COMUNISTI ANARCHICI: UNA QUESTIONE DI CLASSE
5.4. I mezzi
È un luogo comune nel movimento anarchico la stretta analogia tra i mezzi della lotta ed i fini da perseguire. Se a questa affermazione si vuol dare il valore di una necessaria esclusione di alcuni metodi di lotta, in quanto inadatti al perseguimento del fine, nulla da obiettare. Abbiamo già visto, ad esempio, che è improponibile l’utilizzo dello Stato, nella fase di transizione al comunismo, al fine di promuovere la sua estinzione. Ci sono, quindi, dei mezzi incompatibili teoricamente e praticamente con gli obiettivi della lotta.
Da questo, però, non si può far discendere un’omogeneità stretta tra mezzi e fini, come fanno molti anarchici, in particolare non violenti ed antiorganizzatori, pena delle conseguenze grottesche. Se così fosse, esemplificando, gli anarchici dovrebbero comportarsi prefigurando nel loro modo di agire le regole di solidarietà e di convivenza della società che ambiscono a realizzare; ciò vorrebbe dire vivere in forme di collettività, quali le Comuni con due spiacevoli conseguenze, una pratica ed una teorica. Quella pratica è che le Comuni sono sempre miseramente fallite (come nel caso della famosa Comune ottocentesca Cecilia, in Brasile), perché gli individui si portano dietro tare derivate dall’attuale organizzazione sociale borghese (in cui sono nati, cresciuti, educati), che pesano nella vita della comunità avvelenandola; e, d’altra parte, la Comune non può vivere isolata dal resto del mondo e, intrattenendo necessari rapporti con la società che la circonda, spesso di tipo commerciale, ne viene contaminata. Ne discende che la società comunista dovrà essere vasta e tendenzialmente pervasiva del resto dell’umanità e che sarà necessaria una fase di transizione per depurare i singoli dai vizi ormai incorporati nella loro corazza caratteriale. La conseguenza teorica spiacevole sarebbe quella di pensare che la società nuova nasca dall’esempio offerto da piccoli gruppi, come una sorta di macchie di comunismo che si allargano nel tessuto sociale, con l’addio alla rivoluzione ed una visione del futuro assetto della società come realizzabile per gradi, in una nuova forma di riformismo.
Dovremmo poi divenire non violenti, perché, secondo il frusto assioma dei mezzi e dei fini, una società pacifica e solidale non può nascere da un atto violento qual è la rivoluzione. I comunisti anarchici non amano la violenza, ma pensano che i padroni non accondiscenderanno a spogliarsi dei propri privilegi di buon grado, solo perché col semplice ragionamento si convinceranno che il comunismo è la forma più razionale di civile convivenza.
Ne discende che, per i comunisti anarchici, i mezzi non devono contraddire gli obiettivi prefissi, ma una volta scartati quelli decisamente incompatibili, resta una vasta gamma di metodi di lotta che vanno misurati solo sulla base della loro efficacia. Soprattutto essi pensano che alcuni mezzi, lungi dall’avvicinare la lotta al suo sbocco voluto, l’allontanano o la rendono impraticabile, come è il caso della critica dell’organizzazione politica e della sua struttura interna, avanzata da certi confusionari dell’anarchismo, che vedono la disciplina del militante verso le decisioni collettivamente prese, come una violazione della libertà dell’individuo ed, in ultima analisi, come una negazione dei fini anarchici; questa critica impedisce un serio lavoro tra le masse ed allontana quindi il giorno della rivoluzione sociale.