Parte II
La superstruttura socialista

 

I - Il socialismo
II - Il socialismo autoritario
III - La dittatura del proletariato
IV - L'armamento del proletariato
V - Strutture politiche
VI - La giustizia

 

"La superstruttura è l’insieme delle istituzioni edificate da uomini sulla base materiale costituita dall’infrastruttura della società. Si può distinguere la superstruttura politica che organizza e struttura globalmente la società e le superstrutture ideologiche, costituite da molteplici istituzioni e organizzazioni che strutturano le differenti correnti ideologiche (politiche, religiose, etc.)". (fonte UTCL)

 

I - Il socialismo

Il socialismo viene definito tradizionalmente come "fase di transizione" tra capitalismo e comunismo. Ma cos'è in effetti che differenzia la società socialista dalla società comunista? La differenza è di natura o di grado? Concerne tanto la infrastruttura che superstruttura? Cos'è che rende "necessaria" la transizione, e dove comincia il comunismo? Ricordiamo ciò che diceva il "Manifesto dei Comunisti Libertari" della FCL a questo proposito: 

"Cosa può significare l'espressione tanto usata di periodo di transizione se considerata sovente come legata alla nozione di rivoluzione? Se si tratta del passaggio fra la società in classi e la società senza classi, si confonde con l'atto rivoluzionario. Se è il passaggio dalla fase inferiore del comunismo alla sua fase superiore, allora l'espressione è inesatta poiché l'epoca post-rivoluzionaria è tutto un lento progresso continuo, una trasformazione senza scosse sociali dove la società comunista continuerà ad evolvere (…). L'atto rivoluzionario provoca una trasformazione immediata, nel senso che le basi della società sono cambiate radicalmente, ma progressiva, nel senso che il comunismo è in perpetuo sviluppo. In verità, per i partiti socialisti e comunisti statalisti, il periodo transitorio rappresenta una società che rompe con i vecchi schemi, ma che conserva degli elementi e delle sopravvivenze del sistema capitalista e statalista. E' dunque la negazione della vera rivoluzione, poiché conserva degli elementi del sistema di sfruttamento, la cui tendenza è quella di rinforzarsi e di svilupparsi".

Da questo testo emerge un pensiero importante: la differenza tra socialismo o comunismo non è di natura, ma di gradi: la società socialista è in effetti una "fase inferiore del comunismo" (come ha detto Marx). Concretamente questo significa che la rivoluzione deve apportare immediatamente un radicale cambiamento nella struttura dei rapporti di produzione come nell'organizzazione del potere politico; deve mettere in piedi ad ogni livello e immediatamente delle strutture autenticamente socialiste. In mancanza di ciò, le strutture conservate del capitalismo farebbero presto "a rafforzarsi e svilupparsi". Questo è particolarmente vero per la struttura statale, l'evoluzione della società russa ce lo ricorda. Ma quali sono allora le differenze tra socialismo e comunismo?

Prima di tutto sono importanti a livello dell'infrastruttura economica. Ma anche a livello della struttura politica e ideologica della società. Riguardo a ciò, la formulazione del Manifesto, non è leggermente idilliaca?: "l'epoca post-rivoluzionaria è tutto un lento e continuo progresso, una trasformazione senza scosse sociali...". Quale sarà l'evoluzione dei rapporti di classe nella fase immediatamente post-rivoluzionaria? Quale sarà quella della superstruttura ideologica?

La rivoluzione deve realizzare immediatamente l'espropriazione delle classe sfruttatrici e assicurare così la loro sparizione come classi (ciò non significa per forza il loro sterminio fisico). Vale a dire pertanto che ogni lotta di classe sparirà immediatamente? Oltre alla borghesia, se è annientata come categoria sociale e resta come essere fisici e dunque bisogna considerare il problema di una reazione contro-rivoluzionaria, resta aperta la questione degli altri strati (o classi) sociali (strati medi, piccoli contadini, ecc.). Quale sarà la collocazione ed il ruolo di queste classi dopo la rivoluzione? Quali saranno i loro rapporti col proletariato? Lo stesso, la sopravvivenza, dopo la rivoluzione, di strutture mentali ed ideologiche ereditate dal capitalismo non deve essere considerata come un'ipotesi, ma come una certezza. Quale sarà il loro impatto sull'evoluzione della società socialista? Infine, la rivoluzione non saprebbe apportare, per fortuna, un unanimismo nelle idee politiche, filosofiche e religiose (non saranno tutti comunisti-libertari). Queste correnti come potranno esprimersi e organizzarsi?

Il socialismo è tutto fuorché un periodo di calma e di armonia. E' un periodo di lotta, di continua mutazione. E in questo periodo la forma che prenderà l'organizzazione del potere politico, giocherà un ruolo determinante.

 

II - Il socialismo autoritario

Si sa, il principale punto di rottura con quella che chiamiamo, in maniera molto generale, la concezione autoritaria del socialismo, è la questione dello Stato. Si sa anche che la differenza che ci vede opposti a questa corrente e col suo principale rappresentante, Lenin, in particolare non si basa tanto sulla necessaria sparizione dello Stato nella futura società comunista, quanto sul momento di questa sparizione: quando affermiamo la necessità di una soppressione immediata, Lenin afferma la necessità di uno Stato "proletario" transitorio, destinato in seguito a "deperire".

Non intendiamo dare qui una presentazione critica dettagliata delle tesi di Marx, Engels, Lenin, ecc., sul problema dello Stato, ma semplicemente qualche questione e asse di riflessione.

Converrà, per prima cosa, intenderci sulla definizione stessa della parola Stato: si tratta semplicemente dell'organismo di dominazione, di oppressione di una classe sull'altra, l'arma forgiata da una classe sfruttatrice per assicurare e mantenere il suo potere su una classe sfruttata? Una tale definizione non è troppo generale? In effetti dobbiamo concludere che essere per l'abolizione dello Stato, significa essere per l'abolizione di ogni potere di una classe su un'altra. Si tratta, in altri termini, di essere contro la dittatura del proletariato. Ora sono questi due dibattiti completamente differenti. Una definizione così leggera non ci permette neppure di rompere col discorso leninista tradizionale (lo Stato e la dominazione di una classe su di un'altra, il proletariato dopo la rivoluzione dovrà instaurare il suo potere sulla classe borghese (ex), deve comunque instaurare uno stato operaio per organizzare il suo potere). In effetti, a nostro avviso, la questione della natura del potere politico e quella delle sue strutture, della sia organizzazione, devono essere chiaramente distinte. Il potere dei lavoratori può prendere differenti forme, statali o no. Il termine di Stato non definisce semplicemente il potere di una classe, ma anche un mezzo per esercitare questo potere, una certa organizzazione di questo potere: gerarchizzato, piramidale e ora strettamente la divisione tra una minoranza di governanti ed una maggioranza di governati. E' questo tipo di struttura politica che dobbiamo condannare e combattere. Quello che proponiamo non è la dissoluzione, la sparizione di ogni potere organizzato, ma una rottura radicale con le forme esteriori di esercizio del potere. Può perfettamente esistere una dittatura non statale del proletariato (ciò che per alcuni marxisti è una contraddizione in termini). Conviene non eludere i problemi che si presenteranno alla giovane rivoluzione, e che costituiscono le giustificazioni che avanzano i leninisti al mantenimento di una organizzazione statale della società:

affermare che questi compiti non necessitano affatto di una struttura politica di tipo statale, e possono essere perfettamente assunti dal proletariato intero, organizzato sulla base della democrazia diretta e dell'autogestione. A quelli, e ce ne saranno senz'altro, che ci rimprovereranno che una tale prospettiva è "utopica", dovremo rispondere che ciò che è utopico (nel senso peggiorativo del termine), è sicuramente questo preteso deperimento magico dello stato "operaio", che non si capisce come possa effettuarsi e di cui constatiamo d'altronde che non s'è mai prodotto. Le lezioni della storia, (quella russa notoriamente), dimostrano al contrario che evidentemente lo Stato così creato non avrà altra tendenza che quella di svilupparsi, di rinforzarsi, di assicurare la sua riproduzione anche alle spese di chi è tenuto a "rappresentare", gli operai. In verità, la divergenza di fondo col leninismo parte, dopo come prima della rivoluzione, sulle capacità rivoluzionarie del proletariato.

Se Lenin preconizza la messa in opera di uno stato transitorio è perché giudica il proletariato insufficientemente preparato per assumersi i compiti di organizzazione e di gestione della società socialista, così come la salvaguardia della rivoluzione. E' perché pensa che sarà sempre dominato dalle tendenze "piccolo borghesi", dunque è compito della sua frazione più avanzata, l'avanguardia organizzata nel partito, di prendere il potere e di assicurare l'educazione delle masse affinché queste siano infine capaci un giorno di assumersi esse stesse, lo Stato regredirebbe allora per lasciare posto al potere di tutti i lavoratori. Sappiamo dove ci hanno portato tali concezioni. Ma la critica che si deve fare non si deve attestare alla semplice constatazione, giusta ma insufficiente, che ogni potere tende a rinforzarsi e a riprodursi. La messa in atto dello "stato operaio", del potere del partito unico, ha avuto e avrà per forza delle conseguenze contrarie alle intenzioni sbandierate da Lenin (ammettendo che esse fossero sincere): realizzare "l'istruzione, l'educazione e l'organizzazione delle masse (...) farne una libera associazione di lavoratori liberi".

Lontana, in effetti, dall'incoraggiare lo sviluppo della coscienza e dell'attività delle masse, la struttura statale non può al contrario che ostacolarla. L'URSS ha conosciuto molto presto un riflusso dell'attività rivoluzionaria delle masse. Il leninismo invoca questo riflesso come la causa della centralizzazione (burocratizzazione) accresciuta del potere politico ed economico. Ma non è piuttosto la conseguenza? Non è privando, dal 1918, il proletariato di ogni possibilità di azione e di espressione autonoma che o bolscevichi hanno essi stessi provocato questo riflusso?

Un arretramento dell'attività rivoluzionaria del proletariato dopo la rivoluzione vittoriosa è sempre possibile, bisogna esserne ben coscienti. D fronte a questo pericolo, non c'è alcuno scudo di tipo istituzionale che sia considerabile. Non si potrebbe mantenere artificialmente ad un alto livello la mobilitazione del proletariato. Non si potrebbero obbligare coloro che non vogliono a partecipare attivamente alla gestione della società e anche della loro industria. Ma questo arretramento dell'attività e della coscienza non è una fatalità, come sembra affermare il leninismo che decreta che in fin dei conti, per evitare le cattive sorprese, bisogna prendere certe decisioni e sostituirsi al proletariato per un certo tempo. Questa soluzione, la soluzione statale, conduce inevitabilmente all'arretramento dell'auto-attività delle masse, poiché essa mira precisamente all'imbrigliamento di tale attività. Al di là dunque delle tendenze di coloro che sono al potere per conservarlo, ammettendo che i dirigenti dello Stato "proletario" siano "ben intenzionati" e pronti a rendere il potere al proletariato una volta che avrà raggiunto un livello di coscienza e di attività sufficienti, constatiamo dunque che la soluzione statale finisce per spingere sempre più lontano, e a rendere più improbabile una tale scadenza, creando le condizioni "oggettive" del mantenimento del potere della minoranza sulla maggioranza. La soluzione autogestionaria, libertaria, consiste al contrario nel mettere in atto a tutti i livelli, strutture che favoriscono al massimo lo sviluppo dell'attività e della coscienza rivoluzionaria.

 

III - La dittatura del proletariato

"La dittatura è una parola significativa.
E queste parole non devono essere 
gettate al vento
"
(Lenin)

Come abbiamo visto, il dibattito sulla dittatura del proletariato deve essere concretamente distinto dalla critica dei regimi sedicenti socialisti; vale a dire della critica della dittatura sul proletariato. Non è più sui termini "su" o "di" che bisogna interrogarsi, ma sul termine di "dittatura" stesso e di cosa significhi, essendo inteso, una volta per tutte, che può esistere una dittatura anti-statale del proletariato. Come afferma Lenin, la parola dittatura è una parola significativa che non si può adoperare alla leggera. Implica dei rapporti sociali precisi, dei rapporti dittatoriali. La questione è dunque semplice nella sua formulazione: il proletariato deve instaurare dei rapporti dittatoriali, instaurare la sua dittatura sugli altri strati o classi il giorno dopo la rivoluzione? La dittatura del proletariato significa l'esercizio del potere da parte del solo proletariato. Essa significa l'esclusione di tutte le altre categorie sociali dagli organi di gestione della società, e l'instaurazione di fronte a queste altre categorie di rapporti di dominazione, eventualmente di repressione. La sua giustificazione tendenziale è semplice: il proletariato, sola classe rivoluzionaria è solo, a meno di far avanzare la rivoluzione sulla strada del socialismo reale. Evidentemente, la questione della dittatura del proletariato non può essere posta indipendentemente da quella della natura dei differenti strati e classi, dei loro interessi e ruoli. Essa non può esserlo neanche indipendentemente da quella delle alleanze di classe. Possiamo immaginare il proletariato fare la rivoluzione con l'appoggio di altre forze sociali, rifiutandole in seguito? Ben inteso, queste questioni hanno una dimensione differente secondo le classi considerate.

La vecchia borghesia

Sembra giusto dire a priori che il proletariato esercita durante e dopo la rivoluzione la sua dittatura sull'ex-borghesia. La rivoluzione è in effetti rivoluzione contro la borghesia; questa è espropriata, distrutta come classe sociale e la rivoluzione deve in più difendersi dall'eventualità di un tentativo di restaurazione del vecchio ordine (ciò può significare delle misure "preventive"?).

La rivoluzione proletaria esercita dunque una costrizione violenta contro la borghesia. Questa violenza rivoluzionaria è inevitabile. Ciononostante certuni rifiutano a questo proposito il termine di dittatura del proletariato. In effetti la rivoluzione non opera un semplice "capovolgimento" dei rapporti sociali: il proletariato non sfrutta la borghesia. Se esercita una costrizione, essa non è che temporanea e non cercherà di perpetuarla e di perpetuarsi esso stesso come classe dominante. Al contrario cerca di negarsi lui stesso come classe e in effetti di sopprimere ogni divisione di classe nel seno della società. Il termine di dittatura non diventa dunque improprio?

Partiti e libertà politica

I rapporti tra proletariato e vecchia borghesia (o altre classi) non si pongono unicamente in termini di violenza fisica e armata. Si pongono anche e prima di tutto, in termini politici: quale sarà l'espressione politica dell'antica borghesia (ce ne deve esser una) o delle altre categorie sociali dopo la rivoluzione?:

Più in generale, quale sarà l'attitudine della società socialista in materia di organizzazione e di espressione politica? La storia ha dimostrato che i Consigli sono sempre stati luogo di scontri politici violenti tra le diverse correnti e tendenze politiche presenti. Sembra chiaro che un partito che difenda, nel loro seno, la restaurazione dei rapporti borghesi, non avrebbe molta udienza e sarebbe presto messo in minoranza. Al contrario, altre tendenze, prendendo per esempio vie di tipo burocratico, possono perfettamente raccogliere un certo interesse, particolarmente tra le vecchie classi privilegiate che vi troverebbero un mezzo per riavere i loro privilegi (vedi il reinserimento delle classi dirigenti russe del regime zarista nell'apparato burocratico). Che atteggiamento assumere di fronte a queste correnti? Bisogna puramente e semplicemente proibirle? Su quali basi (cos'è un controrivoluzionario?; ricordiamoci che in altri tempi gli anarchici sono stati essi stessi trattati come tali ed esclusi)? Chi deciderà? Conviene sottolineare che queste tendenze -se sono borghesi nelle loro ideologie, non lo saranno forzatamente nella loro composizione: ci sarà, può darsi, un numero non indifferente di proletari. Non si tratterebbe più allora della dittatura del proletariato, ma di quella di una corrente politica che pretende di detenere da sola la giusta linea scartando d'autorità tutti gli altri. Una tale misura di divieto -che dimostra effettivamente la dittatura- non è pericolosa? Non causerà una sterilizzazione della vita politica? Interdire i partiti "controrivoluzionari" non significa andare direttamente al regime del partito unico? A meno di interdire tutti i partiti??? Un'attitudine repressiva in materia di libertà d'espressione non segnerebbe di fatto lo scacco della rivoluzione, la sua incapacità ad imporsi politicamente?

I rapporti con le altre classi

Come appare nel testo dell'ex-ORA "La dittatura antistatale del proletariato", pubblicato da Leval nel B.I.: "il proletariato solo avrà un ruolo dirigente durante la fase transitoria". Ci sono però due questioni di taglio che sembrano eluse: 

La società capitalista moderna non è divisa in due classi ben distinte e omogenee, la borghesia da una parte, il proletariato dall'altra. Benché Marx abbia effettivamente pensato che l'evoluzione della società doveva portare ad una tale semplificazione dei rapporti sociali (ed è, bisogna sottolinearlo, in questo contesto che è nato il concetto di dittatura del proletariato), la realtà è più complessa. Che atteggiamento bisogna dunque adottare di fronte agli strati medi, contadini, artigiani, ecc.? Bisogna escluderli da ogni luogo di decisione, nella fabbrica come nelle città, per paura di vederli difendere i loro interessi e le loro concezioni "piccolo borghesi"? Questo significa imporre loro in modo autoritario decisioni che li concernono direttamente. Il compito prioritario, l'indomani della rivoluzione, non deve essere piuttosto quello di tentare di convincere il più possibile di gente alla causa del socialismo nascente, di ottenere in gran numero, non la neutralità ma la partecipazione attiva alla costruzione della nuova società? In mancanza di questo, quest'ultima sarà possibile? Ricordiamo, per finire, su questo punto, una questione sollecitata da Lille nel B.I. n°10: "la rivoluzione, nonché la soppressione dell'ineguaglianza, scatenerà una reazione delle classi medie privilegiate quali i liberi professionisti, etc. Cosa fare contro gli atti di sabotaggio o di boicottaggio di intere categorie professionali (ex medici)"?

 

IV - L'armamento del proletariato

Su questo tema, sono già circolati nell'organizzazione diversi testi: "La crisi rivoluzionaria, la violenza e l'armamento del proletariato" (Nancy) e "Riflessioni sull'armamento del proletariato" (Metal, risposta al precedente). Ci contenteremo dunque qui, di questioni molto generali; per maggiori dettagli bisognerà rifarsi a questi testi.

 

V - Strutture politiche

Il principio essenziale della società socialista libertaria può riassumersi a questo: che ciascuno possa decidere per ciò che lo riguarda, che ognuno possa prendere in mano la sua vita, il suo destino e cessa di "affidarli" ad altri. Il socialismo libertario è la riappropriazione generalizzate: riappropriazione dei mezzi di produzione da parte dei produttori; riappropriazione della dominazione del lavoro da parte dei lavoratori; riappropriazione dei prodotti del lavoro; riappropriazione della vita in generale di tutti e tutte. La concretizzazione istituzionale di questo principio è la democrazia diretta, il rifiuto di ogni delega di potere a qualsiasi livello. Rifiutare la delega del potere implica che quest'ultimo sia esercitato al massimo nelle cellule di base della società: fabbriche, comuni, quartieri, città, regioni, etc. La loro autonomia deve dunque essere massima. Questo vuol dire pertanto che siamo per una dissoluzione, una abolizione di ogni potere istituito? Bisogna, in nome della sovranità della base, andare verso una società dove ogni comune, ogni industria, sarebbe ripiegata su se stessa in una autarchia più o meno completa? E' quello verso cui, in ogni caso, tendono certi progetti anarchici o ecologici. Ma tali concezioni sono valevoli nel quadro di una società moderna come la Francia del 20° secolo? Non creerebbero, malgrado il loro aspetto seducente in apparenza, dei reali pericoli tanto sul piano economico che politico e sociale? I comunisti libertari rivendicano il principio federalista, Cosa vuol dire? Il federalismo vuol rendere compatibili l'autonomia massimale delle cellule di base e la costruzione di una società organizzata (l'anarchia è la più alta espressione di ordine). Si pongono allora due questioni:

Ma prima di tutto conviene definire quale sarà la struttura di base della società, nella fabbrica come nelle città: la gestione può formularsi così: tutto il potere ai Consigli Operai o tutto il potere alle Assemblee Generali?

I due termini non potrebbero in effetti essere sinonimi: il Consiglio è un'istanza eletta dall'assemblea generale. Qual è il legame fra le due? Quali sono i loro rispettivi ruoli? Com'è eletto il Consiglio? Idealmente il Consiglio deve essere un semplice organo esecutivo dell'Assemblea Generale, che assicuri la realizzazione pratica delle decisioni di quest'ultima. Detto questo, il Consiglio dispone di un margine di iniziativa, e quale, per le decisioni pressanti e urgenti? Questi problemi sono più delicati di quanto sembri. In effetti c'è il grosso rischio di vedere accrescere l'autonomia del Consiglio, e che questo renda sempre meno conto all'Assemblea Generale delle sue attività, prenda per proprio conto delle decisioni cruciali, libero di farle ratificare a posteriori da una Assemblea Generale messa di fronte al fatto compiuto. La burocratizzazione dei Consigli è cosa perfettamente possibile, la storia ne porta molti esempi. Di fronte a questo rischio cosa proporre? Da molto tempo, il movimento libertario e certe altre correnti propongono tre "progetti":

Di questi tre principi, l'ultimo è senz'altro il più importante, poiché gli altri due non permettono che un controllo a posteriori delle decisioni prese e delle azioni effettuate. E' anche il più difficile da mettere in opera. Merita dunque un esame particolare. Il principio del mandato imperativo traduce concretamente il rifiuto della delega del potere. Attraverso di esso è in ballo la questione della "elezione dei delegati alle istanze rappresentative". Questa può effettivamente effettuarsi attraverso due modalità radicalmente differenti:

  1. L'eletto/a è eletto/a secondo le sue idee (sul suo programma se è organizzato), gli si dà incarico di rappresentare l'Assemblea Generale nelle strutture superiori. In effetti vi difenderà le sue idee (quelle del suo partito). Gli si affida un assegno in bianco.
  2. L'eletto/a è un semplice delegato, incaricato di ritrasmettere le decisioni della struttura che l'ha eletto.

La divergenza è chiaramente espressa in questi testo della LCR ("Sì al socialismo"): 

"Se vogliamo evitare che i delegati dei Consigli locali ad un congresso regionale o nazionale non vi apportino che il loro limitato punto di vista, senza poter prendere posizione sulle grandi opzioni, bisogna che i candidati siano stati eletti sella base di orientamenti contraddittori presentati nei differenti Consigli dei rappresentanti dei partiti, che sono anche il vettore delle grandi scelte, a partire da una visione degli interessi generali in gioco".

Rifiutare il mandato imperativo è, come mostra chiaramente questo testo, ricadere in una logica di tipo parlamentare "senza parlamento". Da un lato la base prende essa stessa le decisioni e incarica i suoi delegati di ritrasmetterla a livelli superiori, dall'altro elegge i suoi rappresentanti secondo gli orientamenti presentati dai partiti, lasciando a questi la cura di prendere le decisioni in funzione delle loro opzioni partigiane. Ci sono là due concezioni radicalmente incompatibili della democrazia socialista. Il testo della LCR presenta un altro aspetto interessante: secondo loro, solo i partiti possiedono "una visione degli interessi generali in gioco".

Sottointeso: i Consigli non possiedono che la visione dei loro interessi particolari. C'è bisogno di dire che, affinché il mandato imperativo sia avviabile, c'è bisogno che un'informazione perfetta circoli ad ogni livello della società, E' necessario precisamente che ognuno possieda questa visione degli "interessi generali", che possa in tutta cognizione di causa prendere posizione sui problemi più quotidiani, come sulle grandi scelte sociali. Infine, la questione dell'elasticità del sistema deve essere abbordata: qual è il margine di manovra dei delegati? Che iniziative possono prendere in funzione del loro mandato (se si tratta solamente di ritrasmettere una decisione della struttura che li invia, anche il telefono può risolvere bene la questione). Mandato imperativo, revocabilità ad ogni istanza, rotazione, sono queste le barriere alla burocratizzazione eventuale della democrazia dei Consigli. Detto questo, sembra chiaro che ad ogni modo non potrebbero esistere garanzie istituzionali interamente soddisfacenti di fronte a questo rischio. La sola garanzia reale è la mobilitazione e il livello di coscienza delle masse. In caso di riflusso, sempre possibile, è inevitabile che le strutture, a tutti i livelli, siano accaparrate dai militanti più attivi, sovente quelli che sono più organizzati. Fin qui abbiamo discusso dei rapporti Assemblea Generale/Consigli, nelle strutture di base, ma di quali strutture si tratta? Possiamo almeno immaginare due grandi tipi:

Quali saranno i loro rispettivi ruoli? Quale sarà il loro peso rispettivo nelle decisioni comuni? Saranno raggruppati a livelli superiori in un'unica struttura? In corso di conflitto a livello locale tra un'impresa e il Consiglio locale, chi medierà? Il problema dei Consigli locali pone d'altronde questioni specifiche: qual è il loro ruolo (armamento? Educazione? Cultura? Giustizia?...). ma soprattutto, qual è la loro composizione? Interclassista? Infine conviene sapere in che modo tutte queste strutture di base si coordinino per assicurare la gestione economica e politica della società. Ognuno deve poter decidere su quel che lo concerne, è stato già detto. Le decisioni concernenti unicamente l'impresa e il comune, devono essere prese sovranamente dai membri di questi. Ma, cosa succede per le decisioni concernenti l'insieme della società? Riguardando tutti ed ognuno, esse devono essere prese da tutti e da ognuno. Il principio federalista si propone di rovesciare la piramide del principio centralista, in cui le decisioni sono prese al vertice e dirette in seguito verso la base: ormai le decisioni devono essere prese dalla base e risalire verso il vertice, il che non esclude per niente i legami trasversali. Come sarà quel centralismo? Si vedono bene i differenti possibili livelli della "piramide": assemblee e consigli d'impresa e locali, consigli regionali, consigli di categoria, ecc., il tutto eventualmente convergente verso un'assemblea centrale dei delegati e il suo consiglio. Ma come circoleranno informazioni e decisioni? Esiste una piramide differenziata per l'economia e l'amministrativo, (Consiglio centrale della pianificazione - consiglio centrale dei delegati)? Il mandato imperativo è possibile a tutti i livelli? Le elezioni a diversi istanze si fanno per livelli o tutte per la base? (es. di elezione "per livelli": una assemblea generale elegge il suo consiglio, quest'ultimo elegge i suoi delegati a livello superiore che a loro volta fanno lo stesso, ecc. fino al vertice; evidentemente i delegati non hanno mandati e sono controllati da coloro che li hanno eletti, dal livello immediatamente inferiore), Quali sono i poteri del Consiglio Centrale? Si tratta di un Super Soviet assimilabile alle attuali assemblee parlamentari? Di cosa deve trattare il dibattito? Qual è la sua libertà di azione in casi di crisi urgente (crisi internazionale, per esempio), ecc.? Qual è l'impatto delle nuove tecniche di comunicazione sull'insieme di questi problemi?

 

VI - La giustizia

Il problema della giustizia, nel quadro del progetto rivoluzionario, si presenta sotto due aspetti: 


Parte III

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