COMUNISTI ANARCHICI: UNA QUESTIONE DI CLASSE

 

4.2. La lotta politica e la lotta sociale
 

Per i comunisti anarchici la rivoluzione deve essere sociale, ovverosia capovolgere i rapporti proprietari della società borghese. La scomparsa della proprietà privata e la sua sostituzione con la proprietà collettiva deve essere una piena assunzione di responsabilità da parte del proletariato, che si avvia a gestire in prima persona la produzione, la distribuzione ed i servizi. La società comunista non può che essere autogestionaria e federativa, o come si dice il potere di decisione si esercita dal basso verso l’alto. In questa prospettiva le lotte quotidiane all’interno dell’involucro dell’assetto sociale capitalistico servono a vari scopi; prima di tutto a costruire la forza di scontro del proletariato, la sua organizzazione di massa che nelle sue forme adombra già i futuri strumenti di gestione; in secondo luogo, dalla conquista anche di briciole di pane, per quanto minute sono sempre buone a mangiarsi, […] sarà aumentato il benessere operaio e migliorate quindi le condizioni anche intellettuali (Fabbri); ed infine, tutto ciò che con la lotta viene strappato in termini di limitazione dell’arbitrio padronale è una conquista da ottenere e difendere. In questo senso l’anarchismo è riformatore (termine malatestiano), e non riformista, perché non crede che la società di liberi ed uguali si costruisca a poco a poco, a piccoli passi, ma crede che a piccoli passi si costruisca la forza antagonista degli sfruttati e la loro coscienza di classe, che porteranno alla frattura rivoluzionaria vincente e consapevole. Il gradualismo (altro termine malatestiano) anarchico, in altri termini, non è tale perché concepisce una passaggio graduale dal capitalismo al comunismo, ma solo in quanto pensa che sia graduale la costruzione di un’organizzazione proletaria rivoluzionaria cosciente del fatto che la soddisfazione dei propri bisogni storici sta solo nelle sue mani.

Nella prospettiva sopra delineata non c’è posto per la lotta politica, per la presa di possesso dell’apparato dello Stato, al fine di utilizzarlo come volano del cambiamento sociale, per due buoni motivi: il primo è che lo Stato è una sovrastruttura della società borghese e, in quanto tale, non è adatto alla trasformazione comunista (casomai la sua sopravvivenza può riprodurre la società borghese, come vedremo meglio più sotto); in secondo luogo perché la strada politica prevede una delega, priva di ogni possibilità di controllo, all’avanguardia (spesso autoproclamatasi tale), che poi fatalmente si perde nei meandri, nelle trappole, nelle insidie dell’apparato sociale capitalistico e depriva il proletariato del ruolo di protagonista della propria emancipazione, che invece gli compete. C’è infine da aggiungere che la lotta politica devia le speranze di emancipazione verso sentieri inadatti, facendo immaginare alle masse che essa può venire dai luoghi del potere e non dalla lotta sociale, e va quindi a scapito di quest’ultima.

Questo è un punto che divarica fortemente le teorie comuniste anarchiche da quelle marxiste (quasi tutte): la rivoluzione politica di Marx. di Engels e prima di loro dei giacobini, di Gracchus Babeuf e di Louis-Auguste Blanqui, prevede una lotta politica e le conseguenze le abbiamo viste in tutte le rivoluzioni politiche fin qui avvenute, in cui sempre una classe dominante si è fatalmente riproposta; la rivoluzione sociale, l’unica vera rivoluzione per l’emancipazione degli sfruttati, prevede la lotta sociale.

 


4.3. Il ruolo dell’avanguardia

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