COMUNISTI ANARCHICI: UNA QUESTIONE DI CLASSE

 

4.4. Lo Stato
 

Torniamo alla frase del Manifesto citata nel capitolo 4.1. Marx ed Engels parlano di accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato. Come abbiamo visto quel a poco a poco che precede ha giustificato la tattica della socialdemocrazia tedesca della conquista del potere politico e della trasformazione graduale della società capitalista in quella comunista (questa sì vera utopia, nel senso comune di meta impraticabile, come la storia ha ampiamente dimostrato). Ma una volta che lo Stato venga conquistato, sull’onda di un moto rivoluzionario e non più con una marcia estenuante attraverso le istituzioni della sedicente avanguardia, una volta che il partito dei militanti di professione abbia assunto subitaneamente il potere senza mai aver fatto compromessi politici con la classe dominante, la ricetta può funzionare? Anche in questo caso la storia di tutte le rivoluzioni del XX° secolo e della loro involuzione fatale non lascia adito a dubbi: la rivoluzione non viene tradita (come sosteneva Lev Davidovič Bronstein detto Trotskij), ma sistematicamente non raggiunge i fini che si era proposti, ridando forma ad una società classista, basata sullo sfruttamento. Perché?

A conclusione della loro frase Marx ed Engels qualificano lo Stato il proletariato organizzato come classe dominante, e qui risiedono tutte le cause dei fallimenti delle rivoluzioni gestiste dal marxismo ed ivi si sono appuntate tutte le critiche degli anarchici, a partire da Bakunin, che questi fallimenti avevano previsti ben prima del loro verificarsi. La domanda da porsi è molto semplice: il proletariato ha bisogno dello Stato per organizzarsi quale classe dominante? La risposta dei comunisti anarchici è no, per molti fondamentali motivi.

 

4.4.1. Il problema della classe dominante

Quando nel 1868 la bakuninista Alleanza Internazionale della democrazia socialista chiese di aderire all’Associazione Internazionale dei lavoratori (AIT), Marx, oltre ad imporre giustamente che entrasse come sezione locale e non come organismo internazionale strutturato, chiese un cambiamento nello statuto: con pesante ironia fece rilevare che la dizione usata equalizzazione delle classi era ambigua e che doveva essere correttamente mutata in abolizione delle classi: Bakunin convenne che la dizione precedente era impropria e convenne sulla correzione, che meglio spiegava il fine da ottenere con la rivoluzione. Ma l’errore che Marx ed Engels avevano commesso nel 1848 era molto più profondo e molte conseguenze negative avrebbe comportato nei suoi epigoni e sui processi rivoluzionari da essi gestiti. 

Che cosa può significare, infatti, che il proletariato si costituisce come classe dominante? Prima di tutto se il proletariato ha assunto il potere, la rivoluzione o il passaggio di consegne con la borghesia è già avvenuto e, poiché, a detta di tutti, scopo della rivoluzione è l’abolizione delle classi (come appunto ricordato da Marx a Bakunin nel 1868), la lotta del proletariato è per la propria dissoluzione come classe, assieme alla scomparsa di tutte le altre, borghesia in testa. In secondo luogo la distinzione di classe non è un fatto etico, somatico o etnico, ma si basa sulla diversa posizione che gli individui di una società assumono nei confronti dei rapporti di proprietà; nel momento in cui la proprietà individuale viene abolita, sostituita da quella collettiva di tutti i beni di produzione, distribuzione e consumo, cessa nei fatti ogni organizzazione sociale classista. L’idea prospettata è, quindi, un autentico non senso: possibile che miriadi di esegeti marxisti non se ne siano accorti? Ovviamente sì: ma poiché era conveniente ai fini di controllare a proprio vantaggio il processo rivoluzionario, essa è stata assunta senza troppo discutere e giustificata da quelle che sono sembrate due idee forti: la sopravvivenza temporanea dei nemici della rivoluzione e la necessità di avviare la costruzione della società comunista, cosa che nessuno pensa di poter fare dall’oggi al domani.

 

4.4.2. La difesa della rivoluzione

Che inizialmente la società che scaturisce da un processo rivoluzionario si trovi a scontrarsi con coloro che precedentemente detenevano i privilegi e che costoro trovino appoggi consistenti nei loro omologhi di altri paesi non ancora trasformati da identici sconvolgimenti, è un fatto che la storia da sempre dimostra con estrema chiarezza; tant’è che spesso le rivoluzioni falliscono per l’acutezza di queste pressioni esterne. Occorre, quindi, difendere per un periodo, spesso neppure troppo breve, le conquiste che lo slancio iniziale ha ottenuto.

Per i marxisti questa necessità viene assolta dallo Stato e da un esercito disciplinato, concepito secondo la tradizione che la storia delle guerre millenarie ci ha consegnato. Al di là, pertanto, delle ciance prerivoluzionarie circa la democratizzazione delle forze armate, dell’eleggibilità degli ufficiali da parte della truppa che li può revocare in ogni momento, dell’esercito di popolo, laddove i partiti della borghesia prima e i seguaci di Marx poi, hanno preso il potere, sempre si è assistito al riformarsi di un esercito in piena regola, con i propri alti gradi provenienti dalle scuole di guerra, con le proprie gerarchie immutabili, con la solita disciplina dall’alto verso il basso, con la propria struttura di mestiere impermeabile nei confronti del popolo. Tant’è che, quando i marinai di Kronštadt, punta di diamante delle rivoluzione del 1917, si ribellarono per insofferenza alla cappa di disciplina che si voleva loro imporre, il potere bolscevico utilizzò contro di loro i cadetti, gli allievi cioè della scuola ufficiali, non certo provenienti dal proletariato. E c’è da aggiungere che il conflitto era tutto interno al partito, visto che gli anarchici organizzati all’interno della fortezza erano un’esigua minoranza.

Per i comunisti anarchici, invece, la necessità della difesa delle conquiste rivoluzionarie va soddisfatta in altro modo: le forze combattenti devono rispondere a principi di funzionamento che vadano contro alle vecchie logiche gerarchiche, per cui chi si assume responsabilità necessarie di comando deve godere della stima e della fiducia di chi quei comandi deve poi attuare in concreto e a proprio rischio: in altri termini le cariche devono essere elettive e revocabili e solo le grandi scelte devono essere discusse da tutti e condivise. In più la guerra deve essere di tipo partigiano, fatta da piccole unità mobili, difficilmente localizzabili e che godano il sostegno della popolazione. Non sono fantasie: come abbiamo visto Machnò aveva organizzato così il proprio esercito rivoluzionario e con esso sconfisse i generali bianchi Vrangel e Denikin, che godevano dei finanziamenti dei paesi capitalistici e contro i quali la mitica Armata Rossa di Trotskij aveva dovuto arretrare. E proprio la concezione della guerra e di come condurla fu al centro dello scontro tra comunisti marxisti e comunisti anarchici nella Spagna del 1936-1939: comando centralizzato e disciplina da un lato (e poco importa se questo evirava la forza delle brigate internazionali, accorse in aiuto da ogni dove alla rivoluzione); partecipazione e appoggio della popolazione (convinta ad impegnarsi dai vantaggi che la rivoluzione sociale avrebbe loro apportato) dall’altra, che pure con questi sistemi (nella figura simbolo di Buenaventura Durruti) resse l’urto delle truppe franchiste alle porte di Madrid, tanto che il Generalissimo dovette rinviare la presa della capitale all’ultimo atto della guerra.

La disputa non è solo tecnica o tattica, ma di natura più profonda, perché non solo essa permette ai vecchi arnesi del comando borghese di riciclarsi in qualità di esperti nel nuovo ordine sociale, ma anche perché dietro alle concezioni che furono di Lenin c’è la vecchia ragion di Stato: la stessa che portò il gruppo dirigente bolscevico (contrari per la verità Trotskij e Aleksandra Michajlovna Kollontaj) a firmare la pace unilaterale con il morente impero germanico (Brest-Litovsk, 1918). Le ragioni addotte furono la debolezza e la demotivazione delle forze russe a fronte della possanza dell’esercito tedesco, che rendevano improponibile una prosecuzione del fronte; e in realtà con questo atto si concesse respiro, per altro un respiro quanto mai effimero, alla Germania ormai sull’orlo del tracollo e della resa, gli si cedette l’Ucraina (che dovette liberarsi da sola dagli occupanti e dalla borghesia nazionalista) e si abbandonò al suo destino di fucilazione l’avanguardia rivoluzionaria spartachista di Rosa Luxemburg e di Karl Liebchneckt. Per gli anarchici (e per Trotskij e per la Kollontaj) la guerra poteva e doveva continuare sotto forma di guerriglia di popolo, cosa che avrebbe lasciate aperte le possibilità di un allargamento rivoluzionario ad ovest.

 

4.4.3. La gestione dell’economia

Anche sull’organizzazione della produzione la divergenza è totale. Per i marxisti, come si è visto nella citata frase di Marx ed Engels, il potere economico deve accentrarsi nelle mani dello Stato proletario. Questo non solo perché lo Stato, nella loro concezione, è il proletariato, cioè quell’organismo generale unico in grado di discernere il bene collettivo, ma anche perché il decentramento della gestione del sistema produttivo impedisce quell’armonia di intenti che sola può far crescere il volume delle merci e far incontrare offerta e domanda sociale. È in quest’ottica che ben presto nella Russia sovietica (1918) furono esautorati di ogni potere i Comitati di fabbrica, che pure avevano costituito la spina dorsale dell’espropriazione delle fabbriche ai capitalisti e garantito la produzione nei primi turbolenti mesi, tanto che solo un terzo dei loro membri restarono eleggibili dal basso, mentre il restante due terzi divenne di nomina superiore. Il potere passò al Soviet Centrale e al Soviet panrusso del controllo operaio, in quanto gli operai avevano sviluppato nella gestione diretta uno spirito da proprietario (Anna Michailovna Pankratova) che ostacolava il benessere collettivo (sembra di sentire le tirate contro l’egoismo dei contadini di un signore feudale dell’antica Cina, il signore di Shang).

Se presi dalla miopia del piccolo possesso, dall’avidità dettata dai propri interessi personali erano gli operai di Pietrogrado, avanguardia riconosciuta della rivoluzione bolscevica, come ci si poteva aspettare un comportamento solidale da parte delle masse contadine russe da sempre legate alla terra ed al possesso di quanto le loro fatiche facevano sbocciare dalle zolle? Su questa china la rivoluzione russa imboccò la strada dell’economia di guerra, con le razzie nelle campagne, della collettivizzazione forzata, con i funzionari governativi che decidevano i tipi di produzione, dei piani quinquennali, con le decisioni affidate agli esperti dell’economia, ancora una volta riciclati dal precedente sistema sociale, quando non erano addirittura i vecchi padroni divenuti direttori delle fabbriche.

Per i comunisti anarchici gli effetti disastrosi di questa politica, che la storia ha messo impietosamente in evidenza, erano sicuramente prevedibili. Ritorneremo subito dopo sugli effetti che tutto ciò ha avuto, e non poteva non avere, nei termini della ricostruzione di un apparato di sfruttamento sulle classi lavoratrici. Va infatti, prima di tutto, rilevato il senso di distacco dalla mentalità delle masse che le linee sopra tratteggiate portano al loro interno. L’autogestione dal basso del processo produttivo è vista come inevitabilmente incoerente, caotica ed inefficace: non è possibile per i lavoratori autoorganizzarsi, e qualcuno deve organizzarli nel loro interesse (che questo qualcuno evidentemente deve conoscere meglio di loro); e questo anche quando la storia ha fornito splendidi esempi di capacità di gestione diretta e di naturale solidarietà tra classi sfruttate (la già citata Spagna e l’Ucraina, nella cui cronaca esiste anche l’invio di un treno di grano confiscato ai bianchi controrivoluzionari a Pietrogrado, che si sapeva affamata). E nonostante all’indomani della Comune del 1871 Marx avesse riconosciuto al proletariato queste capacità di costruire la propria organizzazione sociale.

Il primo effetto disastroso è l’allontanamento dei lavoratori dalla rivoluzione, che non fornisce più loro risposte convincenti. È successo in Russia subito con i contadini, depredati e non convinti a collaborare con gli operai di città e poi con gli operai stessi, che hanno visto tornare spesso al potere quei borghesi cui avevano espropriato le fabbriche. È successo nella Spagna del 1936, quando i marxisti si sono rifiutati di legare le masse alla guerra civile con l’avvio della rivoluzione sociale, impedendo anzi con la forza le collettivizzazioni per non spaventare quella parte di borghesia favorevole alla Repubblica: la politica dei due tempi (prima la vittoria nella guerra civile e poi la rivoluzione) ha fatto smarrire alle masse, non precedentemente politicizzate, il senso della lotta in atto contro il franchismo, devitalizzando la forza dell’opposizione all’oscurantismo irrompente.

 

4.4.4. L’estinzione dello Stato

Se quelli sopra delineati sono gli scopi che i marxisti attribuiscono alla sopravvivenza dell’apparato statale dopo la rivoluzione (difesa contro i nemici esterni delle conquiste ottenute ed organizzazione del sistema della produzione e della distribuzione), segue subito che questi compiti sono limitati nel tempo. I comunisti anarchici, come detto, non condividono questo modo di risolvere i due problemi ed hanno avanzato concrete controproposte e permane, comunque, la contraddizione subito segnalata da Bakunin: così dunque per liberare le masse popolari, si dovrebbe cominciare con l’asservirle. Resta il fatto che lo Stato, anche per i marxisti, dovrebbe avere una vita limitata ed estinguersi una volta esauriti i propri impegni. La storia delle rivoluzioni vittoriose del XX° secolo ha chiarito con quale rapidità lo Stato si è fatto da parte, per dare luogo a quella società dell’autogestione che tutti dicono di volere!

Uno sguardo agli eventi fa, infatti, giustizia della marxiana (e, potremmo dire, marchiana) teoria dell’estinzione dello Stato. In URSS, anzi, l’apparato statale è divenuto un mostro onnivoro che ha risucchiato dentro di sé ogni libertà personale; la sua ipertrofia non ha conosciuto limiti, la sua ingerenza persino nella vita privata dei singoli si è espansa senza confini. Nel momento in cui il suo gigantismo lo ha portato ad una clamorosa implosione (1989-1992) ha liberato dal ventre un esercito di locuste fameliche (nuovi borghesi, organizzazioni mafiose, funzionari corrotti, arrivisti senza scrupoli, etc.) che per decenni aveva nutrito nelle sue immense pieghe.

Quello che si è verificato puntualmente ovunque hanno avuto corso le teorie della presa di possesso dello Stato, come arma per difendere ed organizzare la rivoluzione, era facilmente prevedibile ed era stato in effetti previsto da Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Fabbri e tanti altri pensatori libertari. L’apparato statale, arma che la borghesia si è creata andando al potere nel corso del XVIII° e del XIX° secolo per esercitare il proprio dominio di classe, è per l’appunto adatto per quel compito e non per altri. È per questo motivo, semplicissimo, che una sovrastruttura quale esso è, al venire meno della struttura (organizzazione produttiva) che gli soggiace, sopravvivendo, tende a riprodurre la base di sfruttamento su cui si basava; il dominio di classe precedente, che è stato abbattuto, viene riprodotto sotto forme modificate, rigenerando una nuova classe di sfruttatori. Trotskij fino alla morte si è illuso che l’URSS fosse, comunque, rimasto uno Stato proletario degenerato: ovverosia, essendo mutato l’assetto proprietario della società (dalla proprietà individuale borghese alla proprietà collettiva gestita dallo Stato) la rivoluzione era irreversibile, in quanto per lui, da buon marxista, mai e poi mai una sovrastruttura organizzativa poteva mutare la struttura dei rapporti di produzione. Ed invece una nuova classe (una vera e propria classe) ha iniziato una forma di appropriazione privilegiata dei beni e quindi una nuova tipologia di sfruttamento ovunque i partiti marxisti, andati al potere, hanno assunto il controllo dell’apparato statale. Ed è per questo che lo Stato non si è mai estinto, esaurendo il suo compito, come il marxismo aveva previsto, ma invece si sono verificate le più fosche previsioni del comunismo da caserma (Bakunin) avanzate dai comunisti anarchici.

 

4.4.5. La dittatura e la burocrazia

Ma da dove proviene questa nuova classe? Da chi è composta? Qual è il suo modello specifico di appropriazione e sfruttamento? La risposta è semplice, come lo era un secolo e mezzo fa. Quando i marxisti iniziarono a parlare di dittatura del proletariato (esercitata attraverso lo Stato), proprio per rispondere a quelle due esigenze dell’immediato periodo successivo alla rivoluzione esaminate prima, subito lo strumento fu criticato e fu subito chiaro che essa sarebbe divenuta la dittatura sul proletariato. Già Bakunin diceva: ogni differenza fra la dittatura rivoluzionaria e la centralizzazione statalista è nelle apparenze. In sostanza l’una e l’altra non sono che una medesima forma di governo della maggioranza da parte di una minoranza in nome della pretesa stupidità della prima e della pretesa intelligenza della seconda.

La minoranza che avrebbe esercitato il potere, e che poi in effetti lo ha esercitato nei regimi a centralismo democratico, era inevitabilmente di origine borghese, perché in linea di massima solo i rampolli della borghesia possiedono il tempo per accedere a quei gradi di preparazione culturale, che permette loro di dominare i partiti operai, quei partiti che dovrebbero rappresentare, negli agoni parlamentari o nelle astruse dialettiche dottrinarie della clandestinità, gli interessi del proletariato; anzi per Lenin proprio la loro estraneità alla classe è garanzia della loro indomabilità rivoluzionaria, vista la loro indifferenza ai bisogni del momento, quei bisogni che affliggono le masse proletarie e in tal modo, appesantite dalle contingenze della povertà, le renderebbero più inclini al compromesso di basso profilo. È così che una schiera di intellettuali borghesi, con difficoltà a trovare una sistemazione adeguata alle proprie aspirazioni all’interno dell’ordine sociale capitalistica, ha iniziato fin dalla seconda metà del XIX° secolo a cavalcare la lotta del proletariato. Poiché il loro modo di concepire il futuro assetto della società rispondeva alla soddisfazione della conquista di un rango di prestigio, altrimenti loro interdetto, hanno mutuato teorie di analoghi ceti già all’avanguardia nelle rivoluzioni borghesi del secolo precedente (giacobini, blanquisti, etc.), con lo stesso amore per la lotta politica, per la presa del potere statale, per l’utilizzo dello strumento Stato ai fini di una spietata dittatura postrivoluzionaria, a loro dire adatta a sconfiggere i nemici della rivoluzione, nella realtà utile ai fini della costruzione di un proprio potere incondizionabile.

All’interno delle società costruite dalle rivoluzioni gestite dai partiti marxisti si è quindi subito formato un nuovo ceto dominante, costituito dagli intellettuali rivoluzionari che formavano precedentemente il partito (o meglio il suo gruppo dirigente), e dagli apporti di intellettuali, tecnici, esperti, precedentemente attivi nel vecchio ordine, che hanno imparato a galleggiare nel nuovo, grazie al bisogno che i primi avevano di loro e delle loro competenze. A questo ceto è stato attribuito il nome di burocrazia, e Trotskij non gli ha mai riconosciuto il ruolo di classe dominante, pensandolo quale escrescenza ipertrofica, che soffocava sì la rivoluzione, occultandone la natura, ma senza mutarla. In realtà il controllo sulla distribuzione, totalmente centralizzata, ha permesso ai burocrati l’acquisizione di una porzione privilegiata dei beni in corrispondenza di un loro ruolo talvolta nullo e spesso nocivo nel processo produttivo; e ciò, sotto la parvenza di una socializzazione di tutti i mezzi di produzione, ha costituito un’autentica tipologia di sfruttamento, riproducendo una società classista, al cui crollo i più dinamici degli appartenenti alle classi privilegiate si sono rapidamente convertiti al nuovo ruolo di borghese a tutti gli effetti.

Alcuni trotskisti eretici (Bruno Rizzi) negli anni Trenta compresero l’errore del maestro e modificarono la teoria introducendo una nuova classe la tecnoburocrazia, che doveva rendere conto dello stato di fatto nella Russia sovietica, ma con due limitazioni: la nuova classe aveva un duplice volto, collocandosi in una posizione intermedia tra borghesia e proletariato, condivideva aspetti di entrambi; in secondo luogo la natura della nuova classe era vista come la più avanzata ed adatta alla gestione delle economie di piano, che proprio in quel periodo si facevano strada anche nelle società capitalistiche. Questi aspetti, quarant’anni più tardi, affascinarono gli anarchici antiorganizzatori e aclassisti italiani. Essi vi videro degli innegabili vantaggi, dal loro punto di vista, e ne fecero la base di una nuova teoria, fatta di classi che scendono e salgono, in cui la tecnoburocrazia ascendente giocava il ruolo primario, contro un proletariato, che più di tutto doveva temere il nuovo arrogante nemico, e contro una borghesia declinante e quindi ormai quasi innocua: tutto ciò rompeva, nelle loro aspirazioni, il rigido dualismo classista, considerato marxista, stemperando la lotta di classe e spostando l’attenzione sulla battaglia culturale; e nel contempo permetteva di individuare il vero nemico nell’URSS, mettendo in sottordine il nemico capitalista delle potenze occidentali, considerato ormai un modello declinante ed in rapida assimilazione a quello dell’oriente europeo. Il crollo dell’impero sovietico, la fine delle politiche economiche di pianificazione, il riemergere del potere del denaro e dei controllori della finanza internazionale, il pervadere dell’imperialismo occidentale (e statunitense in particolare), il ricostituirsi di una borghesia molto aggressiva nei paesi capitalistici, l’acuirsi del tradizionale scontro di classe, hanno fatto giustizia di queste pretese novità teoriche di rifondazione di un anarchismo messianico.

 


5. Perché comunisti anarchici: cosa ci distingue dagli anarchici

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