COMUNISTI ANARCHICI: UNA QUESTIONE DI CLASSE

 

5.2. Il dualismo organizzativo
 

Il tratto che distingue i comunisti anarchici da tutte le altra scuole di pensiero afferenti all’anarchismo è il cosiddetto dualismo organizzativo. Ciò significa che accanto all’organizzazione generale del proletariato tutto (le cui caratteristiche sono già state sommariamente delineate nel Capitolo 1.2. dedicato a Fabbri), esiste anche l'organizzazione politica dei comunisti anarchici, o, detto nei termini usuali dei dibattiti nel movimento, accanto all’Organizzazione di Massa deve esistere anche l’Organizzazione di Specifico. Come detto, tutte le altre correnti anarchiche rifiutano questa doppia presenza, quali la prima e quali la seconda. E' evidente che gli individualisti non riconoscono alcun ruolo al movimento degli sfruttati, visti quale umile gregge di individui indegni di una realizzazione personale, in quanto privi di aspirazioni; ma essi stanno totalmente al di fuori dell’anarchismo di classe. Anche gli anarco-comunisti kropotkiniani (non a caso detti antiorganizzatori) ritengono inutile qualsiasi lavoro tra le masse, che differisca dalla pura e semplice propaganda delle giuste idee. Ne discende un loro disinteresse per le lotte quotidiane delle classi lavoratrici giudicate inutili e controproducenti: inutili in quanto ogni conquista nel presente assetto sociale è ritenuta effimera; controproducenti in quanto la pratica sindacale indurrebbe abitudine alle conquiste graduali, facendo perdere di vista il fine rivoluzionario. Abbiamo già visto come Bakunin si sia immerso nella lotta iniziata dalla Ia Internazionale e come sia Fabbri, che Malatesta giudicassero tutt'affatto disprezzabili le conquiste che in termini di benessere delle masse si possono ottenere nell'oggi. I comunisti anarchici ritengono quindi indispensabile un loro impegno giornaliero all'interno delle organizzazioni dei lavoratori cui naturalmente appartengono; ritengono necessaria la loro esistenza per costruire una barriera allo strapotere delle classi sfruttatrici, ineliminabile la loro modellazione sulla struttura produttiva per gestire il processo rivoluzionario, al momento in cui esso si verificherà, e la società subito di esso. Per gli anarcocomunisti, invece, l’abbandono di qualsiasi attenzione nei confronti dell’agitarsi immediato dei proletari, relega l’organizzazione specifica ad un puro ruolo di propagazione dell’ideale, del reclutamento di nuovi fedeli, in ultima istanza una funzione quasi da setta religiosa.

Partendo da presupposti simili ai kropotkiniani, anche gli anarchici insurrezionalisti negano valore al lavoro sindacale. In fin dei conti quando nel Congresso Internazionale di Londra del 1881 fu approvata la strategia della propaganda col fatto, Kropotkin era presente; delusi dal ritardare dell’avvento della rivoluzione, impediti ad avere un rapporto proficuo con le masse dal dilagare della legislazione speciale antianarchica in tutti i paesi europei, gli anarchici scelsero, come via per uscire dalla strettoia in cui si trovavano, di agire in conformità ai propri tempi, nella speranza che il dilagare delle azioni violente, con cui andavano a colpire la boriosa borghesia dell'epoca, avrebbe costituito un esempio rapidamente imitato, tramutando la scintilla insurrezionale nella deflagrazione dell'immenso rogo rivoluzionario. Fu il periodo degli attentati sanguinari dei François-Claudius Koehingstein detto Ravachol, dei Bonnot, degli Èmile Henry e di tanti altri, che isolarono ancora di più gli anarchici dal proletariato. Proprio in Francia, dove il fenomeno insurrezionalista era stato più virulento, gli anarchici militanti nella classe (Èmile Pouget, Fernand Pelloutier, Pierre Monatte, etc.) trovarono la via di uscita nella formazione delle Bourse du Travail e dei syndicat, reimmergendo l'anarchismo nel suo elemento naturale, la classe proletaria, e dando vita ad una nuova profonda esperienza di lotta e organizzazione. Ciò nonostante, ancora oggi, c’è chi, partendo da una semplificazione teorica puerile, ritiene effimera ogni conquista sindacale e predica la pratica dell'esempio col fatto; e sbaglia due volte: la prima quando pensa che i sillogismi annullino la storia, ovverosia ritengono, con un puro ragionamento astratto, che, capitalismo imperante, nessun miglioramento sia intervenuto nelle condizioni di vita delle masse, anche laddove le lotte sindacali si sono sviluppate; la seconda è quando ancora si illudono che un esempio esterno possa essere più attraente e convincente di una lunga e faticosa attività di educazione nel fluire delle lotta quotidiana.

Sull'altro versante si collocano coloro, tra gli anarchici, che negano la necessita dell’Organizzazione di Specifico. Anarcosindacalisti di varie specie e sindacalisti rivoluzionari hanno fiducia nella spontanea evoluzione delle masse proletarie e, quindi, pensano che i sindacati lasciati a se stessi prima o poi arriveranno allo scontro decisivo col padronato. Già Malatesta nel 1907 si scontrò con questa tesi sostenuta da Monatte al Congresso Internazionale di Amsterdam e chiarì come l’associazione di resistenza del proletariato nella propria parabola scivola inevitabilmente in un riformismo che smarrisce il senso dei fini (l’economicismo individuato da Lenin e che questi voleva combattere insufflando dall’esterno la coscienza di classe alle masse, e che i comunisti anarchici vogliono combattere fungendo da coscienza critica al loro interno). Il declino storicamente accertato di tutti i sindacati nati rivoluzionari e antagonisti, a partire proprio dalla CGT di Monatte, ha spinto alcuni anarcosindacalisti a cercare la risposta non nell’organizzazione politica, ma nella costituzione di sindacati coesi su di un’idea rivoluzionaria già predeterminata, a formare cioè sindacati costituiti dai soli elementi coscienti e rivoluzionari; ne è risultato una strano miscuglio tra organizzazione di massa e organizzazione politica che si traduce in un'organizzazione di anarchici che fa sindacalismo in proprio. L’ostacolo in tal modo è solo aggirato, perché manca l’anello che congiunge le masse alla strategia rivoluzionaria, a meno di non voler rispolverare la stantia prospettiva dell'esempio esterno che contamina le masse per irraggiamento.

I comunisti anarchici risolvono proprio col dualismo organizzativo questi problemi teorici, assegnando precisi compiti e funzioni distinte alle due organizzazioni.

 

5.2.1. L’organizzazione di massa non è una fotocopia

Per i comunisti anarchici l’Organizzazione di Massa (sindacato) non deve modellarsi alle loro aspettative di combattività e di antagonismo al capitale, così che se essa non si conformasse non parteciperebbero alle sue lotte. Essi non si aspettano che il sindacato nasca rivoluzionario e neppure che permanga sempre ad un livello di scontro mortale col padronato. Il sindacato nasce da un bisogno di autodifesa del proletariato, cerca di strappare nel corso della sua esistenza quanto più è possibile in termini di benessere per le classi sfruttate che rappresenta, tenta di soddisfare i bisogni dei lavoratori tendenzialmente sempre più compressi dal fronte padronale avverso. Sempre nel corso della sua esistenza produce al suo interno un gruppo dirigente, che spesso assume comportamenti coerenti con i propri interessi di ceto e non con quelli di coloro che dice di rappresentare. Tutto ciò è nello sviluppo naturale delle cose inevitabile e non è stato mai evitato nel corso della storia. 

Dal punto di vista dei capitalisti la lotta economica del sindacato non rappresenta solo una contesa per la divisione (sempre ineguale) dei beni che il sistema di produzione mette a disposizione, ma anche una necessità permanente di riorganizzarsi in funzione dell'elevarsi e del declinare delle richieste dei lavoratori. Il sindacato, quindi, in connessione alle fasi dello scontro di classe, assume geneticamente il doppio ruolo di dare risposta agli interessi del proletariato e di essere una delle fonti dello sviluppo del capitale. Ciò senza mettere in conto la malafede di dirigenti che concepiscano il proprio ruolo come risposta alle loro esigenze di una vita più gratificante od addirittura come un trampolino per le proprie fortunate carriere nei ranghi dell'amministrazione dello Stato borghese.

Esigenza fondamentale di una rivoluzione egualitaria è che essa sia opera in prima persona di coloro che in quella società devono trovare i benefici di una vita serena, che viene loro negata nell'attuale assetto capitalistico. L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi, non è per i comunisti anarchici una semplice parola d’ordine, come per i marxisti, ma una convinzione profonda: il proletariato deve essere autore in prima persona della propria liberazione, e con essa della liberazione di tutti e della scomparsa della società divisa in classi. Ne segue, quindi, che un proletariato più unito e cosciente possibile deve presentarsi allo scontro finale col padronato, per evitare che esso divenga preda di ceti intellettuali che si propongono di gestire la società al suo posto, nel suo presunto interesse. Onde evitare ogni forma di sostituzione imposta o che si produca con apparente naturalezza, onde prevenire qualsiasi forma di delega che rischia di divenire permanente e perniciosa ai fini della realizzazione della società di liberi ed eguali, il proletariato deve essere in grado di assumere da subito nelle proprie mani la gestione delle fasi della rivoluzione e della ricostruzione ad essa conseguente. È per questo che l’unità dei lavoratori è un bene indispensabile ed essa si raggiunge con la lotta collettiva e non con il meraviglioso esempio di lotte esemplari, che le masse devono vedere, ammirare ed imitare. Qui il nodo viene nel collegamento tra la condizione economica di classe e la coscienza dei fini storici che la classe deve necessariamente perseguire per la propria emancipazione, o in poche parole su come avviene il passaggio tra classe e coscienza di classe.

Abbiamo visto che per i leninisti la coscienza di classe è esterna al proletariato e ad esso deve essere apportata, anche con metodi autoritari. Al fronte opposto per i sindacalisti rivoluzionari la coscienza di classe nasce spontaneamente tra le masse via via che esse affrontano lo scontro con il capitale (quest’ultima visione è chiaramente figlia del determinismo economico e dell’inevitabile deflagrazione delle contraddizioni interne del sistema capitalistico, come la prima è figlia del giacobinismo borghese, due innesti di cui il marxismo non è rimasto immune). Per molti anarchici schierati sul fronte della lotta degli sfruttati non c'è alcun automatismo tra classe e coscienza di classe e d’altra parte c'è, invece, il rifiuto categorico dei metodi leninisti. Come abbiamo visto l’ostacolo viene aggirato e non risolto dagli anarcosindacalisti (non tutti per la verità) con la teoria dell’esempio che deve contaminare il proletariato, altrimenti tendenzialmente supino al comando riformista: organizzazioni sindacali compatte e rivoluzionarie danno luogo a lotte radicali e vincenti e fungono così da polo di attrazione per la grande massa degli sfruttati. Per essi quindi l’organizzazione sindacale nasce già nelle forme che essa idealmente dovrebbe assumere, a scapito dell’unità della classe; la coscienza di classe precede teoricamente la condizione di classe ed il sindacato diviene una fotocopia dell’organizzazione politica. Per i comunisti anarchici questo è un errore (già messo in luce da Fabbri) e, pur nella consapevolezza che i livelli di coscienza saranno sempre differenziati tra vari strati di lavoratori, convinti del fatto che unità non vuol dire omogeneità, pensano che la classe preceda la coscienza, l’unità preceda la radicalità, e che quindi il rapporto tra i due termini vada risolto in altro modo.

 

5.2.2. L’organizzazione politica non fa solo propaganda

Se la gestione delle fasi della lotta rivoluzionaria, e della società ad essa seguente, deve essere saldamente nelle mani dei lavoratori, come si è detto, l’unità di classe è un requisito necessario, come lo è la coscienza da parte del proletariato dei propri bisogni storici, molto più ampi e profondi dei suoi bisogni economici immediati. La saldatura di questi due corni del problema è stato un nodo teorico lungamente dibattuto, con soluzioni, come visto, molto differenziate. Per la corrente di classe dell’anarchismo la soluzione è ben delineata già fin da Bakunin e comporta due condizioni: l’azione diretta e l’organizzazione politica.

L’esercizio dell'azione diretta, ovverosia della gestione in prima persona delle lotte, è la palestra per la presa di coscienza del proletariato, che misura senza mediazioni il valore delle vittorie ed i mezzi che le hanno consentite, da un lato, e l’asprezza dello scontro e la forza dell'avversario, dall’altro. È poi senza dubbio più naturale il passaggio dalla gestione delle lotte quotidiane alla gestione del conflitto rivoluzionario. Occorre però fare attenzione a non scambiare per azione diretta qualsiasi azione condotta in prima persona: l’azione diretta non è costituita dal fatto che un gruppo più o meno numeroso, coeso e cosciente gestisca le proprie lotte: questo è quanto ogni raggruppamento politico sperimenta sempre nel corso del proprio agire, ma non apporta alcun milligrammo aggiuntivo di coscienza alle masse. L’azione diretta è solo quella che gruppi omogenei dal punto di vista economico o territoriale (e non politico) mettono in atto per perseguire un fine anche molto limitato, perché è solo in questo modo che individui con gradi diversi di coscienza sociale si confrontano tra di loro e contro un ostacolo esterno, acquisendo in questo duplice confronto consapevolezza sia della momentanea limitazione dei fini preposti alla lotta, sia delle acquisizioni, anche teoriche, necessarie all'allargamento degli obiettivi da perseguire, affinché i risultati non siano effimeri.

Ed è proprio all'interno del processo dell’azione diretta che esplica il proprio ruolo insostituibile il partito (termine malatestiano) dei comunisti anarchici. Il proiettare in avanti i termini dello scontro, il far prender coscienza agli altri di quanto i risultati ottenuti nelle lotte economiche possano essere caduchi e quanto il terreno conquistato possa essere rapidamente riconquistato, e con aggio, dall'avversario, il collocare in un contesto di aspirazioni sempre più vasto l’obiettivo del momento: questi sono i compiti specifici dei militanti comunisti anarchici all'interno dello scontro di classe. In altri termini i militanti coscienti all'interno dell'organizzazione di massa devono tendere ad estendere la pratica dell’azione diretta ed utilizzare lo scontro dell'oggi per far prendere coscienza degli obiettivi del domani. I militanti comunisti anarchici traggono forza nella propria azione dal coordinamento del proprio operare, che avviene tramite il lavoro della loro organizzazione politica.

L’organizzazione politica è quindi il nesso cercato tra classe e coscienza di classe; la sua azione all’interno dell'organizzazione di classe è l’enzima che fa fermentare la condizione economica della classe nella consapevolezza dei fini storici del proletariato; per che ciò possa avvenire occorre l’unità dei lavoratori, indipendentemente dal loro livello di coscienza di classe e l’azione diretta. L’organizzazione di massa, quindi, non fa esami per reclutare militanti, ma tende a raggruppare nel suo seno tutti gli sfruttati senza altra condizione, come nella visione bakuninista doveva fare l’Associazione Internazionale dei Lavoratori; il conflitto col capitale e l'azione costante dell’organizzazione politica (la bakuninista Alleanza per la democrazia socialista) al suo interno faranno sì che le sue lotte si radicalizzino col tempo, fino ad arrivare allo scontro definitivo.

Lo scopo dell’organizzazione politica dei comunisti anarchici è quindi quello di stare all'interno dello scontro di classe per renderlo sempre più radicale e cosciente dei propri obiettivi finali. Quindi essa non può limitarsi a fare propaganda (magari astratta e lontana dai livelli di percezione delle masse), ma deve calarsi nei livelli di coscienza che il proletariato esprime in un determinato momento storico per elevarli costantemente; deve quindi produrre analisi, strategia e proposte credibili. I suoi militanti devono acquisire la fiducia dei lavoratori, distinguendosi per chiarezza di idee e per capacità di promuovere lotte convincenti e, nei limiti consentiti dai rapporti di forza con la controparte, vincenti. Essi non devono divenire, però, un nuovo ceto dirigente che si stacca dai propri compagni di lotta, ma solo dei punti di riferimento in grado di orientare gli altri in ogni momento, non perdendo la bussola nei passaggi più difficoltosi.

Poiché è evidente che al momento dello scoppio della rivoluzione, non tutti i soggetti del proletariato avranno sviluppato la medesima consapevolezza del momento storico (unità e non omogeneità, si e' detto, per non attendere un tempo indefinito), discende da ciò, con altrettanta evidenza, che si formeranno dei gruppi dirigenti, ci si passi il termine, in modo naturale. Ma questo non riprodurrà sotto alcuna veste una dittatura di tipo leninista se tre punti fondamentali verranno osservati. Prima di tutto la distanza di coscienza tra l'avanguardia (la bakuninista minoranza agente) e le masse non sarà troppo elevata, di modo che sia preservata la possibilità di controllo dal basso da parte della grande massa del proletariato sull’agire della prima; ovviamente si fa qui riferimento al livello di coscienza che traspare dalle proposte di lotta e non della consapevolezza strategica che i militanti di specifico devono possedere. In secondo luogo è necessario che l’avanguardia permanga anche fisicamente a fianco dei suoi compagni di lotta, senza rivendicare per sé un ruolo dirigente esterno, anche se questo dovesse venir giustificato con la necessità di garantire il buon andamento della rivoluzione. Infine ogni potere dovrà essere collocato nei luoghi di lavoro e di aggregazione del proletariato e da lì salire dal basso verso l’alto, senza mai essere delegato in bianco ad istanze superiori, neppure sotto la presunzione di una loro maggiore competenza scientifica e tecnica. L’organizzazione dei comunisti anarchici veglierà per impedire il verificarsi di queste tre esiziali deviazioni.

 


5.3. Lo Stato e la collettività

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