mercato alla produzione di punta statunitense, sia per garantire l'estensione del modello produttivo, favorendo il controllo e la leadership degli USA. Per chiarire meglio, si assiste ad uno spostamento dei settori di raffinazione e di preparazione dei materiali per la lavorazione (ad esempio la siderurgia) nelle zone del terzo mondo, vicino ai luoghi di estrazione delle materie prime, mentre nell'Europa si diffondono, Italia compresa, tecnologie sofisticate. All'interno delle aree geoeconomiche omogenee la divisione internazionale del lavoro viene rimpiazzata da un sistema multinazionale diffuso orizzontalmente. La capacità di comprendere l'unità del processo produttivo è riservata al paese centrale, il solo in grado di raccordare gli spezzoni di ciclo produttivo, sparsi nelle varie zone". (3)

Il nuovo assetto descritto, caratterizzato da una più labile divisione internazionale del lavoro, risponde perlomeno a quattro grosse esigenze:

  1. crea vaste aree economicamente omogenee;
  2. prevede la possibilità di spostamenti di alcune produzioni al loro interno in caso di scarsa affidabilità politica e di successiva forza contrattuale del movimento operaio;
  3. innalza i livelli tecnologici di produzione dei diversi paesi;
  4. rendere possibile un continuo gettito di profitti a favore dei possessori dei brevetti.

Questo modello di sviluppo permette inoltre una nuova "programmazione elastica".

Infatti, "quello che si è perso è il concetto di programmazione rigida, di ambiti definiti ed invalicabili di sviluppo, temi che hanno dominato l'evolversi della congiuntura nel secondo dopoguerra. Alla fabbrica con catena di montaggio e tempi cronometricamente prestabiliti, si vanno sostituendo strutture dell'organizzazione del lavoro più flessibili, in grado di assorbire spinte destabilizzanti, in cui la produttività è garantita non dal controllo rigido dei tempi di esecuzione, ma dall'output (uscita) statisticamente prestabilita; così in fabbrica alla linea unica di sostituiscono spezzoni e velocità differenziate, raccordati da "polmoni", il tutto sotto il controllo di un calcolatore; alla grossa fabbrica si sostituisce una miriade di microimprese che svolgono solo parti di lavorazioni". (4)

La ristrutturazione produttiva si sviluppa soprattutto attraverso la riorganizzazione dei cicli produttivi sul territorio, attraverso cioè il decentramento produttivo.

La nuova divisione internazionale del lavoro ed i fenomeni fin qui visti tendono al fine ultimo della divisione dei lavoratori nonché del loro continuo ricatto del posto di lavoro, oggi più di ieri. Di fronte a questa situazione va rilevata l'incapacità del movimento operaio, organizzato dai riformisti, di uscire dal ghetto localistico/nazionalista.

Non esiste una risposta reale internazionalista a questi fenomeni, ma una delega ai governi nazionali a gestire gli "interessi" del Paese (!?!).

Al convegno dei maggiori paesi industrializzati di Venezia, le organizzazioni sindacali internazionali hanno spedito lettere di richieste in merito ai diversi problemi.

L'esito del convegno ha dimostrato l'incapacità dei vertici sindacali di incidere realmente con dei rapporti di forza.

La strategia annunciata dai maggiori paesi capitalistici riguarda:

  1. "Un efficace coordinamento internazionale per giungere a decise restrizioni monetarie e fiscali, mantenendo il dialogo fra le parti sociali", il che significa maggiori sacrifici salariali e di servizi sociali per i lavoratori mantenendo gli attuali livelli di disoccupazione, sottoccupazione, precariato;
  2. "Riduzione consumi energetici e del petrolio attraverso lo sviluppo del nucleare e del carbone". L'obiettivo principale oltre quello di rinsaldare il dominio USA sull'energia è quello di limitare l'incidenza ed il rapporto di forza dei Paesi Produttori di Petrolio (OPEC) sulle economie capitalistiche.
  3. "Relazione con i paesi in via di sviluppo" significa aumentare la capacità di penetrazione dei mercati alle merci del capitalismo internazionale sotto forma di "aiuti economici".

La trasformazione dell'organizzazione e dello sfruttamento in Italia dalla crisi ad oggi

Dalle già viste trasformazioni internazionali emerge che la nuova struttura descritta per il ciclo produttivo, ha esatto riscontro nell'equilibrio dinamico tratteggiato precedentemente per la divisione internazionale del lavoro (programmazione flessibile) e per la divisione dei mercati (equilibrio che potremo definire "di concorrenza compatibile"). "In entrambi i casi, questo assetto è reso possibile dalla disponibilità degli strumenti tecnologici in grado di fornire concretezza al problema del controllo statistico flessibile (cervelli elettronici). E' questa una seconda caratteristica di fondo del sistema che si è venuto affermando in quest'ultimo quinquennio. La diffusione cioè del ciclo produttivo sul territorio, con estrema specializzazione delle microimprese tutte dipendenti, sia per gli sbocchi di mercato, sia per i finanziamenti, dai grossi gruppi, che restano gli unici reali centri di programmazione". (5)

La caratteristica della trasformazione produttiva italiana dal primo dopoguerra è stata quella di basarsi su delle aree ad alta concentrazione industriale e delle aree di spopolamento, di emigrazione SUD-NORD. La conformazione territoriale dello sfruttamento può così essere sintetizzata agli inizi degli anni '70:

  1. la formazione caratterizzata dalle aree metropolitane sviluppata dalle grandi imprese nell'Italia nord/occidentale (TO, MI, GE);
  2. la formazione caratterizzata dalla piccola e media impresa e da un sistema produttivo diffuso dipendente -e perciò periferico- da quello centrale visto in precedenza. E' il caso di gran parte del territorio, dell'Emilia, Toscana, Marche, Umbria, dove troviamo una organizzazione produttiva che ha resistito bene alla crisi, dominata dal decentramento produttivo verso l'artigianato e dal lavoro a domicilio;
  3. la formazione caratterizzata dal sottosviluppo e dalle "cattedrali nel deserto" dove l'intervento di sostegno dello Stato assume un ruolo trainante. E' il caso del meridione e delle isole.

E' evidente che questa divisione non è rigida, dal momento in cui possiamo trovare zone "periferiche" nella Lombardia, Piemonte, ecc; nonché zone di sottosviluppo nel Veneto, Marche, ecc.

E' importante capire che ogni area produttiva del territorio italiano risponde ad una divisione precisa dei ruoli produttivi assegnatagli dal capitalismo italiano.
La spinta ulteriore al decentramento produttivo avviene nel momento in cui le aree metropolitane cominciano ad essere messe in crisi dalle lotte operaie del '68/'71.

Diviene così necessario al padronato spostare cicli produttivi in zone "calme" e disperse che ancora una volta non si trovano al Sud (come vorrebbero i sindacati con la politica meridionalista e dell'EUR), ma al Nord ed al Centro, in quelle zone periferiche ma vicine alle aree metropolitane.

Al Sud vengono mandati solo residui di lavorazioni del Nord che non riescono a controbilanciare di fatto la crisi profonda nella quale cadono le industrie di Stato - soprattutto chimiche.

Si è assistito, in sostanza, al rilancio produttivo in periodo di "crisi" delle aree "periferiche" e poco sviluppate vicino alle aree metropolitane del Nord.

Questa strategia ha invalidato 10 anni di lotte sindacali che hanno tentato di spingere ad investimenti produttivi nel Mezzogiorno. E' stata cioè perduta una grossa occasione per un probabile riequilibrio territoriale tra Nord e Sud. La crisi di molte "cattedrali nel deserto" al Sud ha fatto ricadere la problematica dell'occupazione a livelli del dopoguerra riproponendo l'emigrazione verso i paesi in via di sviluppo come unica reale alternativa per la forza lavoro meridionale. Si è potuto vedere inoltre come il decentramento produttivo si traduca nello "smantellamento" sul territorio della catena di montaggio fino a ieri concentrata in fabbrica. L'operazione nel complesso si traduce nello spostamento di costi interni all'azienda sulla collettività attraverso un nuovo uso del bene collettivo "territorio".

In ultima analisi, l'attacco padronale attraverso il decentramento produttivo non tende solamente alla divisione della classe ed ai maggiori profitti, ma estende il comando della grande impresa sullo sviluppo del territorio.

Dato per scontato che il problema principale è ancora una volta la ricostruzione dell'unità di classe, e perciò il rapporto di forza complessivo, a questo punto il "coordinamento di settore" di ciclo proposto dai sindacati è riduttivo. Ribaltando la problematica territoriale risulta chiaro che il decentramento produttivo è ancor più uso capitalistico del territorio, e perciò investe maggiormente coloro che non sono direttamente nel ciclo produttivo. In questa visione acquista valore il problema dell'intervento sul territorio come il tentativo di ricondurre ad un qualcosa di complessivo che il capitale tende a riportare in una dimensione particolare.

La ristrutturazione produttiva ha potuto svilupparsi senza nessun controllo collettivo attraverso la politica di crisi portata avanti dalle forze padronali, governative e riformiste.

La tecnica dello spauracchio del crollo economico usato a fini terroristici oltre alla politica del terrorismo (ad uso del terrorismo) ha permesso lo svilupparsi della ristrutturazione senza nessun controllo della collettività e con la classe operaia in posizioni di difesa e di "sacrificio gratuito".

In cambio non ha ottenuto né governo, né salario, né controllo produttivo.

L'attacco padronale ora in atto continua a portare avanti le linee di tendenza viste in precedenza ed in particolare possiamo individuare alcuni fenomeni indicatori della dinamica in atto.

Nel settore dell'industria privata la FIAT ha dato inizio ad una nuova politica terroristica di crisi economica preannunciando massicci licenziamenti, la cassa integrazione e conducendo la trattativa "dura" col sindacato.

Occorre sapere che (secondo il Financial Times) la FIAT/auto nel 1979 ha perduto 97 miliardi e l'IVECO altri 8, ma la FIAT nel suo complesso ha comunque realizzato, nel '79, 40 miliardi di profitti e si accinge a distribuire agli azionisti lo stesso dividendo dell'anno scorso.

"Sebbene i bilanci della FIAT siano da prendere con le pinze, questo ci indica come di fatto l'iniziativa ricattatoria della FIAT sia finalizzata ad avere agevolazioni e finanziamenti dallo Stato come contropartita al contratto ALFA-NISSAN oltre che a mantenere uno stato di ricatto alla classe operaia in un periodo dove comincia a venire meno la politica di crisi nonché l'appoggio riformista ai sacrifici". (6)

Nel settore dell'industria di Stato, la crisi effettiva che investe molti stabilimenti del Sud, frutto delle scelte suicide degli anni '60, ha riproposto il tema dei licenziamenti massicci e della cassa integrazione cronica.

Le prospettive reali per questi lavoratori sono molto scarse poiché la politica di ridimensionamento e privatizzazione dell'industria pubblica, non solo al Sud, tende a ristrutturare o a chiudere selvaggiamente gli impianti.

In questo quadro si innesta la proposta di piano triennale del ministro Vicentini che formalizza ulteriormente le linee del padronato fin qui utilizzate.

Il "taglio della spesa corrente" dello Stato significa proprio chiudere definitivamente con le possibilità di sviluppo occupazionale pubblico per agevolare un piano di investimenti "100mila miliardi" finalizzati principalmente agli interessi dell'industria privata.

I progetti di investimento nel settore energetico vedranno, nei prossimi anni, il governo puntare molto sulla costruzione delle centrali nucleari e quelle a carbone.

La riduzione della spesa per i servizi sociali (taglio spesa pubblica) si articola maggiormente nella riduzione degli stanziamenti per l'edilizia economica e popolare già largamente deficitaria, in favore della costosa edilizia privata. I proletari senza casa dovranno aspettare ancora molto.

In alternativa a questi "tagli" pubblici si sviluppa invece il sostegno da parte dello Stato all'industria privata che riceve sempre maggiori finanziamenti per la propria riconversione produttiva già vista in precedenza.

Questa situazione si riflette in un allargamento del lavoro precario, del lavoro a domicilio, artigianale, del lavoro part-time e del lavoro nero, ultimi anelli della catena del decentramento produttivo, e quindi una dilatazione dei ceti precari fa riscontro ad un forte restringimento dell'occupazione "legale". Lo scopo che si raggiunge è quello di una maggiore ricattabilità della classe operaia, tramite una costante pressione sul piano dell'occupazione, un suo disseminamento nel territorio in presenza di grosse sacche di settori precari, utilizzabili, quindi, in funzione di divisione degli interessi del proletariato.

Per il padronato in crisi, il 1979 si chiude con l'aumento delle esportazioni del 9%, un Prodotto Nazionale lordo aumentato del 4,9%, una crescita della produzione industriale del 6,5% ed un saldo attivo della bilancia dei pagamenti di 4500 miliardi.

La crisi c'è, ma per i proletari!

Questo quadro politico è stato alimentato, oltre che dal concorso delle forze padronali, da una politica ossequiosa delle forze riformiste. Occorre perciò analizzare lo sviluppo della strategia politica sindacale attuata in questi anni.

Sviluppo della strategia politica del sindacato

La strategia sindacale, impostata in circa tre anni di lavoro, a partire dal '75, trova una sua conferma e verifica all'interno delle strutture confederali nell'Assemblea dell'EUR, il 13/14 febbraio 1978.

Per molti aspetti questa assemblea segna una svolta nella politica sindacale, fondamentalmente in quanto con l'EUR il sindacato va a chiarire in via apparentemente definitiva una strategia del nuovo quadro politico maturato dal 1976 (governo di solidarietà nazionale) e nel senso che purtroppo l'EUR sancisce la vittoria di quelle forze in seno alle OOSS che premono per trasformare profondamente in senso negativo il ruolo del sindacato in Italia. Tali forze operano perché scompaia il sindacato di classe con tutta la sua carica di conflittualità per la costruzione altresì di un "sindacato occidentale", un sindacato istituzione/cogestire. Tali spinte negative attraverso l'EUR puntano scegliendo tempi e modi ad una entrata organica del sindacato nella ristrutturazione capitalistica, che proprio in quegli anni va assumendo una sua fisionomia ben precisa.

Non è da sottovalutare, come elemento di giudizio, il momento politico in cui queste scelte maturano: forte avanzata delle sinistre; PCI quasi al governo; governo di solidarietà democratica. A certe sue componenti sembra sia giunta l'ora di un raccordo tra azione del governo e azione del sindacato, e l'EUR significa anche questo.

L'EUR perciò non segna una svolta della strategia riformista predominante dentro il sindacato sino dal '45, ma se vogliamo un suo avanzamento, con la temporanea sconfitta di quella componente che, nelle lotte degli anni '60 e primi anni '70, aveva maturato una strategia rivendicativa nota sotto il nome di egualitarismo, mirante alla salvaguardia dell'unità di classe operaia; ed una strategia organizzativa nota sotto il nome di autogestione, mirante alla salvaguardia dell'autonomia sindacale e proletaria, e soprattutto alla salvaguardia di quelle strutture di base unitarie dei lavoratori, che sono state le strutture portanti delle lotte negli anni '70.

Dall'EUR quindi guadagna la componente strategica più adeguata alla situazione politica ed economica della fine degli anni '70: ne esce un programma che dai lavoratori è stato subito denominato "programma dei sacrifici", il quale sancisce alcuni capisaldi della politica sindacale di questi ultimi anni e traccia gli assi della politica contrattuale '79/80:

  1. Strategia salariale, che punta a sancire:
    1. la supremazia non solo teorica del principio che "il salario non è una variabile indipendente" e quindi lo lega alla produttività del singolo lavoratore dell'impresa e del settore in cui è inserita l'impresa stessa;
    2. la supremazia della professionalità sul salario: vale a dire a lavoro "più professionalizzante" più salario;
    3. eliminazione di molti istituti automatici e quindi riforma della struttura del salario.
  2. Strategia occupazionale: programmazione e riforme; si ripete storicamente la parola d'ordine della "politica degli investimenti al Sud" per ampliare l'occupazione anche se a causa di atteggiamenti di "disponibilità" del sindacato alla mobilità, esterna ed interna all'azienda, tali obiettivi rischiano di restare sulla carta. Il che si traduce in una assurda disponibilità del sindacato a discutere e contrattare "il problema degli esuberanti" (vedi vertenza FIAT).
    L'EUR, che avrebbe dovuto segnare un punto di saldatura tra le famose due società: "garantiti" e "non garantiti", tra occupati e disoccupati (tra l'altro i sacrifici ai lavoratori occupati vengono chiesti per costruire un posto di lavoro ai lavoratori disoccupati), altro non riesce a tirar fuori che un impegno sindacale sulla 285 che assolutamente non ha portato a nessun risultato concreto. Dentro una ristrutturazione selvaggia, il sindacato cerca di parare le falle attraverso una "politica dei piani" (nazionali, regionali, zonali, di settore) come strumento di indirizzo a monte della ristrutturazione e come strumento di controllo a valle. Era un obiettivo profondamente condizionato da un periodo che ha dato alla luce il governo di "solidarietà nazionale" ed in parte è caduto con esso.
  3. Strategia organizzativa.
    Accantonato l'obiettivo di costruire una unica centrale sindacale, si punta allo smantellamento dell'organizzazione unitaria di fabbrica (CdF), delle strutture orizzontali e ad rafforzamento di quelle verticali confederali. Si veda a questo proposito il dibattito sulla riorganizzazione delle strutture dove settori del sindacato più legate alla DC negano l'autonomia ai CdF. Il sindacato non può proseguire questa sua politica senza una profonda revisione delle sue strutture. Nel convegno di Montesilvano del 5/6/7 novembre 1979 i punti nodali venuti fuori sono:
    1. costruire sul territorio strutture funzionali alle politiche di programmazioni generali e settoriali e ad uno stretto raccordo con esse della contrattazione ai vari livelli;
    2. avvicinare le strutture esterne ai luoghi di lavoro alle strutture di base interne;
    3. attuare un più avanzato e organico rapporto tra azione generale nel sindacato e azione delle categorie in coerenza con quanto deciso dalle linee strategiche del sindacato;
    4. raccordare e integrare gli enti di patronato nelle politiche generali del sindacato.

Oggi la politica dei vertici sindacali conduce ad un congelamento della conflittualità extracontrattuale nelle aziende, per privilegiare una politica di incontro con le istituzioni decentrare (comuni, regioni, comprensori).

Viene anche detto che i nuovi livelli decisionali del sindacato devono tener conto dei disoccupati e di tutte quelle frange che si trovano ai margini del mercato del lavoro.
Nei fatti, noi assistiamo oggi ad un sindacato che:

  1. dopo il mancato funzionamento per anni dei consigli di zona, oggi li ripropone come propria struttura;
  2. dopo aver sempre rinviato un rapporto organico con le organizzazioni dei disoccupati, delle donne, con le strutture di base nate sul territorio, con le organizzazioni studentesche, farsi promotore di una struttura territoriale sindacale.

Il rischio è di veder trionfare una strategia organizzativa tesa a trasformare tutte le strutture di base, mentre occorre battersi perché esse come articolazioni del sindacato affermino il loro potere decisionale, elaborando e decidendo loro stesse dal basso quel che deve essere la strategia sindacale, cioè la strategia organizzativa e rivendicativa irrinunciabile per l'organizzazione di classe dei lavoratori che punti decisamente alla salvaguardia dell'unità proletaria.

La strategia salariale

"(...) La base della nostra scelta è una politica salariale rivolta a superare in primo luogo gli squilibri fra salario diretto e salario differito, tra retribuzione e contributi, tra retribuzione legata alla capacità di lavoro e retribuzione legata all'anzianità di lavoro.

Gli obiettivi sono di aumentare relativamente il salario diretto rispetto al salario differito, la retribuzione rispetto ai contributi, la retribuzione professionale rispetto alla retribuzione di anzianità." (dalla relazione di Sergio Garavini, approvata al direttivo unitario del 10.11.1978 sui problemi dei rinnovi contrattuali, del costo del lavoro e della struttura del salario).

Alla scadenza elettorale il sindacato si presenta con questa politica salariale da mettere in pratica nel giro di 2 - 3 rinnovi contrattuali, vale a dire entro la prima metà degli anni '80; se a questo aggiungiamo "(...) una linea di contenimento delle rivendicazioni salariali, rivolte a concentrare le risorse verso gli investimenti e per l'occupazione...", abbiamo il quadro completo dei rischi politici rispetto alla politica salariale che il sindacato ha usato per gestire i rinnovi contrattuali.

"(...) in questa complicata e differenziata dinamica (dell'attuale struttura del salario) vi è una tendenza al prevalere degli automatismi rispetto agli spazi diretti alla contrattazione e questa prevalenza di automatismi ha effetti, per due aspetti negativi.

Da un lato l'effetto combinato degli aumenti uguali per tutti, contrattuali e aziendali, e degli automatismi legati all'anzianità riduce fortemente i differenziali legati alla professionalità. Dall'altro gli automatismi legati alla professionalità mantengono aperti e accentuati differenziali retributivi non professionali".

Viene anche detto a chiare lettere (nel '78, non nel 1980 dopo la vertenza FIAT) che uno degli obiettivi principali del sindacato è quello di "recuperare" i quadri intermedi attraverso manovre salariali ("la riforma della struttura del salario") e non puntando, per esempio, ad un'organizzazione diversa del lavoro in fabbrica.

Proposta che, secondo noi, è l'unica capace di abbattere, anche se entro certi limiti, le barriere della professionalità.

Comunque senz'altro è da combattere la logica che vuole legare il salario alla professionalità o peggio ancora alla produttività, tenendo presente che l'eguaglianza salariale dei lavoratori e l'egualitarismo come strategia che oltrepassa l'ambito strettamente salariale per intaccare l'organizzazione gerarchica del lavoro è uno degli elementi fondamentali per una strategia sindacale che ha tra i suoi obiettivi principali l'unità dei lavoratori, economica e sociale.

Strategia per l'occupazione: programmazione e riforme

Il sindacato dall'EUR esce sostanzialmente sbandierando un principio: moderazione salariale vuol dire poter contrattare investimenti produttivi nel Mezzogiorno.

Nei rinnovi contrattuali, seguendo questa impostazione, è stato dato molto spazio a quella che di solito viene chiamata la prima parte del contratto, vengono poste al centro della contrattazione la politica degli investimenti, l' "informazione" sugli investimenti e sulla politica di sviluppo delle aziende.

I punti nodali posti dal sindacato sul problema occupazionale sono:

  1. investimenti al Sud finalizzati all'interno di una politica di programmazione economica;
  2. la riforma del collocamento;
  3. maggiore utilizzazione degli impianti.

A) La politica degli "investimenti al Sud"

Il primo punto sono anni che lo si ripete stancamente: i miliardi, sotto forma diverse, sono arrivati al Sud, hanno dato vita ad una struttura produttiva e ad una classe padronale tutta particolare, ad un proletariato particolare, ma il decollo economico non c'è stato. Colpa del sindacato che chiede investimenti al Sud? No di certo, ma occorre tirare le somme di questa politica e, con coraggio, affermare che è stata fallimentare, in quanto ogni politica meridionalistica che si rivolga al "meridione" indistinto senza una analisi delle classi sociali presenti nel meridione significa di fatto appoggiare gli obiettivi di sviluppo del padronato meridionale e di quella classe sociale, tutta particolare, che si è raccolta intorno alle istituzioni "erogatrici di miliardi" che ha fatto la fortuna di uomini politici ed imprenditori, disgregando le forze del proletariato meridionale, che per salvaguardare il proprio posto del lavoro è costretto a scendere in piazza per chiedere investimenti in favore della "sua azienda".

Ci sono ritardi enormi del sindacato su questo terreno, perché non è sufficiente chiedere investimenti per garantire l'occupazione, se nello stesso tempo il movimento operaio non è in grado di elaborare una strategia di sviluppo alternativa a quella capitalistica, che esalti i bisogni sociali del meridione, e valorizzi le sue risorse umane e materiali; e quindi un movimento operaio capace di affermare una linea antagonista a quella della borghesia meridionale, attraverso la costruzione dell'unità di tutto il proletariato.

Limitarsi a chiedere una programmazione senza domandarsi come e perché (vedi il consenso dato dal sindacato al piano triennale) significa mettersi al carro della ristrutturazione capitalistica senza avere il coraggio e la forza di indicare un piano autonomo e alternativo di sviluppo dell'economia.

Non solo, ma una programmazione burocratica e verticistica, padronale dell'economia serve solo al padronato, non serve ai lavoratori.

B) La riforma del collocamento

Se ne parla da tempo, ma ancora non è chiaro come debba funzionare e da chi debba essere gestito il collocamento. Passare le competenze del Ministero del Lavoro alla Regione, senza che cambi qualitativamente la sua struttura, senza che venga fatta un'opera di "pulizia" al suo interno, soprattutto nel meridione, non risolve quasi niente.

Innanzitutto il problema che dobbiamo porre non è solo e semplicemente un "governo del mercato del lavoro", c'è indubbiamente un problema di gestione delle liste, "di selezione e messa in fila" dell'offerta, ma il controllo più spietato deve essere concentrato sulla domanda. Il collocamento così come è strutturato oggi è un'arma in mano al padronato di divisione dei lavoratori, non solo ma è necessario trovare delle forme legislative e contrattuali per un controllo da parte dei lavoratori occupati sulle assunzioni. La proposta di allargare le forme dell'assistenzialismo, sotto qualsiasi forma essa si manifesti è da scongiurare, è preferibile puntare sulla divisione del lavoro esistente, che non allargare l'assistenzialismo, in quanto esso provoca divisioni e discriminazioni profonde tra i lavoratori.

C) La massima utilizzazione degli impianti

E' una proposta con la quale il sindacato ha tentato di gestire una "riduzione dell'orario di lavoro finalizzato alla piena utilizzazione degli impianti". Si è parlato di 6x6, su tre e su quattro turni giornalieri, i risultati ottenuti con i rinnovi contrattuali sono stati deludenti: la settimana lavorativa è rimasta di 40 ore; alcune riduzioni di orario hanno in parte recuperato le 7 festività abolite; ma quello che spaventa è che il sindacato si presenta sulla difensiva su questo terreno senza riuscire a porre come obiettivi fondamentali ed irrinunciabili del sindacato, all'interno di un profondo mutamento dell'organizzazione del lavoro e della tecnologia, una salvaguardia della qualità della vita e dell'occupazione.

Potremo assistere, nell'arco di un decennio, a riduzioni dell'orario di lavoro, come sottoprodotto di una trasformazione tecnologica, facendo perdere a questo obiettivo tutta la sua validità sociale.

Il sindacato, prima dei rinnovi contrattuali e dopo, ha escluso una battaglia per così dire campale sull'orario di lavoro, riducendo questo obiettivo ad una "piena utilizzazione degli impianti".

"Si tratta di esigenze di maggiore utilizzazione degli impianti, da realizzare attraverso contestuali modificazioni e aumento dei turni, con orari sotto le 40 ore settimanali e conseguente inserimento di occupazione in casi di profonde trasformazioni tecnologiche; possibilità di inserimento di occupazione, che anche per questa via, sono naturalmente da concentrare nel mezzogiorno, incoraggiandole con misure di fiscalizzazione degli oneri contributivi nelle aziende collocate al sud che realizzino questo tipo di modificazione degli orari di lavoro e dell'utilizzazione degli impianti.

Si tratta però anche di esigenze connesse a lavorazioni pesanti nocive, pericolose che impongono tensioni e attenzioni particolari per le quali attuare orari inferiori alle 40 ore. Quindi si tratta di riduzione di orario secondo la logica di aree di lavoro specificatamente definite entro determinati settori ed entro le imprese".

Dopo i contratti tutto è stato rinviato.

Comunque l'orario di lavoro, la sua struttura e la sua durata, sarà al centro della battaglia sindacale nei prossimi anni.

Partiti riformisti e l'organizzazione di massa

Per chi si accinge a una qualsiasi analisi sul sindacato è importante capire la necessità di affrontare comunque il ruolo e gli scopi sul piano strategico delle forze politiche che ne condividono così fortemente linea politica e azione.

Fondamentalmente, l'organizzazione di massa in Italia, dalla rottura dell'unità sindacale ad oggi, è sempre stata largamente pressata dal problema della regolamentazione del rapporto fra l'interclassismo congetturato nel primo dopoguerra dagli strateghi yankee, dal più grande partito del capitale, la DC, e il tradeunionismo (rivendicazionismo, economicismo,...) con caratteri estremamente particolari dati da una situazione che ha visto e che vede un P.C. (il più grande d'Europa), forte della maggioranza assoluta, che detiene nella maggiore delle confederazioni, senza dubbio condizionandone al limite del controllo totale, la linea, gli obiettivi, le lotte stesse.

Oltre a ciò, per un'analisi corretta e completa, occorre tener presente che dalla fine degli anni '60 si sono delle "novità" costituite dalla presenza, e dallo sviluppo di tale presenza, delle forze della "nuova" sinistra, per la maggior parte confluite, miseramente falliti i tentativi di infiltrazione nelle zone di classe del sindacato, in quella parte di esse dove maggiore è lo "spazio concesso" e più facile il "dissenso", come nel caso limite della sinistra sindacale della CISL.

C'è un aspetto che non va trascurato nell'analisi sul sindacato, anche se si corre a volte il rischio di ragionare secondo schematismi impropri e di affidarsi alla legge del numero. Resta comunque il fatto che l'organizzazione di massa rappresenta, fra le altre cose, il più vasto ambito per il confronto, sulla base dei reciproci rapporti di forza, tra le componenti partitiche e non (sindacalisti laici, democristiani e socialisti, comunisti, anarchici, ex-extraparlamentari, ecc.) che vivono al suo interno.

Purtroppo tale confronto rimane quasi sempre circoscritto all'ambito del lavoro, dominando una visione del sindacato che lo costringe nel proprio ruolo di sindacato, ovverosia un ruolo rivendicativo, limitato al piano economico, a cui non viene concesso di invadere il terreno politico (zona riservata al partito).

Viene sostanzialmente a perpetuarsi il classico rapporto leninista della "cinghia di trasmissione", tra partito e sindacato, in cui al sindacato viene dato di occuparsi del CCLN e contemporaneamente viene imposto di bloccare la propria azione "astenendosi" quando si tratta di impostare lotte strategiche, sia comunque che posseggano un minimo di respiro politico, sia, a maggior ragione, che puntino allo smantellamento reale dell'attuale organizzazione del lavoro.

L'azione dei riformisti nelle OOSS si sviluppa strategicamente secondo i canoni teorici che l'origine leninista impone, e la loro presenza nel sindacato si articola tatticamente mediante il lavoro delle cellule in fabbrica e delle sezioni interne, le quali premono per il prevalere della linea di partito e parallelamente per impostare il confronto/scontro su discriminanti di ordine ideologico, operando perciò in definitiva in maniera frazionistica e subalterna, perché in funzione del quadro politico.

La lotta all'azione che svolgono le cellule dei partiti in fabbrica va condotta spostando il confronto dal piano ideologico a quello su temi concreti e sulla base di proposte reali, nelle assemblee, nei consigli di fabbrica, nei consigli di zona e nelle strutture a qualsiasi livello del sindacato stesso.

In particolare la battaglia va portata avanti sulle vertenze aziendali e sul potere operaio nella costante valorizzazione, difesa e imposizione che, come rivoluzionari anarchici, come militanti della lotta di classe, andiamo a fare, contro tutte le tendenze antiunitarie, frazionistiche e devianti che si frappongono alla difesa degli interessi immediati e storici della classe operaia.

Comportamenti di classe rispetto alla ristrutturazione produttiva e all'iniziativa sindacale

Noi siamo soliti, e a ragione, ricorrere a parole quali "unità di classe", "sciopero generale", ecc. Per capire l'origine di questi concetti, la loro sostanza, la nostra decisione per mantenerli come "punti fermi", fondamentali per la riattivazione delle lotte, dobbiamo solo ripercorrere alcune "pagine" dello scontro di classe degli ultimi 10/12 anni.

Questo teso anche a riconfermare i nostri contenuti come risultato dell'interpretazione delle esigenze della classe che deriva dalla nostra presenza in quanto proletari, in quanto lavoratori, nelle lotte passate e in corso.

Tornando agli ultimi dodici anni, possiamo dire di aver visto nel '68 l'esigenza della classe di essere protagonista delle proprie lotte sviluppando forme e strutture organizzative che permetteranno una più reale partecipazione e possibilità di risposta all'attacco padronale.

Nascono in queste lotte I CdF e tutti gli altri momenti assembleari e di coordinamento delle realtà di base.

Questi in sintesi i lati positivi delle lotte del '68/'69; in quel momento i sindacati conoscono anche il momento in cui si cerca di tradurre nella pratica parole d'ordine fino allora rimaste sul piano ideale.

Ma per far fronte a questa volontà di partecipazione, a questo desiderio di rispondere attraverso forme il più possibile omogenee delle realtà di base all'attacco capitalista, si fanno anche degli errori, ovvero si instaura un processo di lenta regressione confondendo la partecipazione alle lotte con la partecipazione ai problemi dello Stato, del governo, delle sue figure sempre più scandalistiche.

Confondendo questo si arriva a far passare la ristrutturazione nelle grandi fabbriche (cominciata nel '72/'73), con la politica dei sacrifici, dell'EUR, della solidarietà nazionale, per arrivare ai rischiati, applicati e sempre più dimostrativi decreti e ricatti vari: attacco alla scala mobile, fondo di solidarietà (0,50%), migliaia di licenziamenti, casse integrazioni varie, ecc. Queste non sono poche, ma se ne potrebbero aggiungere molte altre.

Da questa lenta "parabola discendente" delle condizioni di vita e organizzative della classe, si inseriscono momenti che hanno segnato la crisi del sindacato.

Innanzitutto premettiamo che a noi sembra sia giunto il momento di "liberarci", o meglio, "superare" le visioni "tipo" che da un'origine molto vaga, ibrida ed approssimativa, sono via via andate a definirsi e a cristallizzarsi nel passar del tempo.

Ci riferiamo evidentemente a chi da un lato dà oggi la classe intera come "garantita" (?) e totalmente asservita e consenziente alle centrali sindacali riformiste e perciò ne deduce e contemporaneamente ne sancisce "l'irrecuperabilità" (l'interlocutore privilegiato diviene quindi il "convenuto medio" della tre giorni bolognese?) e dall'altro a chi, sempre riferendosi alla classe, ne fa nientemeno che un immenso potenziale di lotta, un vero e proprio "focolaio rivoluzionario", non tenendo quindi neanche in nota le pur evidenti "arretratezze" particolari o generali che siano ed altri palesi contraddizioni, concludendo quindi con velleità e "slanci ideali" del tutto ingiustificati e giustificabili solo alla luce di tali "abbagli" d'analisi.

Perciò lasciamo ad altri l'onere di "massificare" mediante le numerose balordaggini, le quali appunto non cessano d'essere tali solo perché si pretende si spacciarle per analisi.

Senza considerare tutto il resto , noi vorremmo rilevare un solo "limite" (è un eufemismo) che però giudichiamo di tale importanza da invalidare e per intero entrambe le posizioni cui più sopra si accennava: si tratta cioè dell'evidente incapacità coglierne (rispetto alla classe) il carattere estremamente eterogeneo e complesso ed è in questo modo che molto spesso si producono non analisi, bensì una sfilza di grossolane e superficiali impressioni soggettive che neppure scalfiscono l'oggettività delle cose, essendo oltretutto intrise di "individualismo" ed "idealismo" perché partono dalla dimensione individuale dell'inserimento nella lotta senza riconoscersi ad una visione globale, privilegiando perciò i momenti avanzati (avanguardie) sulla complessiva realtà di classe.

Le analisi in definitiva, e indipendentemente da ciò di cui si occupano, per essere tali devono almeno garantire uno studio approfondito, un'indagine accurata e una maggiore articolazione un po' in tutti i discorsi, questo è il minimo che si possa pretendere.
A nostro avviso la fase attuale vede la classe in una posizione di retroguardia (sulla difensiva perciò) rispetto all'attacco capitalistico. Contemporaneamente le sue avanguardie politiche si trovano in misura notevolmente isolata rispetto ad essa.
Anche se vi sono settori avanzati di lotta, non bisogna credere che automaticamente lo sia tutta la classe, che queste lotte tendano ad un progetto rivoluzionario.

Anzi molto spesso può capitare il contrario.

Momenti tipo: tessere stracciate, diserzione alle assemblee, nei momenti di piazza e dilagante sfiducia nelle OOSS e nella gestione comunque da parte loro di qualsiasi iniziativa, dando vita ad una risposta individuale al ricatto padronale con pratiche di sabotaggio e rifiuto del lavoro.

A causa di ciò, nelle analisi del fenomeno, in diversi si è provato di definire positivi tali dati, confondendo un reale livello di coscienza con una sfiducia ed un progressivo movimento di "qualunquistizzazione", momenti che qualcuno ha avuto il coraggio di definire positivi.

Positivi perché vi intravedeva nel rifiuto alle organizzazioni sindacali una coscienza che avrebbe portato alla distruzione di strutture verticistiche e autoritarie per rilanciare la partecipazione e la volontà della base operaia. Solo che con questo non solo non si è arrivati ad un sindacato orizzontale, ma si è sviluppata molto quella rete di sindacati gialli corporativi e fascisti che tendono unicamente all'ignoranza politica per far credere che la "risoluzione finanziaria" o comunque di settore sia l'unico problema importante, puntando alla massima divisione dei lavoratori.

Si verifica spesso che ci si ritrovi come sindacato a misurarsi con i rischi impliciti di tradeunionismo, settorialismo, economicismo, motivi conduttori delle rivendicazioni d'intere categorie di lavoratori. Questo non significa che i ferrovieri, pubblico impiego, (ecc.), diventino necessariamente massa di manovra per i professori della divisione dei lavoratori, ma cosa assai complessa è sempre il sindacato a restare riferimento organizzativo e tutore primo delle istanze di questi stessi lavoratori.

Momenti che cessano in occasioni particolari che chiamerebbero in causa anche i più indecisi (vedo il continuo aumento dei licenziamenti, della cassa integrazione come "anticamera" di questo e soprattutto il caso FIAT). Cessano perché, essendo la posta in gioco molto alta, esiste maggiore disponibilità alla discussione. E i lavoratori dimostrano che come sanno discutere, sanno anche esprimersi; esprimersi per concetti importanti e fondamentali che richiamano all'unità di tutta la classe per rispondere al duro attacco dei padroni uniti.

Anche se si è constatata la mancanza di volontà (nel caso FIAT, ad esempio), dovuta essenzialmente a mancanza di chiarezza delle piccole "realtà di lavoro" non "direttamente coinvolte" nella crisi FIAT da un punto di vista produttivo.

Non si è stati in grado di cogliere un dato molto importante: quello della FIAT non era tanto un caso circoscrivibile in una logica vertenziale o comunque aziendalistica, ma bensì come si è trattato, come sempre si tratta quando si parla di FIAT, di un vero e proprio scontro di paese.

L'incapacità di cogliere questo fatto è da annoverare fra le cause prime della mancata disponibilità alla mobilitazione e alla solidarietà che solo un coinvolgimento di tutti i settori produttivi, delle grandi forze politiche e della classe nel suo complesso poteva essere in grado di generare.

La nostra strategia di intervento nella organizzazione di massa.
Alcune questioni generali.

L'organizzazione di specifico come memoria di classe

Uno dei prodotti della lotta di classe è rappresentato dalla presenza della minoranza rivoluzionaria, ovvero l'organizzazione di specifico. Essa non è esterna alla classe ma interna, è la sua parte più cosciente del fine ultimo da raggiungere, la sua memoria storica.

L'organizzazione rivoluzionaria nasce per il fatto che i lavoratori più coscienti ne sentono la necessità di fronte allo sviluppo ineguale, alla coesione insufficiente delle masse. Ciò che è necessario precisare è che l'organizzazione rivoluzionaria non deve costituire un potere sulle masse, il suo ruolo di guida deve concentrarsi come diretto a formulare, ad esprimere, un orientamento ideologico, organizzativo, tattico/strategico, orientamento precisato, elaborato, adattato sulla base delle aspirazioni e delle esperienze delle masse.

Così le direttive dell'organizzazione non sono degli imperativi esterni, ma l'espressione riflessa delle aspirazioni complessive e generali del proletariato.

Il dualismo organizzativo

Occorre fare chiarezza che il Dualismo Organizzativo (D.O.) non è solamente una formuletta che dice: oltre alla organizzazione specifica comunista anarchica deve esistere una organizzazione di massa.

E' una scelta strategica, ed ancor prima teorica, che i comunisti anarchici fin dalla Prima Internazionale hanno operato. Si tratta cioè non solo di definire la presenza nel movimento di classe di questi due tipi di organizzazione, ma di definire principalmente il loro rapporto ed il loro significato.

Perciò noi definiamo con l'organizzazione di specifico l'organizzazione dei proletari (non facciamo disquisizioni sui termini) che si riconoscono tendenzialmente su una base teorica definita ed una strategia specifica comunista anarchica, e su quella base si organizzano.

Noi definiamo per organizzazione di massa, secondo il nostro progetto, quella organizzazione che tende ad unificare tutti i lavoratori e perciò anche con diverse ideologie, verso la rivoluzione e l'emancipazione dallo sfruttamento.

L'organizzazione di massa come espressione del livello di coscienza di classe

Il problema fondamentale è quello dell'applicazione del D.O. inteso come un rapporto che si deve instaurare con l'odierna realtà di organizzazione di massa. Necessario questo per mantenere quel rapporto dialettico costante teso ad incrementare lo sviluppo della coscienza di classe complessiva, rispetto cioè ad un continuo riferimento e conglobamento degli interessi immediati con quelli storici.

E l'organizzazione di massa è appunto lo strumento più efficace che possa garantire e mantenere quel carattere unitario del proletariato, e che può applicare nello sviluppo delle proprie lotte e delle proprie conquiste la trasformazione dei rapporti sociali e dei rapporti di produzione.

L'organizzazione di massa quindi per essere tale deve perciò esprimere sempre la realtà di classe e il livello di coscienza di questa.

Progetto strategico

La strategia dell'organizzazione di massa (quella che vorremmo che per noi fosse) deriva da una visione strategica della rivoluzione sociale.

In altri termini, occorre partire dalla dinamica della rivoluzione o fase di transizione che dir si voglia, e dal dove vogliamo arrivare. In questo senso avremo un punto di partenza che è dato dalla realtà attuale ed una serie di punti di "arrivo" (anche se saranno i punti di partenza per la società futura) dati dall'emancipazione di classe.

Occorre perciò chiarire che cosa significa emancipazione di classe o rivoluzione sociale. Una cosa è certa, che oltre al vecchio slogan "l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi", l'emancipazione e la rivoluzione potranno esistere se saranno costruiti i rapporti di forza tali che una parte notevole, se non tutti, degli sfruttati, avranno raggiunto l'organizzazione tale per prendersi in mano la società intesa nelle sue forze motrici (produzione, ecc.) e gestirla in alternativa.

Perciò, in ultima analisi, i lavoratori non verranno a noi perché abbiamo delle buone idee e perché abbiamo fatto un sindacato più bello, noi non cerchiamo voti, ma verranno con noi perché noi siamo con loro verso l'emancipazione sociale. Proprio perché l'emancipazione sarà un'azione collettiva e non delle avanguardie rivoluzionarie, noi dovremo sviluppare dentro la classe la coscienza unitaria per la propria emancipazione.

Questa tendenza generale perciò deve avere delle tappe intermedie che definiscono perciò la strategia dell'organizzazione di massa.

Si tratta perciò di rispondere alla domanda: come dovremo costruire i rapporti di forza nella classe operaia in maniera tale da combattere il padronato da una parte ed i riformisti dall'altro? Questa è la chiave di volta di tutta la questione.

Per poter rispondere articolatamente a questa domanda abbiamo analizzato:

  1. la realtà dello scontro di classe, riuscendo a capire le diverse situazioni e livelli di coscienza non credendo che i fenomeni della propria azienda siano fenomeni di tutta la classe;
  2. le potenzialità di lotta in senso complessivo e non corporativo del termine e la nostra capacità, come organizzazione di avere un ruolo importante in queste lotte.

La fase '73/'80 e le caratteristiche dello scontro attuale

Dall'analisi fatta finora emergono tre fenomeni tra loro strettamente collegati:

  1. il calo del rapporto di forza a favore della classe dato dalla strategia di attacco padronale ed il ruolo subalterno dei riformisti;
  2. l'incapacità di una risposta di classe unitaria alla divisione internazionale del lavoro, alla ristrutturazione produttiva in Italia, ai problemi del mezzogiorno;
  3. abbassamento del livello di coscienza di classe e di partecipazione agli organismi di base

L'ORA e il sindacato

L'organizzazione di massa con caratteristiche autogestionarie alla quale noi si tende, e sul piano dell'intervento politico e in sede di progetto strategico, deve appunto possedere una valenza comprensiva dei diversi piani di realtà, perciò non più soltanto su quello produttivo, ponendosi esclusivamente in ottiche fabbrichiate, ma in una dimensione allargata e complessiva, investendo il sociale e il territorio oltre alla fabbrica.

Dalle valutazioni fatte rispetto alla dimensione complessiva dell'attuale organizzazione di massa (ossia le attuali OOSS) e perciò dei livelli di coscienza che essa esprime, si impone l'urgenza di potenziare l'ORA e di incrementare il suo grado di penetrazione nella classe.

Pertanto di definire una strategia unitaria che si mostri capace di fornire ai militanti rivoluzionari anarchici e a tutti i militanti di classe indicazioni politiche da articolare tatticamente sul luogo di produzione, il territorio, la scuola, il quartiere, ecc., tese evidentemente all'innalzamento dei livelli di coscienza del proletariato e ad un rafforzamento del sindacato come espressione di questi.

L'attuale sindacato, considerato come struttura/apparato tendente al controllo delle masse lavoratrici, non risponde all'organizzazione di massa secondo la nostra visione. Ciò detto però, si legittima comunque la necessità imperiosa di trovarci inseriti in questo sindacato, in quanto principale espressione dell'attuale livello di coscienza della classe espresso. A noi comunisti anarchici che, in dispregio a miti nostalgici e a facili avventurismi, preme trovarci "naturalmente" inseriti fra i lavoratori, e perciò il bisogno di collocarci e qualificarci come storicamente lo siamo stati, quale componente politica di base del movimento operaio.

Se ne ricava che non si dovrebbero ammettere oggi atteggiamenti possibilistici rispetto all'intervento sul posto di lavoro e al sindacato stesso, ma una sola scelta obbligata: lavorare dentro questo sindacato per coloro che da questo sindacato e proprio in virtù dell'attuale livello di coscienza espresso, volenti o nolenti si fanno rappresentare.

All'interno di tale discorso, a nostro avviso, si impone un'ulteriore specificazione rispetto poi alla necessità di compiere un'altra vera e propria scelta obbligata.
Scelta suffragata da più ragioni profondamente interrelate fra loro che vanno dalla indubbia valorizzazione delle strutture di base e della loro autonomia (assemblee, CdF) alle radici e al patrimonio storico delle lotte di classe; dalla capacità di una risposta complessiva e unitaria all'attacco capitalistico al processo conclusivo di un organico progetto politico. In conclusione per noi il solo ambito sindacale che ci offre tali garanzie, conserva e possiede le potenzialità di sviluppo di questi caratteri è la CGIL.

Stare ed operare al suo interno penetrandovi anche in senso verticale, lavorando per il suo rafforzamento, noi siamo convinti di operare direttamente non solo per il potenziamento dell'unica organizzazione di massa con matrici di classe oggi esistente, ma anche e soprattutto per la reale unità dei lavoratori (da non confondere con l'unità sindacale nel senso di unità di sigle), e lo smascheramento delle responsabilità oggettive racchiuse nell'azione e nei progetti delle altre organizzazioni sindacali, vere e proprie proiezioni, sul terreno della lotta di classe, dei partiti della borghesia.

L'intervento del militante

L'intervento del compagno sul posto di lavoro (o in rapporto con la realtà di massa od organismi di massa) è teso allo stimolo politico ed alla crescita della partecipazione diretta alla vita politica dentro e fuori il posto di lavoro.

Il nostro discorso anarcosindacalista viene portato avanti nella pratica delle cose e non dalla istituzionalizzazione politica minoritaria.

L'istituzionalizzazione politica dell'unità sindacale di classe si avrà quando sarà costruita nella realtà tendenzialmente complessiva.

Lo sviluppo politico dentro la classe deve avvenire con strumenti che la classe man mano si dà, come il volantino, i giornali fatti in fabbrica ed altri strumenti controllati dalla partecipazione diretta sia dei compagni che dei lavoratori. Questo come sviluppo ed articolazione delle funzioni delle varie strutture di base interne alla fabbrica, e come ulteriore possibilità di incremento della partecipazione dei lavoratori a dibattiti e scelte che devono essere collettive.

Da questo lavoro politico si sviluppano i compagni che la pensano come noi non tanto da un punto di vista ideologico, ma da un punto di vista di prassi politica.

Dopo questo primo livello di intervento locale, vi è la necessità di avere un collegamento orizzontale con altri compagni che fanno esperienze simili, sia dell'organizzazione politica che non, per poter dar forza al nostro progetto ed evitare l'isolamento delle lotte sul territorio. A questo scopo abbiamo organizzato una serie di strumenti collaterali che hanno lo scopo di essere momenti di dibattito collettivo, direttamente nati dall'organizzazione specifica (aperti a tutti quei compagni che sviluppano all'interno del posto di lavoro un intervento con noi) o nati dalla realtà di base unitaria.

La caratteristica di questi organismi però è quella di non essere strumenti di intervento politico diretto, ma indiretto. Nel senso che questi organismi non si presentano come poli di aggregazione alternativi alla classe, ma come strumenti di dibattito in mano ad essa.

Alcuni obiettivi rivendicativi

Oggi l'organizzazione fissa alcuni obiettivi rivendicativi che forniscono la misura ad un tempo della visione e del ruolo dell'organizzazione stessa di fronte al reale complessivo.

Perciò l'ORA oggi sferra il proprio attacco alla politica della crisi sviluppando un discorso imperniato sulla unità di classe e sulla solidarietà proletaria attraverso il proprio potenziamento nel tessuto di classe e demistificando il programma dei sacrifici.

Ovviamente per fare ciò occorre essere in grado di produrre analisi proprie e di fornire precise indicazioni in risposta alla divisione internazionale del lavoro con particolare riferimento per quel che riguarda le sue ripercussioni interne, alla ristrutturazione, al decentramento produttivo, ecc. A ciò connesso urge organizzare un progetto politico sulle tematiche più scottanti del meridione (investimenti, scelte economiche), del mondo del lavoro (disoccupazione, riduzione dell'orario di lavoro, questione giovanile, emarginazione, ecc.). Ne consegue la necessità di sviluppare movimenti di lotta ed aggregare su temi specifici (FIAT, centrali nucleari, servizi sociali, ecc.), valutando attentamente in questo senso il ruolo delle strutture collaterali, estremamente importanti per sviluppare ulteriormente il dibattito sul territorio e capaci di fornire militanti di classe.

Dobbiamo rilanciare il massimo sostegno delle strutture proletarie di dibattito e di lotta sul territorio, quali cooperative, circoli culturali, ecc., per innalzare il dibattito e la partecipazione necessaria allo sviluppo dei livelli di coscienza di classe. Utili ad arricchire maggiormente la qualità delle lotte e sostenere una riorganizzazione proletaria verso la costruzione di un sindacato dei consigli che sappia rispondere alle esigenze complessive del proletariato.

L'ORA sul territorio

Ci pare di aver chiarito la necessità della presenza dell'organizzazione nella lotta di classe, nei movimenti, sindacato e territorio nel suo complesso, che vengono così a costituire i momenti qualificanti del nostro intervento politico.

Pertanto l'ORA ha una propria funzione ed articolazione organizzativa sul territorio nazionale, in qualità di sorgente e centro di studi, di analisi e di organizzazione rivoluzionaria delle lotte in cui ci è la propria presenza.

E si potenzia attraverso il singolo militante che applica nella propria realtà di intervento la strategia dell'organizzazione in base ad un'articolazione tattica rispetto alle situazioni particolari.

Dove questo si organizza localmente con la propria sezione, dove questa coordina il lavoro dei propri militanti ed acquista, nei momenti che richiedono l'espressione e la presenza delle forze politiche, la dimensione reale della propria capacità e necessità organizzativa.

Le Federazioni provinciali hanno il compito importante di dirigere il lavoro delle sezioni e dei militanti della provincia, sviluppando il dibattito anche su eventuali problemi particolari che investono il territorio locale.

La necessità di questo ambito provinciale è data da un maggiore accrescimento politico-organizzativo che genera da esperienze e dibattiti più ampi. Oltre alle strutture nazionali e di territorio che rappresentano sempre un ampliamento degli ambiti organizzativi, di presenza politica e di sintesi del processo di costruzione di una realtà di classe rivoluzionaria.

Questo perché, in perfetta rappresentanza di memoria storica del proletariato, l'ORA cerca di riacquistare la propria immagine di referente politico degna delle proprie origini.

Ed è attraverso la documentazione delle proprie analisi e delle proprie indicazioni che i militanti ORA e i militanti di classe trovano supporto al proprio lavoro politico.

Documentazione che non si crede abbia carattere di sufficienza, ma che indubbiamente mantiene quel carattere di propaganda politica/culturale/formativa che è sintesi politica anche del lavoro che i propri militanti svolgono in quelle strutture che fanno comunque riferimento (pur non essendo sostitutive ad essa) ad organizzazioni di specifico (partiti) e all'organizzazione di massa, che svolgono lavoro di informazione e cultura proletaria e che noi abbiamo definito strutture collaterali.

Commissione Sindacale ORA
Gennaio 1981

 

Note:

1. Da "L'informatore di parte", n° 6, febbraio 1980, trimestrale dei comunisti anarchici di Firenze, pag. 37

2. ibidem, pag. 14

3. ibidem, pag. 10

4. ibidem, pag. 13

5. ibidem, pag. 14

6. Si veda a questo proposito l'analisi dettagliata della "vertenza FIAT" dell'ottobre/novembre scorso sviluppata sul nostro documento "Ai compagni sulla FIAT"


(Originale ciclostilato presso il Centro di Documentazione Franco Salomone, Fano.)