CINA
In Cina, dalla vittoria del Partito Comunista nel 1949, non esiste una situazione in cui la classe lavoratrice e proletaria in genere sia il soggetto cosciente di una transizione comunista anarchica. Di riflesso, ci si trova di fronte ad una potenza che si sviluppa sulle basi di un rapporto di dominanza fra i gestori del potere e gli strumenti di questo potere: i proletari.
Per sostenere e sviluppare questa affermazione ci sono dei campi d'analisi specifici.
A. Al riguardo, scorrendo la storia del PCC dagli anni '20 alla presa del potere, si nota con estrema chiarezza, sia dalle dichiarazioni del Partito sia dalla sua pratica, che la metodologia dei comunisti per impostare la rivoluzione non è mai stata quella di innescare tra le masse un processo di coscienza autonoma che portasse alla costruzione di organismi autonomi rivoluzionari. Scopo del PCC è sempre stato quello di prepararsi alla conquista del potere centrale, a porsi cioè come unico soggetto reale della transizione rivoluzionaria da intraprendere. Questa prassi e teoria i cinesi la succhiavano avidamente dai bolscevichi russi, a cui si appoggiarono molto nella fase di lotta che culminò con la presa del potere nel 1949.
Per porsi come unico soggetto rivoluzionario, il Partito aveva operato un legame ambivalente ed ambiguo con le masse insieme ad uno spostamento continuo dei termini dello scontro di classe in un campo alienato alle masse stesse.
Il legame con le masse era necessario, nella misura in cui esse si presentavano come i principali protagonisti, in termini di forza concreta, del trapasso di potere; d'altra parte i bolscevichi cinesi svuotavano costantemente gli atti di ribellione di massa dei contenuti autonomi che presentavano, per usarli come pura arma nella conquista del potere.
Questo gioco risultò particolarmente facile ai comunisti, perché le masse sfruttate cinesi si trovavano in una situazione di grande difficoltà, frammentazione e spesso debolezza proprio a causa della struttura politico-economica della Cina, fortemente impregnata di forme di tipo feudale. Questo tipo di rapporto con le masse ha causato il continuo spostamento dei luoghi di formazione del programma rivoluzionario dall'ambito naturale delle masse in lotta, con i suoi tempi, le sue esigenze, ecc., all'ambito dei rapporti di forza fra i dirigenti comunisti e dirigenti degli altri partiti, all'interno della sfera del potere centrale.
Ora non interessa dire quanto c'era di ineluttabile e necessario e quanto di puramente volontario in questo comportamento dei bolscevichi cinesi.
Quel che importa rilevare è che il PCC non si pose mai nell'ottica di affrontare i problemi dell'unità delle masse, della loro maturazione politica e dell'organizzazione autonoma, allo scopo di rendere le masse capaci di fare la rivoluzione, ma cercò sempre di ritrovare in se stesso l'unità, la maturazione e la forza per essere classe rivoluzionaria; così facendo, l'unità delle masse risultava un inquadramento forzato di un esercito di soldati ignari dello scopo per cui li si preparava a combattere, la maturazione politica veniva distorta in un indottrinamento dall'alto, la forza d'urto era prodotto di manovre esterne ad esse che rendevano questa forza un fatto incostante perché non insito nella autodeterminazione dei suoi protagonisti.
Questa metodologia non ci garantisce che, se il PCC avesse agito correttamente, si sarebbe arrivati nel '49 ad una transizione rivoluzionaria, ma ci garantisce il fallimento, dal punto di vista rivoluzionario, della lotta di classe in Cina, in quel periodo.
E' questo quel che conta: i bolscevichi cinesi hanno agito in modo tale da chiudere necessariamente la strada della rivoluzione; strada che per essere percorsa pur nella sua lunghezza e difficoltà, ha prima di tutto bisogno di essere imboccata correttamente.
La pratica del PCC garantì che le oggettive enormi difficoltà che si presentavano alla rivoluzione in Cina fra il '20 ed il '50, si trasformassero da ostacoli in fattori coerenti per uno sbocco controrivoluzionario, con quella tipica pratica autoritaria pseudo-scientifica di trasformare l'arretratezza di un sistema economico in necessità oggettiva dell'instaurazione (o del perfezionamento) dello sfruttamento capitalistico, e la disunità ed immaturità relativa delle masse in patente definitiva di incapacità ad autodeterminarsi e determinare il processo rivoluzionario.
Queste premesse storiche non potevano che sfociare in risultati di particolare distorsione delle pratiche rivoluzionarie, amplificati ampiamente dal fatto che la nuova classe dirigente cinese doveva, per reggersi e rafforzarsi, aprirsi un varco nel campo del potere mondiale, garantendosi pratiche di sfruttamento economico e politico capaci di far recuperare quel tempo che la Cina aveva perso rispetto alle scadenze del capitalismo mondiale. Né esistevano alternative reali a questa strada, date le premesse.
B. Il PCC si pone come effettiva sorgente di potere rispetto alle strutture della società.
Rispetto alle masse, il PCC si pone con un rapporto leninista; dal momento infatti che la organizzazione politica altro non è che la classe rivoluzionaria, la sua coscienza è la coscienza dei suoi quadri.
E inoltre, dato il centralismo democratico, i quadri direttivi sono quelli che decidono. Le masse quindi si trovano in posizione non solo di subordinazione, ma soprattutto di estraneità cera e propria rispetto ai meccanismi con cui si forma e si esprime la coscienza del Partito. Anzi, la estraneità, la non corrispondenza fra coscienza di massa e direzione politica sono la base su cui, una volta formatasi la decisione politica, si poggia la subordinazione delle masse e dei quadri di base, dal momento che coloro che non hanno preso la decisione non possono che eseguirla senza discutere e coloro che invece l'hanno presa, devono farla eseguire.
Con questa prassi il PCC persegue la strada di fare essere le masse "classe rivoluzionaria" solo nel momento in cui si identificano totalmente nella coscienza del Partito, il quale è sempre incondizionatamente "classe rivoluzionaria".
Il PCC persegue così la strada, opposta a quella rivoluzionaria comunista anarchica, di essere sempre più esterno alle masse quanto più avanza la "rivoluzione", perché l'avanzamento della coscienza delle masse non può manifestarsi se non con l'aumento del potere che esse delegano al Partito.
In Cina, questo schema ideologico ha grande concretezza, dal momento che tutte le strutture del PCC non conoscono che il moto verticale, dall'alto in basso; e dal momento che qualsiasi crescita e manifestazione della coscienza delle masse in quanto tali, si trova subito di fronte all'apparato del Partito che la nega o la accetta nella linea politica del potere in base alle sue direttive preesistenti.
Lo Stato cinese è la struttura politica con cui le masse eserciterebbero la dittatura per soffocare le tendenze borghesi ed instaurare la transizione al comunismo. Tenendo presente quanto acquisito finora, c'è da inventarsi ben poco ancora. L'equazione che ne deriva è infatti molto semplice: date le necessità della dittatura delle masse proletarie e del partito leninista che è "le masse rivoluzionarie", lo Stato deve:
Questo vuol dire due cose principalmente:
La struttura economica cinese sarebbe il campo in cui lo sviluppo dei mezzi e delle capacità produttive deve permettere l'instaurazione del comunismo. Il PCC vede nell'economia il principale strumento di emancipazione della società cinese. Bisogna chiarire però che questa posizione va oltre il riconoscimento dell'importanza dell'economia in una transizione rivoluzionaria. I dirigenti cinesi non partono dal presupposto che bisogna abolire qualsiasi forma di dominio sul lavoro manuale per poter sviluppare l'economia in forme omogenee alla transizione al comunismo, ma affermano che la posizione del lavoro manuale è subordinata allo sviluppo di una data capacità produttiva, cioè l'obiettivo principale è quello di sviluppare certe mete produttive, usando la forza-lavoro come uno degli strumenti per questo scopo. Si vuole che, attraverso questo processo, la forza-lavoro, alienandosi come strumento, prepari la sua emancipazione. Il PCC si rapporta all'economia in due modi: attraverso lo Stato e attraverso l'ideologia politica. Lo Stato è l'imprenditore supremo e definitivo dell'economia cinese, sia nella gestione esplicita dei frutti dell'attività produttiva, sia nella determinazione dei rapporti di produzione specifici dei vari settori e nella determinazione dei traguardi produttivi specifici e generali, sia, infine, nello stabilire la misura con cui ogni attività debba essere retribuita.
L'ideologia è un'arma molto potente, articolata e, meglio, dotata di grande potere d'infiltrazione. Il PCC così batte costantemente sul cervello dei cinesi o di alcune categorie di essi, per portarli ad essere convinti della giustezza e della necessità di determinare scelte economiche, di determinati ruoli e comportamenti economici. Il PCC ha molte leve da usare in tal senso: l'uso dei suoi quadri ed attivisti, il monopolio di fatto dei messi di informazione e comunicazione.
Strutture come quella militare si trovano spesso ad appoggiare grandi campagne produttive lanciate dal Partito e, si sa, quando c'è di messo un esercito, c'è di mezzo la costrizione.
Lo scopo che si dichiara di perseguire con questo tipo di strumenti è quello di guidare l'economia cinese verso l necessità oggettiva, e quindi possibilità oggettiva, del comunismo.
In questo quadro, le masse lavoratrici sono subordinate alle tappe di sviluppo decise da loro stesse in quanto classe rivoluzionaria cosciente, cioè dal Partito e dallo Stato, cioè da altri esterni e superiori ad esse. Il lavoro è strumento ed il controllo risiede esternamente ad esso.
Il PCC, quando discute sul ruolo del lavoro umano nell'economia, discute sui modi economici con cui esso deve svilupparsi ed armonizzarsi con gli altri fattori produttivi, discute sui modi con cui questa risorsa deve essere mobilitata.
I proletari cinesi sono detentori di forza-lavoro e non lavoratori creativi.
E' chiaro, quindi, che lo Stato, dovendo basarsi su un'economia in cui il ruolo del lavoro deve essere manovrato dall'esterno, deve operare nei suoi confronti:
Riguardo ai mezzi di produzione fisici, lo Stato decide i modi con cui devono essere prodotti ed usati dai lavoratori.
Lo Stato ha lo scopo di raggiungere determinate sue mete economiche gestendo le forze produttive come un fatto astratto che si deve poter riplasmare in strumenti produttivi vari, per qualità e quantità. Primo scopo è quindi quello di estrarre forme astratte di potenza produttiva dai vari atti produttivi; questa è la condizione perché i dirigenti cinesi possano decidere sull'economia in prima ed ultima istanza. Di conseguenza, perché l'economia cresca e cresca in certi modi, è necessario che crescano la quantità di questa potenza produttiva astratta (produttività del lavoro dominato soprattutto) e la capacità di dominio della classe dirigente su essa.
C. Il ruolo delle masse nella Repubblica Popolare Cinese (RPC) non è quello di costruzione rivoluzionaria cosciente, di protagonisti attivi e positivi della transizione al comunismo.
Rispetto al Partito, le masse non sono scuola rivoluzionaria, né interlocutrici. Ad esse non è consentita una espressione autonomamente organizzata della propria coscienza politica. Politicamente, le masse si devono esprimere solo in quanto Partito, cioè riconoscendosi concretamente nelle sue direttive. Secondo questa situazione, nel momento in cui un proletario o un gruppo di proletari o tutti i proletari sentono di esprimersi politicamente e di dare incisività a questa espressione, sono costretti a ricalcare fedelmente gli schemi teorico-strategici del PCC; non solo, ma anche le tattiche con cui il Partito esprime questi schemi. In questo modo, non esiste possibilità di crescita politica autonoma all'interno del PCC (e quindi della società che esso dirige), perché il Partito rappresenta rigidamente tutto quello che il proletariato può e deve sapere, al massimo della sua coscienza, e non riconosce validità politica ad alcuna espressione che non si rifaccia, in ogni suo momento in ogni sua articolazione ed in modo complessivo, all'intero corpo della coscienza del Partito. Inoltre, il Partito, forte di ciò, costringe le masse, quand'anche abbiano completamente accettato le sue linee, a sottomettersi ai massimi dirigenti, che sono il vero cervello del Partito stesso.
Al di fuori di questa struttura, il governo istituzionale cinese non prevede per le masse altra strada di crescita politica e decisionalità politica, perché il sindacato è confinato all'azione puramente economica, essendo basato sull'accettazione a priori della dottrina del Partito. Dovere delle masse cinesi in politica è, quindi, quello di seguire il Partito, cioè i suoi dirigenti avendo fiducia totale nel PCC come unica organizzazione politica che le rappresenta correttamente.
I proletari, per quanto riguarda il governo della società, non hanno alcuna possibilità di organizzarsi autonomamente. Il coordinamento del governo sociale non viene svolto da organismi popolari federati orizzontalmente, ma dallo Stato centrale. Rispetto ad esso, le masse hanno un rapporto di netta subordinazione. E' lo Stato che ha il compito di realizzare la lotta alla borghesia e le tappe della costruzione del comunismo.
L'esistenza dello Stato centrale nella RPC chiude, in forme definitive e coercitive, qualsiasi possibilità che le masse si organizzino autonomamente e dal basso, per quel che riguarda tutti i campi della vita sociale, stabilendo delle norme rigide centrali, dei funzionari centrali dotati di potere in ogni campo. Le masse sono divise in cittadini ed ognuno di essi ha dei doveri (coatti) e dei diritti (concessi) rispetto alla struttura statale.
Particolarmente significativo è il fatto che il primo articolo della costituzione della RPC, nella sezione riguardante "i diritti e i doveri fondamentali dei cittadini" inizia così:
"I diritti e i doveri dei cittadini sono di appoggiare la Direzione del Partito Comunista Cinese, appoggiare il sistema socialista e attenersi alla costituzione e alle leggi della RPC".
E' chiaro e inconfutabile, dalla lettura della costituzione e dall'esistenza di uno Stato centrale e coercitivo, che il regime pseudorivoluzionario cinese assegna ai cittadini un ruolo affatto subordinato nel governo socialista, negando loro qualsiasi progetto di autogestione.
Rispetto all'economia -assodato che tutta l'economia viene diretta dallo Stato- le masse hanno il ruolo della forza-lavoro alienata. Traendo le conclusioni logiche da quanto detto prima in proposito, si giunge a dei punti fondamentali. I lavoratori cinesi hanno solo la proprietà ed il controllo della loro forza-lavoro, ma non delle sue destinazioni, del suo uso, dei suoi scopi generali. Dovere dei lavoratori è quello di eseguire le direttive dei dirigenti della produzione, dello Stato e del Partito.
Le strutture in cui i lavoratori possono esprimersi sono i sindacati, i quali però funzionano nei fatti some forme per eseguire ed articolare le direttive di piano centrale. I lavoratori stanno nei sindacati del regime (quindi non c'è scelta) a condizione (che diventa un obbligo data l'unicità del sindacato) che accettino la dottrina del PCC e dello Stato centrale. Questi sindacati sono chiusi a qualsiasi sviluppo politico che non sia contemplato dal regime.
In conclusione, parlare del sindacato come cinghia di trasmissione del Partito e dello Stato è l'unico modo per esprimere chiaramente la situazione in Cina.
Date le caratteristiche economico-politiche dello Stato cinese non vi sono dubbi sul fatto che la RPC è basata sull'uso della forza-lavoro.
A questo punto si aprono due problematiche, l'una conseguente all'altra.
Se i lavoratori cinesi sono alienati, se sono sottoposti ad una struttura di sfruttamento, sorgono inevitabilmente delle situazioni contraddittorie fra masse e classe dirigente. Queste contraddizioni costringono la dirigenza cinese a cercare di scaricare le contraddizioni più pericolose su altri sistemi sociali con delle masse più deboli di quelle cinesi.
La storia passata della Cina è storia di sottomissione economica.
Ultima, e più importante, quella della Russia sovietica che ha dapprima manovrato a suo piacimento le alleanze con il Kuomintang -per molti versi nemico del PCC- e, in seguito diretto pesantemente lo sviluppo della Cina comunista.
La Russia ha tentato una politica di satellizzazione dell'economia cinese fin dalla presa del potere del PCC: attraverso i suoi tecnici ed i suoi aiuti in denaro, attraverso una centralizzazione del piano economico che permettesse un controllo diretto e brutale ai suoi tecnici, attraverso infine un piano massiccio di industrializzazione dell'agricoltura, per appoggiare la nascita dell'industria pesante.
La Russia molto probabilmente tendeva a fare della Cina una importatrice di tecnologia ed una esportatrice di beni di consumo. Lo schema è molto significativo. Su queste linee nacquero aspre contraddizioni fra i maoisti e la Russia. Mao, in sostanza, puntava a liberarsi del giogo russo, dandosi la capacità di una grossa accumulazione interna per i balzi che l'economia doveva fare per rendersi veramente indipendente. Il piano di Mao puntò inizialmente ad uno "sviluppo parallelo" dell'industria e dell'agricoltura; si nota subito come la volontà che lo animava era quella di lanciare subito la Cina in uno sviluppo completo ed autonomo di tutti i settori economici. Questo piano mostrò chiaramente i suoi limiti. Il contenuto del piano era in flagrante contraddizione con i modi di attuazione e quindi con gli scopi reali. Tutto questo era aggravato dal livello di sviluppo in cui si trovava l'economia cinese, rispetto al quadro mondiale.
Il contenuto del piano batteva sull'ideologia di creare un'economia non asservita, di dare ai cinesi la possibilità di prodursi da sé tutto in necessario alla vita. Per fare ciò, in un paese arretrato come la Cina degli anni fine '50, si doveva per forza puntare ad uno sforzo produttivo notevole, ad un balzo in avanti dell'economia. Ma per fare questo esistevano due strade opposte.
La prima consisteva nell'affidarsi alla creatività delle masse, difendendola da involuzioni autoritarie, lasciandole sviluppare delle tappe graduali di coordinamento ed incremento dei settori economici, dando insomma agli organismi federati dei produttori la determinazione del sovrappiù, la sua gestione e quindi la decisione dei modi di sviluppo della produttività del lavoro. Questa via garantisce, se non altro, la coerenza fra liberazione dei produttori dalla sottomissione imperialistica ed appropriazione, da parte degli stessi, di tutta l'economia.
La seconda via, quella seguita dai dirigenti cinesi, è consistita nel porre degli obiettivi in termini di prestazione del solo lavoro da parte dei lavoratori, e di determinazione, appropriazione e gestione del sovrappiù da parte dello Stato, il quale si è posto come determinante gli obiettivi di sviluppo, cioè i modi di prestazione del lavoro e la sua retribuzione in quanto lavoro prestato.
Ai produttori spettava solo lavorare ed avere in cambio certi livelli di vita. Come si poteva pretendere che i lavoratori accettassero dei contenuti estranei alle loro decisioni quando il loro interesse reale era il valore astratto che si riceveva dall'esterno, in cambio di un lavoro per obiettivi da scegliere?
Capitalisticamente, lo "sviluppo parallelo" era infatti, negli anni '60, ed è riportato su una politica di massiccia estrazione di sovrappiù dall'agricoltura, per sostenere un'accumulazione interna per industrializzarsi. Per i dirigenti cinesi esistono quindi due grossi problemi, analoghi fra loro:
Lo scopo unico è quello di crearsi una capacità tecnologica autonoma. Il metodo è quello di aumentare, in tutti i modi, la produttività del lavoro. Questo determina la continua necessità di sovrasfruttamento della forza-lavoro interna e, soprattutto, la ricerca di nuova forza-lavoro di altri paesi, che fornisca prestazioni di ulteriore sfruttamento. Per quanto riguarda questa necessità, la Cina è uno Stato imperialista relativamente giovane che ha potuto svolgere azioni sistematiche di satellizzazione nell'area dell'estremo oriente, mentre svolge ancora azioni di "assaggio" rispetto alle altre zone mondiali.
Su queste basi, si aprono due tipi analoghi di contraddizioni sociali, per lo Stato cinese. Il primo tipo riguarda i lavoratori cinesi rispetto allo Stato. Quando abbiamo precedentemente sintetizzato un rapporto di sfruttamento, abbiamo espresso la riluttanza del comportamento dei governanti cinesi rispetto ai lavoratori.
E' indubbio che alla base delle lotte ideologiche e di linea fra i leaders del PCC, non vi sia altro che considerazioni e scelte sui modi con cui sfruttare al massimo la forza-lavoro cinese. Ad esempio, è significativo l'evolversi della politica dello "sviluppo parallelo" nella politica dell'uso intensivo della forza-lavoro agricola. Basandosi sul presupposto dell'astrazione della forza-lavoro, il governo della RPC si è mosso costantemente su due piani: lo studio scientifico sull'uso della forza-lavoro rispetto alle esigenze dell'economia e le forme con sui ottenere questo uso senza conflitti sociali. Sul primo punto non c'è da aggiungere altro in questa sede; sul secondo c'è da dire che anche se lo Stato cinese non disdegna di usare la repressione aperta, la logica che uniforma la cattura del consenso dei lavoratori è tutta particolare.
Essa è basata sulla propaganda dell'ideologia dello Stato socialista e del fatto che il PCC, dirigente supremo dello Stato, altro non è che la classe stessa. Questo spiega il fatto che ci si basa sempre e soprattutto su campagne ideologiche ogni qualvolta si vuole aumentare o modificare lo sfruttamento del lavoro; le repressioni aperte figurano sempre, nella propaganda, come lotte politiche all'interno di una transizione socialista.
Durante le campagne statali e di Partito volte a modellare ed acuire lo sfruttamento dei lavoratori cinesi, ci sono stati momenti di ribellione anche ampi e cruenti delle masse contro i loro dirigenti; e l'insieme di questi numerosissimi episodi forma un quadro di difesa sindacale della giovane classe lavoratrice cinese. Giovane perché la rivoluzione del '49 ha messo in atto processi oggettivi e soggettivi di unificazione e alienazione (di derivazione capitalistica) delle masse cinesi, le quali, con ogni probabilità, si trovano alle prese con forme relativamente giovani di difesa dallo sfruttamento; forme sperimentate in precedenza solo da minime porzioni di lavoratori operai. Se uniamo questi due elementi, storicamente validi, l'uso di tipo capitalistico (sfruttamento di massa del lavoro) e l'altro di tipo leninista (forte mistificazione ideologica), possiamo trarre la importante conclusione che le contraddizioni fra masse sfruttate cinesi e loro sfruttatori si ripercuotono direttamente sulla ideologia dominante, che è tutt'uno con la gestione dello sfruttamento. La scelta, più o meno obbligata, del PCC di usare l'ideologia in un certo modo (rapporto Stato-Partito, ecc.) è un'arma a doppio taglio per loro, nel senso che se saltano le contraddizioni economiche, saltano anche quelle politiche. Esistono, cioè, a differenza del capitalismo occidentale, margini quasi nulli per scaricare, distorcendole, le contraddizioni dell'economia nella struttura politica. Questo, a meno che la Cina non si trasformi in un paese simile, per i rapporti fra struttura politica e struttura economica, ad un paese capitalista occidentale,: cosa molto poco probabile, perché sarebbe un instabilissimo passo indietro per i dirigenti della RPC e del PCC.
Così come è strutturata la società cinese, inoltre, le organizzazioni di massa non si muovono su basi di apoliticità, ma al contrario, su basi politiche dogmatiche. Questo è un altro motivo a sostegno della tesi precedente sulla natura delle contraddizioni sociali in Cina.
La conclusione politica principale è che la lotta di classe rivoluzionaria in Cina non può essere immediatamente lotta politica avanzata sia nelle organizzazioni di massa che nelle organizzazioni politiche.
Stesso segno hanno ed avranno le contraddizioni sociali derivate dai rapporti imperialisti stabiliti dalla Cina con altri paesi.
Su queste basi, ci dovremo muovere nello studio di tutte quelle situazioni del giovane imperialismo cinese in cui paesi come la Cambogia o il Vietnam vanno consolidando i loro regimi.
Altro studio bisognerà dedicarlo ai modi con cui la Cina intende inserirsi nei blocchi dell'imperialismo russo ed americano.
Bisogna tener presente che la RPC si è affacciata sulla scena mondiale con un ruolo oggettivo di terzo blocco, ha delle sue precise caratteristiche nelle strutture di dominanza sociale e sta lavorando a crearsi uno spazio imperialistico autonomo e caratteristico.
(documento assunto al 1° Congresso della F.d.C.A. del 1985)
A partire del 7° Congresso FdCA del 1 ottobre 2006, questo documento cessa di far parte delle tesi di Strategia di Fondo della FdCA, essendo sostituito da: Ex-U.R.S.S. e Cina.