I Comunisti Anarchici e l'Organizzazione di Massa

II. Strategia sindacale dal 1945 al 1983

 

II.1. Struttura dell’organizzazione sindacale successiva al periodo fascista

Il 28/VII/1943 rinasce il sindacato “libero” In Italia. Per iniziativa del governo Badoglio vengono nominati come suoi dirigenti per i lavoratori dell’industria Bruno Buozzi per i socialisti, Roveda per i comunisti e Quarello per i democristiani[1].

La scelta del governo post-fascista si rendeva necessaria per porre sotto controllo la spontaneità operaia che aveva dato vita a proprie organizzazioni ricostruendo alla base la Cgl. Più che dare una sintesi dei fatti, in questa sede ci preme rilevare come l’organizzazione sindacale rinasca quale filiazione diretta del partiti politici del Cln, e fin dall'inizio la sua direzione venga affidata a responsabili nominati in rappresentanza di questi partiti. Disponendo di mezzi economici e di propaganda, di quadri politici provenienti dai partiti, questa struttura organizzativa riesce ben presto ad imporsi sulle organizzazioni spontanee di classe, e soprattutto riesce a togliere ad alcune organizzazioni categoriali italiane quelle caratteristiche di almeno parziale indipendenza dalla Cgdl, che nel periodo prefascista le distinguevano. Occorre qui ricordare che a partire dal 1906 la Cgdl era legata al Psi da un patto di unità d’azione, in base al quale al sindacato spettava la direzione delle lotte economiche ed al partito la direzione delle lotte politiche.

Accanto alla Cgdl esistevano come strutture autonome dai partiti politici il Sindacato Ferrovieri Italiani ed il Sindacato Lavoratori del Mare. Dalla scissione tra riformisti e rivoluzionari, con rotture locali spesso alimentate e provocate dai riformisti, nacque nel 1912 l’Usi che, composta prevalentemente da sindacalisti rivoluzionari ed anarcosindacalisti, raggruppava anche alcune Camere del lavoro[2].

A queste organizzazioni si aggiunse, soprattutto a partire dal primo dopoguerra ed a coronamento di un lungo processo di organizzazione di sindacati di categoria, la Cil quale punto di arrivo di un lavoro di coordinamento svolto dal Segretariato Generale delle Unioni Professionali e cioè del movimento cattolico organizzato[3].

Tuttavia è importante rilevare che le Camere del Lavoro rappresentavano un’effettiva articolazione territoriale delle organizzazioni di classe ed in molti casi rompevano il loro legame organico con le organizzazioni sindacali verticali, dando la loro adesione a programmi e proposte di lotta formulate da altre Cdl o da altri sindacati verticali.

Nel dopoguerra la mobilità delle organizzazioni sindacali si perde. L’unità antifascista,  meccanicamente ribaltata nel campo sindacale, si traduce nella realtà in una struttura rigida, che impedisce, bloccandola, ogni possibilità di lotta che non sia quella decisa dai vertici sindacali e che non sia rapportata alla tenuta del “quadro democratico” e dell'unità sindacale. D’altra parte i problemi che i lavoratori si trovavano a dover affrontare erano immensi. Bisogna tener conto che nel 1938 - ultimo anno di pace in Europa - i salari reali medi erano in Italia pari a quelli del 1913 e pari all’82% dei salari reali del 1922. Il fascismo era stato innanzitutto uno strumento di compressione salariale e di riduzione del tenore di vita dei lavoratori, e la guerra non aveva fatto altro che accentuare questa funzione, portando i salari a livelli ancora più bassi. La disoccupazione toccava la cifra dichiarata di due milioni, mentre ancora più alta era la disoccupazione reale. In questa situazione, malgrado i suoi vizi di origine,

la Cgl si trovò a capitalizzare il movimento degli scioperi del 1943, il desiderio di supera mento delle divisioni che tanto avevano pesato negli anni venti sulla sconfitta proletaria e sul trionfo del fascismo. Sull’onda di queste esigenze si costituì l’unità sindacale, come riflesso dell’unità politica del Cln. Il sindacato unitario si trovò così a poter disporre della credibilità necessaria affinché le masse vi si identificassero, riconoscendo in esso lo strumento di difesa reale dei loro interessi.

 

II.2. La politica salariale e contrattuale della Cgil dal 1944 al 1950

In ossequio alla politica unitaria del Cln e nel quadro della sua collaborazione con il nuovo governo di unità nazionale, nel dicembre del 1945 la Cgil acconsentì allo sblocco del licenziamenti richiesto con insistenza della Confindustria. Venivano esclusi dal licenziamento i partigiani, i reduci, i perseguitati politici e gli apprendisti con meno di 21 anni. Era stata aperta tuttavia una breccia ed il 19 gennaio 1946 veniva siglato un accordo che prevedeva lo sblocco totale, ma graduato nel tempo, dei licenziamenti. Di Vittorio commenterà cinicamente che “centinaia di migliaia di lavoratori avrebbero potuto essere messi sul lastrico da almeno otto mesi” e che “le aziende industriali non possono più sopportare il peso della manodopera, divenuta superflua”, per cui costituisce un grande successo essere riusciti a “limitare e graduare i licenziamenti”.

Se è vero che nel Congresso di Napoli del gennaio-febbraio 1945 le componenti di sinistra vengono sconfitte, dando di fatto inizio alla pratica della sinistra sindacale, è anche vero che le grandi lotte del luglio dello stesso anno ed il deciso rifiuto da parte degli operai di questi accordi fanno sì che l’ondata di licenziamenti cominci di fatto nel 1947. Intanto, sulla base del mandato ricevuto a Napoli, il sindacato unico porta avanti una sua pratica di collaborazione, attuando per statuto la centralizzazione di ogni potere contrattuale ai vertici dell’organizzazione, dando vita ai Consigli di Gestione come strumento di cooperazione col padronato, accettando il ripristino del cottimo - abolito durante il ciclo di lotte dal 1943 al 1945 -, stipulando una tregua salariale a partire dall’ottobre del 1946.

Questi gravissimi cedimenti, compiuti nella speranza illusoria di prolungare il più possibile il governo di unità nazionale prima e l’unità sindacale poi, rendono possibile il ripristino del comando padronale e di fatto facilitano la scissione a destra dell’organizzazione sindacale in Italia, preparata ed attuata dai democristiani mediante le Acli[4] prima, con la fondazione della libera Cgil, e poi dai socialdemocratici e dai repubblicani con la nascita della Fil. Nel 1950, due anni dopo la scissione, Lcgil e Fil si fondono, dando vita alla Cisl, che assume come proprio punto di riferimento la costruzione di una società pluralistica, in stretta collaborazione con la Dc, ed adotta una pratica di sindacalismo giallo. La maggioranza di coloro che avevano dato vita alla Fil, non identificandosi in questa operazione, perché su posizioni laiche, fonda la Uil[5].

 

II.3. Strutture e ruoli delle categorie operaie e contadine

Bisogna tenere presente che ancora nel 1951 l’Italia era un paese in cui oltre il 41% della popolazione attiva era addetto all’agricoltura. Se è vero che esistevano forti e combattive masse bracciantili, va tenuto presente che l’introduzione della meccanizzazione e la riforma agraria, che tenderà a favorire la creazione di uno strato di contadini medi e piccoli, ridimensioneranno il peso del bracciantato ed obbligheranno le organizzazioni sindacali a cercare di recuperare mezzadri  e contadini con interessi spesso antitetici a quelli dei braccianti.

I lavoratori dell’industria occupati in unità locali con oltre 100 addetti erano il 33% circa, il rimanente era costituito da artigiani, lavoranti a domicilio, operai di piccole e piccolissime aziende. Ancor più frammentata era l’occupazione nei settori terziari. Alla forza politica della classe operaia non faceva quindi riscontro un’analoga forza strutturale.

La riorganizzazione del sindacato non presentò, almeno apparentemente, molte difficoltà e le iscrizioni crebbero massicciamente: nel primo anno della liberazione del mezzogiorno gli iscritti erano poco più di 1.000.000; nel 1945 divennero quasi 5.000.000 ed alla fine del 1948 erano oltre 5.700.00.

Nel quadro della divisione internazionale del lavoro il capitalismo italiano si vedeva assegnate aree definite di produzione. Decadeva l’industria cantieristica sotto la spinta dell’acquisto dei residuati bellici; iniziava il graduale ridimensionamento del settore minerario, fino ad allora privilegiato dal fascismo nel quadro di una politica autarchica, ma tuttavia ricco di tradizioni di lotta; il settore ferroviario si ridimensionava gradualmente a causa della scelta a favore del trasporto automobilistico. Per quanto riguarda questo settore occorre inoltre tener presente la politica del fascismo che, dopo una prima fase di licenziamenti di tutti i lavoratori su posizioni di sinistra, aveva adottato una rigida selezione nelle nuove assunzioni, richiedendo la tessera del Pnf. L’epurazione seguita alla liberazione – più a parole che nei fatti – e le nuove assunzioni non permisero di ridare slancio a questa categoria di lavoratori che pur tanto peso aveva avuto nelle lotte del movimento operaio.

Ricevevano impulso l’industria tessile e l’industria di trasformazione in genere. Ereditando la politica dello Stato fascista, il nuovo Stato repubblicano intervenne in economia, potenziando l’industrializzazione di base e lasciando il massimo spazio all’industria privata nel settore manifatturiero. Veniva accelerata la ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro in modo da permettere un utilizzo concorrenziale della forza lavoro. In questa situazione il settore guida dell’industria, e quindi del movimento operaio, diveniva quello metalmeccanico, affiancato dal chimico e dal tessile. La congiuntura tenderà ad aggravarsi a causa della crescente disoccupazione, che nel 1947 supera i 2.000.000 di unità, in concomitanza con l’introduzione della meccanizzazione in agricoltura, fonte di espulsione di manodopera bracciantile con conseguenti lotte durissime, ma perdenti, nel settore. L’emigrazione si gonfia ancora una volta accogliendo il surplus di forza lavoro.

Riprendeva vigore così il progetto economico hitleriano di una Europa in cui l’industria viene concentrata al nord, mentre ai paesi mediterranei spetta il compito di fornire manodopera a basso costo. L’emigrazione infatti prenderà, più che la via dell’America, quella del Nord Europa e soprattutto quella della Germania.

 

II.4. Riflessi delle mutate situazioni economiche sui rapporti di forza all’interno del sindacato

Abbiamo già detto del legame profondo fra Cgil e partiti politici e della subordinazione più completa del sindacato alle scelte di politica generale dei partiti dell’arco costituzionale. Occorre tuttavia andare più a fondo, cercando di cogliere il rapporto tra questa politica generale e quella delle singole forze.

A partire dal Congresso di Napoli del 1945, la gestione di maggioranza del sindacato si concretizza in un arco che va dalla Dc al Pci. Il nemico da battere è il sindacalismo di sinistra, ma ancor di più le lotte di fabbrica sulle quali l’organizzazione sindacale è cresciuta. Esiste infatti uno stretto rapporto tra le azioni di lotta ed alcuni compagni che, sull’onda di queste, cercano all’interno dell’organizzazione sindacale i spostarne l’asse politico; la velleità di spostare l’asse di una struttura nata dall’esigenza di soffocare le lotte di base sfruttandone lo slancio, senza metterne in discussione la specifica forma organizzativa, porte4rà inevitabilmente alla sconfitta di questo tentativo e indurrà tali compagni a spendere nei rapporti di forza tra le varie componenti la credibilità acquisita in categoria. Il risultato sarà il costituirsi in corrente, in “sinistra sindacale”, ovvero in una componente a suo modo “partitica” e nella pratica assimilata alle altre, alla quale si concedono degli spazi istituzionali ed un ambito di manovra nel sindacato. Ne consegue l’ingabbiamento di questi compagni in una logica ”unitaria” che li porterà ad un progressivo distacco dalla base che li aveva espressi come avanguardie reali.

È sfruttando questa pratica che il Pci ed il Psi riescono ad incrinare il cordone ombelicale che lega la sinistra di classe nel sindacato alla base operaia. Ma il secondo e più decisivo colpo viene dato dalla decisione del Congresso di Napoli di avocare alle direzioni nazionali la stipula dei contratti e la gestione delle vertenze. La politica salariale e contrattuale centralizzata diventa lo strumento di sconfitta della classe operaia, lo strumento che porterà alla distruzione stessa del sindacato negli anni cinquanta.

Ulteriori elementi che facilitano questo disegno politico sono, da un lato la crescente repressione padronale, che sull’onda della guerra fredda colpisce prima i militanti più attivi e le avanguardie di fabbrica e gli stessi quadri sindacali del Pci, e dall’altro la mutata struttura del rapporto di forza tra le varie categorie. Decimati i minatori, che tanti quadri avevano fornito alla sinistra di classe, vengono ridimensionati i ferrovieri, che da un lato scontano il mancato completamento dell’epurazione e dall’altro la mancata ricostruzione di un sindacato autonomo; in crisi il settore marittimo, è scomparso l’altro grande sindacato autonomo protagonista delle lotte prefasciste. Fortemente ridimensionato il settore agricolo, dove per altro è forte l’influenza democristiana, il nodo centrale rimane il sindacato metalmeccanico ed elettromeccanico che aveva visto le maggiori cure delle cellule clandestine del Pci e che vede in questa fase crescere sempre più il proprio peso nelle scelte economiche e sociali, anche grazie al ruolo assegnato all’Italia nel quadro della divisione internazionale del lavoro.

 

II.5. Dalla Cgil unitaria al controllo del Pci sulla Cgil

Tuttavia per capire appieno la politica sindacale del dopoguerra e la stessa evoluzione del sindacato, occorre tener conto del fatto che nella fase di ricostruzione delle organizzazioni sindacali il Pci, di fronte alla presenza in esse di militanti rivoluzionari, aveva sviluppato e rafforzato le cellule di fabbrica[6] che, per aver svolto un ruolo centrale negli scioperi del 1943-1944, potevano vantare una notevole credibilità fra i lavoratori.

Si alimentava fra le masse la speranza dell’azione insurrezionale rivoluzionaria e la cellula e la sezione erano al tempo stesso strumento di organizzazione politica e militare. Su queste premesse, tali strutture si rafforzavano e sviluppavano sempre più, al punto che, mentre le polemiche tra cattolici, repubblicani, socialisti, socialdemocratici e comunisti dilaniavano l’organizzazione sindacale unitaria, riducendone la credibilità e la stessa capacità di contrattazione col padronato, queste strutture forti finivano per rappresentare in fabbrica l’unico elemento reale di difesa, surrogando il sindacato.

La Cgil, dal canto suo, a partire dal 1947 imboccava decisamente la strada della ricostruzione democratica del paese, abbandonando al tempo stesso ogni velleità di creazione di un’alternativa rivoluzionaria. Lo slogan era: “produrre di più, ricostruire”. Si arriva così al Piano del Lavoro la cui attuazione prevede:

  1. costituzione di un Ente Nazionale per l’energia elettrica (nella convinzione che solo la disponibilità di energia a basso costo per le industrie poteva costituire la base per lo sviluppo dell’economia italiana, incentrata sulla fase di trasformazione);
  2. costituzione di un Ente Nazionale per la bonifica;
  3. costituzione di un Ente Nazionale per l’edilizia popolare;
  4. un programma per le opere pubbliche essenziali.

In cambio di questo new deal per l’industria ed il “paese”, la Cgil si dichiarava disposta ad attuare disposta ad attuare l’autocontenimento delle rivendicazioni salariali, nell’intento di assicurare, come affermò Di Vittorio in un discorso alla Camera, che “[...] la Cgil non è una forza eversiva, ma una forza costituzionale e legale, che è e vuole restare nello Stato, non fuori dallo Stato”. È sulla base di questa politica, più che sulla mancata insurrezione dopo l’attentato a Togliatti, che vengono sconfitte le forze di sinistra all’interno del sindacato. Il Pci potrà permettersi, di fronte ad un sindacato ormai svuotato di uomini e di capacità contrattuale, di riportare nell’organizzazione sindacale momenti di decisione politica della lotta di fabbrica. Ai militanti di cellula e di sezione, messa da parte momentaneamente – si dice – l’azione insurrezionale, si dà come obiettivo il ritorno nel sindacato, che ufficialmente viene sancito nel 1954 con l’invito a sezioni e cellule a sciogliersi nella Cgil. Con il Convegno Nazionale di organizzazione del 1954 il processo di infeudamento della Cgil da parte del Pci può dirsi concluso[7].

 

II.6. Lotte sindacali e sviluppo negli anni cinquanta

Mentre nella Cgil si svolgeva uno scontro politico che aveva come obiettivo il controllo dell’organizzazione sindacale, la ristrutturazione produttiva, seguita al Piano Marshall, portava ad un’intensificazione dello sfruttamento operaio, basato su più raffinate tecniche di organizzazione del lavoro e sulla dequalificazione di vasti strati operai professionali[8]. La Cgil cercò di rispondere a questo attacco, ma lo fece con poca convinzione, tutta presa nello sforzo di sostenere il Piano del Lavoro, e preferì ripiegare sulla monetarizzazione dello sfruttamento. Gli sforzi furono in realtà diretti più verso la riuscita dei due scioperi generali contro la “legge truffa” e di uno contro la guerra in Corea, che verso obiettivi di carattere aziendale e contrattuale.

Ma c’era chi non stava ad aspettare. La Cisl, prima in un Consiglio Generale tenuto a Bari nel gennaio del 1951, e poi, con maggiore precisione nel Consiglio Generale di Ladispoli del febbraio 1953, propose la contrattazione aziendale rapportata al grado di efficienza e produttività dell’impresa, ribadendo che:

“[...] ferma restando la piena validità della contrattazione collettiva intercategoriale e categoriale a livello nazionale, come strumento idoneo a perseguire l’equilibrio fra la remunerazione monetaria e l’incremento di efficienza produttiva a livello intercategoriale e categoriale, richiede l’introduzione e lo sviluppo di una prassi di accordi integrativi di azienda, per ciò che si riferisce all’inserimento nella remunerazione dell’elemento  che esprime l’indispensabilità dell’apporto dei lavoratori agli sforzi diretti ad accrescere la produttività delle aziende [...].”[9]

A questa politica la Cisl fece seguire la sua dichiarata disponibilità alla cogestione, facendosi anche forte dell’azione repressiva del padronato contro la presenza della Cgil in fabbrica.

La Cgil dal canto suo non riuscì a staccarsi dalla direzione centralistica delle vertenze, poiché questo strumento era il solo che poteva assicurare il controllo da parte del vertice della politica rivendicativa e salariale dell’organizzazione, permettendo quindi al Pci di spendere politicamente nel confronto con gli altri partiti il controllo esercitato sul sindacato.

Contro un avversario così mobile e spregiudicato, la Cgil non poteva che perdere. Il concorso di questi fattori porterà alla sconfitta della Fiom alla Fiat nelle elezioni delle Commissioni interne nell’aprile del 1955. Questi furono i risultati delle votazioni: Fim 46%, Fiom 36% e Uilm 23%. Per ritrovare la classe operaia Fiat dentro le grandi lotte occorrerà attendere gli scioperi per il contratto del 1962.

Come abbiamo visto, nel 1954 si era concluso il processo di infeudamento della Cgil al Pci e questo fatto giocava come ulteriore elemento di debolezza, riducendo ulteriormente la tenuta di massa della Cgil. È perciò che, dopo la sconfitta della Fiom, si cominciò a parlare di nuova realtà in fabbrica e Di Vittorio avviò l’autocritica. Con il Congresso del 1956 la Cgil iniziò una radicale revisione della propria politica salariale e contrattuale. Si ritornò alle lotte di fabbrica e quindi alla lotta sul salario ed alla contrattazione aziendale su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Si posero problemi relativi alla prestazione del lavoro (tempi, tariffa di cottimo, velocità delle catene, condizioni igieniche e di sicurezza, incentivi), in una parola, la politica della  Cgil venne ribaltata.

La Cisl non colse fino in fondo la radicalità del mutamento di rotta e già nell’agosto del 1955, dopo le lotte all’Ilva di Bagnoli, dovette registrare gli effetti della nuova strategia della Cgil e marcare una battuta di arresto nella sua offensiva anticomunista.

Un ulteriore elemento caratterizzò in profondità il mutamento di strategia della Cgil, la presa di posizione sui fatti di Ungheria. Si cercò di accreditare l’immagine di una Cgil svincolata dalla politica del Pci, di far dimenticare gli scioperi a favore del blocco orientale; si voleva affermare e ribadire il ruolo della Cgil come sindacato democratico ed autonomo dai partiti, aprendo la strada ad un riavvicinamento fra le organizzazioni sindacali.

 

II.7. Il “miracolo economico” e la nuova fase di lotte

Sul finire degli anni cinquanta il paese si avviò a compiere un ulteriore balzo in avanti. Fra il 1951 ed il 1960 i prezzi all’ingrosso si erano mantenuti stabili, i salari monetari erano saliti del 4,1% ed il costo della vita del 2,7%, mentre i profitti lordi erano cresciuti costantemente. Sul finire degli anni cinquanta venne iniziata la costruzione dell’Autostrada del Sole, mentre l’economia subì una brusca accelerazione e si sviluppò nel paese una gigantesca ondata migratoria verso il triangolo industriale[10].

In concreto, negli anni detti del “miracolo economico” (1959-1963) la produzione lorda manifatturiera, che negli anni cinquanta era cresciuta del 7,4%, salì del 10,1%; la produttività per occupato, che nel decennio precedente era salita del 4,6% annuo, salì del 7,6% su base annua; gli investimenti passarono da un incremento annuo del 6,8% ad uno del 13,8%[11].

Tutto ciò produsse una profonda modifica nell’organizzazione del lavoro e nella struttura stessa della classe operaia e della sua distribuzione sul territorio. Una nuova classe operaia deprofessionalizzata entra nelle aziende. Sono emigrati, ex-contadini, che non hanno conosciuto le sconfitte degli anni cinquanta. Non soffrono dell’affezione al partito, non subiscono il fascino-ricatto della partecipazione alla lotta di liberazione, sono l’immagine del tipico operaio massa, senza professionalità, sradicato, senza una casa decente, separato dalla famiglia, emarginato, disaffezionato al lavoro. Non hanno nulla da perdere, tutta da guadagnare; e lo si vede subito. Già nel 1959, con gli scioperi degli elettromeccanici, la classe operaia partiva all’offensiva. L’obiettivo era il salario per intaccare, attraverso questo, il profitto; ciò che si voleva rompere era la spirale salari-profitti a favore del salario.

E se dal 1961 al 1970 i prezzi dei beni di consumo crebbero del 2,6%, è anche vero che i salari monetari salirono del 10% ed il costo della vita crebbe del 4,1%. I profitti registrarono nel complesso un sensibile calo[12].

Di fronte alla bufera che si annunciava ed alle lotte che si preparavano, il capitalismo italiano, dopo aver tentato una prova di forza con il Governo Tambroni, puntò al recupero del Psi, cercando di spezzare l’unità del movimento operaio, guadagnandosi il consenso di una parte dei lavoratori ad una politica che, al di là degli slogans, aveva come obiettivo il controllo e la disciplina delle lotte operaie. Si voleva ottenere nel sindacato e nelle fabbriche un comportamento compatibile con le esigenze di accumulazione capitalistica.

Tuttavia il centro-sinistra fu qualcosa di più di un’operazione più o meno riuscita attraverso la quale assicurarsi la normalizzazione delle lotte sociali. Questa esperienza fu intrapresa dalla sinistra nella speranza di modificare alcuni degli elementi caratteristici dello scontro di classe in Italia. Si cercò di attenuare lo squilibrio tra nord  sud, di fornire di centri sociali e di servizi le aree congestionate dalla crescente emigrazione. Partendo dall’ipotesi che i disservizi e gli squilibri crescenti nella società fossero di ostacolo allo stesso sviluppo, si puntò alla lotta per le riforme, non come momento di lotta contro il capitalismo, ma come strumento di razionalizzazione di uno sviluppo disordinato e caotico. Era il periodo della parola d’ordine della “programmazione”, che esprimeva il progetto riformista con cui il Psi si era imbarcato nell’esperienza governativa e che avrebbe segnato un clamoroso insuccesso. Non si era capito che l’evoluzione a prima vista caotica nascondeva uno sviluppo che, con contraddizioni enormi che si sarebbero evidenziate nelle lotte della fine degli anni sessanta e con la coesistenza di modelli di sfruttamento apparentemente antitetici, trovava una sua coerenza nella compressione del costo del lavoro, accentuando la vocazione esportatrice del paese.

La parola d’ordine delle riforme non trovò, in un primo momento, eccessiva credibilità tra i lavoratori. Per i motivi che abbiamo fin qui illustrato, le centrali sindacali spingevano la classe operaia a lotte “articolate”, cioè ad iniziative di base che trovavano un fertile terreno. Questa volta lunghe e dure lotte sindacali aprirono la strada alle vertenze per il rinnovo dei contratti del 1962-1963. Il Pci vi vedeva, dal canto suo, l’unico mezzo per tenere legati i socialisti e per presentarsi con diritto di parola alla trattativa da cui il centro-sinistra cercava di escluderlo.

Le lotte aziendali di quegli anni e gli stessi rinnovi contrattuali fecero salire i salari operai, che si riversarono in modo consistente sui consumi (carne e zucchero, ma anche elettrodomestici, televisori, automobili). Il padronato cercò di recuperare con l’aumento dei prezzi, trasferendo tranquillamente su di essi l’aumento salariale, ma trovando tuttavia un limite nella concorrenza internazionale. Bisognava impedire che gli operai potessero muoversi con tanta capacità di iniziativa.

È per questo motivo che i contratti del 1962-1963 contennero per la prima volta un “preambolo contrattuale”, che sosteneva che in fabbrica era possibile chiedere solo ciò che era stato concordato nel contratto nazionale, nei limiti da questo precisati. In pratica la lotta aziendale diveniva una lotta per l’applicazione del contratto, che risultava essere più o meno rigida a seconda della forza del padrone. In sostanza il diritto di iniziativa in fabbrica veniva riconosciuto per  essere immediatamente svuotato, nasceva la “contrattazione integrativa”.

Al tempo stesso, con un accordo tra l’industria di Stato ed i sindacati, si introducevano nel 1961 le job evaluations nell’industria siderurgica. Al vecchio inquadramento per qualifiche si sostitutiva una diversa retribuzione del lavoro, articolata in venticinque classi stipendiali e basata sulle mansioni[13].

Ma la combattività operaia continuava ad essere forte e si tentò allora con la politica dei redditi. Governo, padroni e sindacati avrebbero dovuto, sulla base di un accordo politico, stabilire la dinamica di tutti i redditi, dei salari e dei profitti, e quindi dei prezzi. Nell’impossibilità di controllare i prezzi, non restava che controllare i salari, cosa che i sindacati, allora, non furono in grado di accettare. In tempo di espansione economica non si può fermare la richiesta di salario della classe operaia ed in tempi di recessione e di crisi la politica dei redditi si rivela spesso superflua a causa della caduta delle lotto sotto lo spettro della disoccupazione.

Si tentò allora la politica di programmazione che avrebbe dovuto offrire in cambio di una disciplina sui salari la contropartita delle riforme scaglionate nel tempo. Si trattava di accettare sacrifici immediati in cambio di incerte promesse. Altre soluzioni furono proposte dalla Cisl attraverso il “risparmio contrattuale” per cui una parte degli aumenti contrattuali, invece di andare ai lavoratori, sarebbe andata agli investimenti, attraverso l’“accordo quadro”, che avrebbe dovuto sancire l’impossibilità di iniziative indipendenti da quelle decise dalle direzioni nazionali del sindacato.

Bisognava spezzare il ciclo di lotte ed i padroni attuarono la politica della recessione, la restrizione del credito e della spesa, una politica deflativa finalizzata alla caduta dell’attività economica ed alla creazione di disoccupazione. Prova ne sia che nel 1964 gli investimenti calarono del 20,1%, e solo alla fine degli anni sessanta riuscirono a ritrovare i livelli del 1963. La produttività nel settore manifatturiero nel 1964 salì dell’1,4%, ma nel 1965 salì del 7,9%, e poiché ci troviamo di fronte ad una caduta drastica degli investimenti, l’aumento è imputabile all’intensificazione del lavoro e quindi all’aumento dello sfruttamento[14].

 

II.8. Dal riflusso del 1964 all’autunno caldo

La recessione del 1964-1965 fu l’occasione di una profonda ristrutturazione industriale. I nuovi investimenti furono concentrati nel rinnovo dei macchinari, con l’intento di ridurre la manodopera; prova ne sia che, ad esempio, il settore tessile perse da un quarto ad un terzo degli addetti. Si avviò al tempo stesso un processo di concentrazione destinato a produrre profonde modifiche nell’assetto del padronato italiano. Un ruolo chiave svolsero in questa fase l’industria e la banca di Stato che, operando di concerto sul credito e sulla spesa, fecero subire al proletariato una fase di inflazione alla quale seguì una fase di deflazione (riduzione attraverso l’inflazione del valore reale dei salari ed attraverso la deflazione blocco degli investimenti, licenziamenti, disoccupazione).

Di fronte a questa politica il sindacato non riuscì a trovare una risposta complessiva e si limitò a contenere dove possibile i licenziamenti collettivi. Nel 1965 la Banca d’Italia poteva constatare che in tutte le aziende venivano osservati i limiti stabiliti dai contratti nazionali. Le conquiste aziendali erano state assorbite.

Nel 1965-1966, come conseguenza di questa politica recessiva, si registrò un inizio di ripresa che prendeva le mosse dalla ritrovata fiducia degli imprenditori nella possibilità di contenimento delle rivendicazioni operaie. E tuttavia, anche se in modo disarticolato, la conflittualità si fece sentire in fabbrica. Per bloccarla si ricorse a strumenti politici, cercando di utilizzare il settore pubblico come guida alla politica salariale nei confronti del settore privato. Si cercò la collaborazione dei sindacati proponendo un accordo quadro, risparmi contrattuali, una politica di programmazione,utilizzando il centro sinistra come strumento di contenimento delle lotte.

A bloccare parzialmente questi tentativi intervenne la vertenza contrattuale dei metalmeccanici iniziata nel maggio 1966, che rivelò una notevole combattività operaia. Usando il Governo come mediatore, la Confindustria propose che si avviasse la trattativa e che gli scioperi cessassero. Le Confederazioni si imposero sui sindacati di categoria e la lotta cessò; tuttavia alla prova dei fatti la Confindustria non fu disponibile alle concessioni promesse. Malgrado ciò non si fu più in grado di riprendere la lotta e l’iniziativa. Da allora la Fim-Cisl iniziò una campagna per far passare un principio che rimarrà nella coscienza e nel metodo di lotta dei lavoratori: la lotta non si sospende anche se si sta trattando e comunque la decisione di sospendere appartiene ai lavoratori ed al sindacato e non può essere oggetto di trattativa. Tale principio fu alla base del successo delle lotte del 1968-1969.

Dopo il fallimento sostanziale della lotta dei metalmeccanici il prestigio delle Confederazioni tra i lavoratori era praticamente ridotto a zero. Malgrado ciò, Confederazioni e Governo di centro sinistra riuscirono a tenere in scacco il movimento operaio, sfruttando la sua incapacità ad intraprendere lotte offensive. Tuttavia, nel febbraio del 1968, quando le Confederazioni accettarono le proposte del Governo sulle pensioni ed andarono a proporle ad una verifica dei lavoratori per iniziativa della Cgil, che si riservò di effettuare una consultazione interna, la risposta fu immediata: nel giro di poche ore la base chiese in sciopero generale. Le grandi lotte erano iniziate.

In realtà esse erano state preparate da rivendicazioni e lotte quali quelle degli attrezzisti della Olivetti e dei tecnici della Snam-progetti e portavano contenuti di tipo nuovo. In seguito alle pressioni della base operaia nei primi quattro mesi del 1968 centinaia di aziende scesero in sciopero, mentre i “preamboli contrattuali” imposti dal padrone ed accettati dai sindacati saltavano. La spontaneità e l’iniziativa della base operaia si imponevano nella condotta delle lotte. In quasi tutte le vertenze aziendali i lavoratori scavalcavano a sinistra il sindacato, mentre profondi conflitti si aprivano fra operai ed organizzazioni sindacali, senza che, tuttavia, si potesse parlare, se non in rari casi, di contrapposizione. L’organizzazione sindacale veniva comunque concepita non come qualcosa di estraneo alla classe, ma piuttosto come un organismo sclerotizzato nei metodi di lavoro e di lotta, chiuso negli schemi organizzativi, restio a recepire le spinte spontanee emergenti dalla classe. Un nuovo tipo di organizzazione si imponeva nella pratica delle lotte: l’organizzazione di base. Nel corso degli scioperi nacquero i delegati, i Consigli di Fabbrica. In assemblea, il superamento delle lotte deciso dall’alto, il boicottaggio ed il sabotaggio. Nella lotta il proletariato riscopriva i livelli di conflittualità espressi nei suoi momenti di scontro più avanzati, li generalizzava, li imponeva.

Malgrado ciò il sindacato seppe recuperare il terreno perduto concludendo e dirigendo vertenze, come ad esempio quella contro le “gabbie salariali”, che pure non aveva iniziato, ma che gli era scoppiata fra le mani per iniziativa di strutture locali, soprattutto meridionali, che imposero nei fatti la vertenza nazionale.

Ma ancor più il sindacato italiano seppe recuperare rispetto all’iniziale sbandamento grazie al fatto di mantenere connotati di classe; ed infatti da un lato accettò nel 1969 che un’assemblea unitaria di attivisti sindacali modificasse le proposte della direzione a proposito della piattaforma rivendicativa, nel senso che invece di aumenti proporzionali ai salari di qualifica (e quindi non perequativi) si chiedessero le quaranta ore settimanali da applicarsi nell’arco di un triennio ed aumenti perequativi superiori per le fasce più basse ed inferiori per quelle più alte; dall’altro sfruttò la propria capacità di condurre e coordinare la lotta a livello nazionale; ed in effetti – nel caso dei metalmeccanici – una lotta di un milione e mezzo di lavoratori divenne agli occhi di tutti l’espressione più alta della coscienza di classe e fece sì che il proletariato tornasse ad identificarsi con il sindacato.

Al tempo stesso il recupero fu reso possibile dalla capacità del sindacato italiano di fare proprie forme  di democrazia di base contenute nelle lotte di quegli anni. L’accettazione del Consiglio di Fabbrica e dell’Assemblea di fabbrica e della sua sovranità comporta infatti che all’immagine tradizionale del sindacato, in cui contano gli iscritti, si sostituisca la massa dei lavoratori che orienta di fatto e determina  in ragione della sua capacità di lotta le scelte e l’unità sindacale.

La democrazia operaia diventa così democrazia sindacale, conquista dell’autonomia della classe nelle rivendicazioni e nelle lotte. È consequenziale dunque che mutino i contenuti delle rivendicazioni e le forme di lotta. Il rapporto di lavoro è visto complessivamente; non si lotta solo per l’aumento salariale, ma si entra nel merito dell’organizzazione e della prestazione del lavoro. Si rompe il rapporto tra paga e rendimento che aveva caratterizzato la politica sindacale per molti anni. Si vogliono gli aumenti, ma al tempo stesso si vuole anche diminuire la fatica e quindi il rendimento. La politica della classe operaia sul salario passa definitivamente da una fase difensiva ad una fase offensiva.

Si rifiuta la monetizzazione del rischio e della nocività e se ne chiede l’abolizione. Si tenta di unificare le voci della busta paga in una unica voce, nell’intento di disincentivare il cottimo. Si lotta per diminuire i ritmi di lavoro alle linee ed alla catena. Si lotta contro il tentativo di eliminare i tempi morti, che sono in realtà periodi di sosta e riposo per gli operai. Si chiedono pause nelle linee, rimpiazzi di lavoro. Questo tipo d rivendicazioni è inscindibilmente legato alla richiesta di forti aumenti salariali, poiché se il salario è basso è difficile se non impossibile impedire la monetizzazione delle condizioni di lavoro più gravose.

Un altro aspetto importante della politica rivendicativa è costituito dalle richieste perequative fra oprai ed impiegati, che tendono da un lato a livellare i salari fra le due categorie e dall’altro a livellarli all’interno delle categorie stesse. In nome dell’eguaglianza la classe operaia abbatte in un solo colpo la job evaluation, introdotta quasi di soppiatto nel 1961.

Per quanto riguarda le forme di lotta, gli scioperi si fanno lunghi e duri, non si sospendono in caso di trattative; si pratica unilateralmente l’autoriduzione dei ritmi di lavoro, soprattutto quando si vuole ottenere dal padrone la riduzione dei ritmi stessi, affermando la “pratica dell’obbiettivo”; si adotta lo stesso metodo di lotta quando si vuole danneggiare il meno possibile il salario ed il più possibile il profitto.

Della forza raggiunta dal movimento operaio in questa fase sono prova da un lato i contratti del 1969 dei metalmeccanici, degli alimentaristi, dei grafici, dei chimici dei cementieri, etc., e dall’altro l’approvazione, il 20 maggio 1970, dello Statuto dei Lavoratori.

Ci preme qui segnalare l’importanza di un tale strumento acquisito dal movimento operaio in fase di attacco e di lotta. Al di là delle garanzie in tema di libertà sindacali, lo Statuto tentava di assicurare alla classe operaia uno strumento di parziale controllo sociale della produzione e della mobilità della manodopera, nel tentativo di ridurre al minimo la propria condizione di instabilità e di incertezza. D’altra parte il bisogno di istituzionalizzare conquiste già acquisite nella pratica, indica che questo è il punto più alto della lotta ed anche, quindi, l’inizio del declino, dapprima lento ed impercettibile, e poi via via più rovinoso.

Infatti negli anni seguenti Governo e padronato si accaniranno a cercare di smontare pezzo per pezzo quest’unica vera acquisizione del movimento operaio sul piano istituzionale, nell’intento di vanificarne il più possibile gli effetti sulla rigidità del lavoro e dell’uso del lavoratore.

 

II.9. L’autunno caldo e la controffensiva padronale

Le lotte del 1968-1969 ebbero il grosso merito di riproporre come elemento centrale del dibattito politico il problema della rivoluzione, dell’abbattimento del sistema capitalistico per un radicale mutamento dei rapporti di produzione. C’è da dire tuttavia che al mutato rapporto di forza nelle fabbriche non corrispose un mutamento nei rapporti di forza nel paese, a causa dell’incapacità o non volontà da parte dei partiti di sinistra di farsi carico dei contenuti di lotta espressi dalle massa ed a causa dell’incapacità delle minoranze rivoluzionarie di offrire ad esse un progetto politico di lungo e medio periodo, un’alternativa credibile di lotta nel quadro di una strategia complessiva.

D’altra parte l’esigenza di uscire fuori dalla fabbrica era sentita dai lavoratori. Se ne fecero interpreti le direzioni sindacali proponendo la lotta per le riforme a partire dalla soddisfazione di bisogni immediati della classe, come ad esempio quello della casa. La prova della partecipazione alla pratica di questi obiettivi ci è data dall’adesione di massa allo sciopero proclamato dai sindacati a Torino nel luglio del 1969, che trovò una larga solidarietà fra la popolazione e che fu fatto proprio dagli operai negli scontri di Corso Traiano, cui fece seguito lo sciopero generale nazionale per la casa del 19 novembre 1969.

Nella pratica di lotta adottata, gli operai facevano proprie le critiche alla politica delle riforme; cercavano cioè, come nella lotta di fabbrica, di far sentire il peso dell’azione dimostrativa al padrone per indurlo a trattare. Il sindacato, invece, da un lato si cullava su supposte alleanze con l’ala avanzata del capitalismo, la quale – si diceva – aveva tutto l’interesse ad evitare disservizi e sprechi; dall’altro non riusciva a trovare forme di lotta che potessero incidere sulla controparte.

Era lontana dalla politica sindacale la consapevolezza che lo sviluppo del capitalismo non è lineare e che quindi esso recepisce, come funzionali al proprio sviluppo, aree di disservizio od “arretrate”, in quanto inquadrate in un ambito di riferimento più generale, e che anzi è lo stesso sviluppo del capitalismo che produce aree di rendita parassitaria, di inefficienza, di strutture produttive obsolete.

Ed infatti l’attacco del padronato non si fece attendere. Da un lato si dette il via alla strategia della tensione con la strage di Piazza Fontana, dall’altro si fece tutto il possibile per trasferire sui prezzi gli aumenti del costo del lavoro, ancor prima che gli aumenti stessi avessero corso e le lotte contrattuali fossero concluse. Inoltre si fece tutto il possibile per ristabilire la “normalità” sul posto di lavoro, ottenendo aumenti di rendimento per ridurre con questo mezzo il costo del lavoro per unità di prodotto. Inutile dire che questa operazione fu sostenuta dalla politica monetaria del Governo e trovò limiti solo nella necessità di contenere gli aumenti delle merci destinale all’esportazione e bisognose di reggere la concorrenza con l’estero.

Malgrado ogni sforzo, l’aumento della produttività tardava a realizzarsi. Il ripristino dell’ordine in fabbrica trovava dei grossi ostacoli negli strumenti di democrazia operaia che la classe si era dati. L’iniziativa sindacale era assente, prova ne sia la tiepida resistenza opposta al “decretone” del 1970 con cui il Governo avviò la politica recessiva.

Ma con l’autunno del 1970 l’iniziativa operaia riprendeva vigore e cadevano le residue speranze degli industriali di recuperare a breve termine il comando sulla forza lavoro. Diveniva altresì chiara sempre più l’inconsistenza dell’uso politico del centro-sinistra come strumento di contenimento delle lotte.

La lotta operaia prese dunque un grande slancio ed i vertici sindacali non si opposero, tentando tuttavia di guidarla. Il Pci, in particolare, vedeva in queste spinte un ulteriore scossone all’equilibrio di potere esistente e ne concludeva che da un indebolimento del quadro politico risultava esaltato il proprio ruolo democratico e costituzionale. Il Pci era conscio, inoltre, che dopo gli errori già compiuti con il movimento studentesco era politicamente più conveniente cavalcare la tigre della lotta operaia, cercando di ricondurla nell’alveo di una strategia di partito. È in questa fase che esso riprende a riannodare i fili del partito col sindacato, dopo i colpi che le minoranze rivoluzionarie avevano portato negli anni sessanta, che erano culminati nell’esplosione del 1968-1969, e che avevano registrato un Pci isolato fra gli studenti e sulla difensiva nelle fabbriche. Sul fronte della lotta di fabbrica intanto le richieste andavano in direzione esattamente opposta a quella desiderata dai padroni. Si chiedeva la rigida applicazione delle quaranta ore, il rigido controllo dello straordinario, l’abolizione del turno di notte, misure preventive del rischio con il rifiuto di eseguire lavori nocivi, gravosi, pericolosi. Si teneva duro contro la richiesta di una maggiore utilizzazione degli impianti, avanzata dagli industriali, sostenendo l’indisponibilità ad una diversa distribuzione dell’orario. Si moltiplicavano le richieste relative alle qualifiche, cercando di giungere alla parificazione tra operai ed impiegati. L’obiettivo era quello dell’unificazione degli interessi dei lavoratori, abolendo la divisione tra operai professionali specializzati e qualificati, operai comuni, addetti alle linee ed alle catene, ai lavori ripetitivi e parcellizzati, ed impiegati.

Alle vertenze individuali o di gruppo per il passaggio di categoria, si sostituì la richiesta di abolizione delle categorie inferiori, si richiese di considerare la terza categoria operaia (quella degli operai comuni) come una categoria di “parcheggio”, in attesa di un passaggio automatico a quella superiore dopo un certo periodo. Le vertenze aziendali su questi temi aprirono la strada all’inquadramento unico (classificazione che comprende insieme operai, figure intermedie tra operai ed impiegati, impiegati), alla trasformazione della paga operaia da settimanale in mensile, alla mobilità verticale (passaggio dalle categorie inferiori a quelle superiori).

Il padronato si trovava di fronte ad un fatto nuovo: dopo la conclusione di contratti importanti come quelli del 1969-1970, la pace non tornava nelle fabbriche ed anzi si assisteva ad un inasprimento delle lotte.

Il Governo di centro-destra Andreotti-Malagodi scelse, per piegare la resistenza operaia, lo strumento dell’inflazione selvaggia, colpendo duramente il potere di acquisto delle categorie a reddito fisso. Così anche la piccola borghesia veniva colpita in misura notevole, si cominciava ad incrinare il rapporto fra Dc e ceti medi. Il capitale era diviso sulla strategia da seguire per uscire dalla situazione creatasi ed al tempo stesso beneficiava degli effetti momentanei di una precaria ripresa alimentata dalla dinamica inflattiva.

L’industria di Stato che agli inizi degli anni sessanta era stata il centro della ristrutturazione ed aveva aiutato gli industriali nell’adozione di un nuovo assetto dei rapporti di lavoro non riesce, in questa fase, a svolgere tale ruolo a causa dell’altissima conflittualità presente nelle sue aziende guida (Alfa Romeo, Sit-Siemens, Italsider) e dell’onerosità delle richieste operaie. Tocca allora alla Confindustria prendere l’iniziativa, infatti con il contratto dei metalmeccanici del 1972 si cerca di rimettere ordine nelle relazioni tra capitale e lavoro: regolando l’attività contrattuale si tende a ridurre la conflittualità al momento del contratto.

Gli industriali chiedono:

  1. la regolamentazione dei Consigli di Fabbrica;
  2. il ristabilimento della mobilità della forza lavoro nella produzione;
  3. misure contro l’assenteismo operaio in fabbrica.

Rispetto al punto a) in cambio di un riconoscimento formale dei Consigli di Fabbrica si chiedeva di renderli meno sensibili alle spinte operaie grazie all’ala “moderata e ragionevole” del sindacato. Si voleva in sostanza che i Consigli di Fabbrica fossero espressione delle burocrazie sindacali piuttosto che espressione diretta della base operaia. Questa tesi trovò, come è ovvio, alleati all’interno delle Confederazioni, ed è perciò che dopo molte insistenze ebbe parziale applicazione una regolamentazione che prevedeva di non far eleggere liberamente i delegati su liste aperte, ma di imporre per ciascun sindacato un certo numero di rappresentanti[15].

Rispetto al punto b), tendente ad assicurare la mobilità della forza lavoro a discrezione degli industriali, si faceva rimarcare che la richiesta veniva fatta per realizzare una piena utilizzazione degli impianti. Pertanto una minore rigidità nell’attuazione dell’orario ridotto, la possibilità di effettuare straordinari e quella di modificare la distribuzione settimanale ed annuale dell’orario di lavoro, venivano richieste come necessità inderogabili. Gli effetti erano, reintroduzione dei turni, anche notturni, lavoro il sabato ed eventualmente anche la domenica, utilizzazione dei periodi di ferie o di festività. Ciò che in realtà si voleva era di poter disporre in qualsiasi momento della forza lavoro, prolungando o diminuendo l’orario  in funzione antioperaia.

Per quanto riguarda il punto c), la campagna contro l’assenteismo finì presto per assumere i toni e le caratteristiche di una crociata, mentre il sindacato si affannava a cercare di dimostrare, allora, che l’assenteismo era frutto della monotonia e della durezza del lavoro e non della cattiva volontà operaia. Ancora una volta, in realtà, gli industriali coglievano il tratto qualificante delle lotte operaie ed attaccavano, attraverso le lamentele sull’assenteismo, il rifiuto operaio del lavoro che si era affermato e generalizzato.

 

II.10. Si chiude un ciclo di lotte

La risposta a quest’attacco venne attraverso una crescita lenta ma ininterrotta della lotta dei lavoratori metalmeccanici, che fu accompagnata da un rafforzamento unitario nella categoria e da una forte e sempre crescente solidarietà delle altra categorie dei lavoratori dell’industria, che coglievano la portata politica generale dello scontro in atto. Il padronato da parte sua, vedeva gradualmente crollare gli appoggi su cui aveva puntato all’interno del sindacato. I settori favorevoli ad un accordo restavano minoritari e, dal canto suo, il Governo – certamente debole – non riusciva a fornire l’aiuto necessario. Malgrado ciò, nel gennaio del 1973 la Confindustria ruppe improvvisamente le trattative, sperando di spezzare il fronte di lotta. La risposta fu l’intensificazione della lotta e l’adozione di forme differenziate ed a volte più efficaci di mobilitazione. Ad esempio, in marzo gli operai della Fiat, di fronte alla tattica dilatoria degli industriali tendente a logorare la resistenza operaia, praticarono due giorni di “occupazione” o “presidio” della Mirafiori, inducendo così Giovanni Agnelli, Presidente della Confindustria e della Fiat a concludere.

La lezione per gli industriali fu che le prove di forza si tentano con alle spalle un Governo forte, capace di imporsi come mediatore nelle trattative, disponibile a piegare la resistenza operaia e non con un Governo debole, la cui composizione anziché  dividere il fronte dei lavoratori, spaccare all’interno il sindacato, ne rafforza l’unità in nome della lotta alla Dc ed alla destra. È per questo che dopo qualche mese il discorso di Berlinguer sul “compromesso storico” trovò interlocutori attenti e preparati.

Comunque il contratto che scaturì da queste lotte, pur provenendo dal livello più avanzato di combattività espresso negli ultimi decenni, segnò, nel concreto, la prima grossa sconfitta (sebbene non evidente sul momento) e rappresentò l’inizio di un ribaltamento dei rapporti di forza, destinato a portare alla situazione attuale. Da un lato il padronato aveva intuito i punti salienti su cui colpire, dall’altro il sindacato proprio su quei punti era disposto a cedere. Se infatti la regolamentazione dei Consigli di Fabbrica non passò. Proprio in occasione della preparazione della bozza di piattaforma per il contratto dei metalmeccanici si verificò il primo grosso esempio di attacco alla democrazia di base nel sindacato; l’ipotesi di piattaforma scelta dai delegati dei Consigli di Fabbrica a Genova non fu quella con cui il sindacato si presentò alla trattativa con la controparte. Fu così che, accanto a risultati non previsti e che non scaturivano da richieste di base, come le 150 ore, il cui alto potenziale fu subito vanificato dall’incapacità di gestione da parte del sindacato che le usò quasi solo allo scopo di recupero dell’obbligo, il contratto registrò una notevole battuta di arresto: scaglionamento degli oneri per le piccole imprese, che dava il via al mito del piccolo imprenditore, cardine dello sviluppo economico italiano, che doveva essere aiutato nel momento di crisi; nessuna richiesta di diminuzione dell’orario di lavoro (salvo che per le lavorazioni a ciclo continuo); aumenti salariali che, per ammissione stessa di Luciano Lama, non andavano a coprire l’erosione dell’inflazione. Così, mentre con il primo punto si attaccava la capacità contrattuale dei Consigli di Fabbrica, si perdeva sui punti nodali, sulla vertenzialità aziendale, su occupazione e salario. Anche la battaglia sull’inquadramento unico, unico punto qualificante della piattaforma pur vincente formalmente, fu vanificata nei fatti con l’accettazione di un numero eccessivo di livelli che impediva in pratica la sovrapposizione tra quelli operai e quelli impiegatizi.

Nella stessa primavera del 1973 i lavoratori dovevano rendersi conto nei fatti che le loro conquiste erano già in buona parte riassorbite. L’inflazione tagliava i redditi da lavoro dipendente; il nuovo Governo di centro sinistra, retto da Rumor, giocava sulla nuova ostilità tra Psi e Pci per ottenere delle tregue, per impedire che i lavoratori cercassero, con la lotta, di ripristinare il potere di acquisto del salario. Inutilmente il sindacato aveva cercato. Già a partire del 1972, di introdurre nella sua politica rivendicativa elementi che avrebbero dovuto condizionare il quadro politico e gli investimenti, sia con la lotta per il mezzogiorno, sia cercando di strappare negli stessi contratti impegni di spesa concordati da parte del padronato. Gli strumenti di pressione per rendere praticabili queste scelte si rivelarono inesistenti.

 

II.11. Gli effetti della politica della crisi

L’incongruenza di questa politica affiora in modo evidente con l’attacco che le multinazionali energetiche ed il governo Usa sferrano contro le economie dei paesi industrializzati, con l’obiettivo di riequilibrare la bilancia dei pagamenti statunitense e ridare competitività ai propri prodotti sul mercato internazionale. L’attacco si basava sul controllo e la detenzione delle fonti energetiche e delle materie prime di cui disponevano gli Usa. Inoltre esso permetteva, mediante un rincaro delle materie prime ed attraverso l’embargo petrolifero di mettere in ginocchio le economie dei paesi europei e del Giappone, basate sulla fase di trasformazione del prodotto e su di una politica di accesso alle fonti energetiche a bassi costi. Il risultato fu la ridotta competitività delle merci, soprattutto europee, sul mercato internazionale[16].

L’economia italiana fu colpita in questa fase in modo particolare, perché basava la sua attività sulla trasformazione primaria ed aveva di conseguenza bisogno di grosse quantità di energia oltre che di materie prima. È perciò che fu massiccio il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni ed il movimento sindacale cercò in tutti i modi di parare i colpi correndo dietro ai “salvataggi” – senza piani organici di riferimento – una politica di finanziamenti, a fondo perduto e senza sostanziali garanzie, delle imprese, pur di mantenere ad un livello il meno drammatico possibile la disoccupazione.

Dall’avvallo senza condizioni ai finanziamenti dello Stato ad una politica di disponibilità che ponesse fine alla conflittualità aziendale, all’assenteismo, alla rigidità della forza lavoro, il passo fu immediato. Il sindacato si trasformò in garante dell’affezione operaia al capitale senza alcuna contropartita. Da parte loro il Governo ed il capitale risposero con un’inflazione che erose in maniera sempre crescente i salari operai.

Gli anni 1974-1975 sono costellati di fabbriche occupate per garantire il posto di lavoro e vedono la disoccupazione e gli investimenti diminuire, con un restringimento sempre maggiore della base produttiva. Il sindacato si batteva per una politica di contenimento dell’attacco padronale, per il rilancio degli investimenti, soprattutto al sud, per la minimizzazione della smobilitazione industriale, per la messa a punto di programmi organici per il rilancio dell’economia. In questo quadro si svilupparono lotte che tuttavia rimasero isolate, mancando l’inserimento in una strategia complessiva che permettesse loro di essere vincenti. Sul piano dell’occupazione si verificò una prima fase di licenziamenti che colpirono soprattutto avanguardie di fabbrica.

È il momento dello sviluppo sempre maggiore dell’autonomia. Di fronte all’inefficienza della lotta sindacale, si sviluppano e si generalizzano a livello di massa aggregazioni autonome, collettivi, che conducono un’azione radicale di risposta operaia alla crisi. Tuttavia anche questa azione resta priva dei necessari collegamenti tra settori produttivi ed aree geografiche, il che costituisce una delle cause maggiori del fallimento. Ben presto i collettivi autonomi, od almeno molti di essi, si trasformano in gruppi politici caratterizzati da una precisa ideologia, fatto questo che contribuisce a restringere, e spesso ad annullare, il carattere “sindacale” e di lotta sul posto di lavoro di questi organismi.

La frustrazione, la disperazione per questi fallimenti spinsero alcuni ad intraprendere la strada della risposta armata e violenta all’attacco del capitale.

Già nel 1976, mentre il movimento operaio ed il sindacato rimangono sulla difensiva, il capitale riesce a conseguire i primi sostanziosi risultati. Raffrontando i dati con il 1975 si vede infatti che, mentre l’incremento della produzione è del 25%, l’inflazione è salita del 22% ed il Prodotto Nazionale Lordo del 3%. Al tempo stesso l’aumento della produttività è stato del 23,4%. Contemporaneamente la politica monetaria della Banca d’Italia ha stimolato la tendenza deflazionistica del sistema economico italiano, riuscendo a portare in attivo la bilancia dei pagamenti nel novembre del 1976. questi dati ci dicono che i primi importanti risultati sono stati acquisiti dal capitale internazionale, grazie ad una crisi indotta da ristrutturazione.

Gli obiettivi raggiunti si possono così sintetizzare:

  1. restringimento della base produttiva con due effetti: 
    1. riduzione della resistenza operaia mediante la chiusura stessa della fabbrica, agglomerato operaio che produce lotte; 
    2. riduzione del salario attraverso un processo inflazionistico selvaggio;
  2. decentramento produttivo accompagnato da una massiccia reintroduzione del lavoro nero, ripristino della mobilità della forza lavoro e del lavoro precario;
  3. incremento della produzione mediante l’adozione di nuove tecnologie, ritmi più alti, controllo statistico della produzione, introduzione massiccia nella produzione di robot di varia complessità con il compito di determinare tempi e caratteristiche del lavoro;
  4. ottenimento dell’incremento degli straordinari e conseguente aumento della produttività, attraverso lo spettro della disoccupazione e l’aumento del costo della vita, caduta verticale dell’assenteismo[17].

Come abbiamo visto, gli obiettivi che la classe padronale si era proposti nella primavera del 1973 vengono finalmente realizzati dopo aver piegato la resistenza del proletariato. In questo processo un ruolo importante viene svolto dal Pci e dal controllo che esso esercita sul sindacato. Già nel 1973, dopo il colpo di Stato in Cile, Berlinguer enuncia la teoria del “compromesso storico”, giungendo alla conclusione che per governare occorre molto più del 51% dei voti ed ipotizzando l’accordo con la Dc. Questo processo subisce un’ulteriore accelerazione dopo le elezioni del 29 giugno 1975, che vedono i suffragi  polarizzati attorno a Dc e Pci. Dopo travagliate trattative si giunge ad una formula di Governo con l’appoggio esterno del Pci, che tuttavia ha bisogno di un passo decisivo per porre definitivamente la propria candidatura a partito di Governo con piena responsabilità. È per questo che, sul finire del 1977, esplode la crisi di Governo e, nel momento più delicato delle trattative, il Pci può offrire sull’altare dei sacrifici il controllo da parte del sindacato della conflittualità operaia (Eur).

Se il momento di concretizzazione di questa svolta giunse quanto mai opportuno e tempestivo, occorre tuttavia dire che esso fu il frutto di un lungo e travagliato dibattito all’interno del movimento operaio e del sindacato, infatti già con i Congressi della primavera del 1977 i sindacati avevano imboccato in maniera convergente la strada dell’autolimitazione e delle concessioni unilaterali e, abbandonando la politica dei “due tempi”, avevano fatto propria l’ideologia della “ricchezza della nazione”, formulando e supponendo l’esistenza di “superiori interessi nazionali” contrapposti ai bisogni materiali della classe, definiti egoistici, individualistici, corporativi, ed avevano approntato un’analisi della crisi che andremo ad esaminare dettagliatamente.

 

II.12. Analisi della “crisi” e strategia dell’Eur

I punti principali dell’analisi fatta dal sindacato[18] individuavano le cause che hanno determinato la “crisi” nel crollo del sistema di scambio a livello mondiale, crollo che ha privilegiato di fatto l’estrazione delle materie prime rispetto alla loro trasformazione. Ciò avrebbe reso possibile un prepotente inserimento dei paesi del Terzo Mondo (detentori appunto delle materie prime) all’interno degli equilibri economici, determinando così un mutamento sostanziale di detti equilibri a livello  internazionale, a favore dell’affermazione e della gestione di uno spazio economico che garantisse a questi paesi un superamento della propria struttura produttiva arretrata ed il loro inserimento nel gioco dei paesi a capitalismo avanzato.

Tutto ciò veniva visto positivamente dal sindacato e cioè come un’opzione di sviluppo grazie al ruolo propulsivo che i paesi del Terzo Mondo sarebbero venuti ad esercitare. In questa ottica sarebbe stato compito dell’Italia ricoprire la domanda (di strumenti tecnici, di personale specializzato, di mezzi di produzione) che doveva provenire da questi paesi, contribuendo così, in modo determinante, al loro processo di sviluppo ed al raggiungimento dell’indipendenza economica. Compito del sindacato era quello di incentivare l’occupazione e la produzione indirizzata a soddisfare i mercati dei paesi a capitalismo arretrato (Africa, etc.), per venire incontro alle esigenze di una più equa distribuzione delle risorse tra le varie aree del pianeta.

A distanza di anni, è evidente che l’analisi era quanto mai arretrata[19]; la prospettata ascesa dei paesi del Terzo Mondo non si è verificata, anche perché questi paesi hanno in gran parte svolto il ruolo di assorbimento di lavorazioni nocive, altamente energy intensive e labour saving, ruolo per il trentennio precedente svolto dal nostro paese. L’Italia ha dovuto conquistarsi spazi nei mercati internazionali tradizionali, rincorrendo una equiparazione tecnologica e comprimendo i costi del lavoro, ed in questa linea la propensione ai sacrifici mostrata all’Eur dal sindacato italiano ha offerto un ottimo punto di appoggio, che, lungi dal tendere a riequilibrare ingiustizie secolari tra paesi poveri e paesi ad alto consumo, ha permesso la ricostituzione di ampi margini di profitto. In realtà più che un’analisi della crisi, quella del sindacato era un avallo esplicito ad un progetto, pur esistente, che vedeva l’Italia con una rigida collocazione nella divisione internazionale del lavoro, quella di paese più ricco del Mediterraneo e meno sviluppato della Cee, e quella di fiduciaria degli Usa nell’area mediterranea con il contraccambio di un mercato privilegiato in essa. La strategia sindacale più che rispondere ad esigenze di giustizia ed equità, tendeva a fortificare questa prospettiva, puntando ad un ruolo dell’Italia tipicamente subimperialistico (caratterizzante in questo senso la proposta di scambio tra materie prime e tecnologia), e non a caso l’Italia era detta la “Bulgaria della Nato”.

Si è verificato invece che la crescita delle trasformazioni di base nei paesi terzi ha creato un mercato di infrastrutture che ha attirato molti interessi (Francia in particolare), il che ha facilitato le spinte di quella parte del padronato che puntava ad una differenziazione della produzione, con accesso a livelli alti di tecnologia e conseguente inserimento anche nei mercati dei paesi a capitalismo avanzato, senza perdere di vista le promettenti aperture nei paesi terzi.

Resta comunque il fatto che la strategia dell’Eur si basava su di un’analisi della “crisi” tutta subalterna e che nasceva dall’utopia che sviluppo economico e benessere sociale fossero correlati, mentre gli squilibri interni ai paesi che hanno conosciuto un relativo decollo si sono tutt’altro che smorzati. Anzi a volte l’importazione di tecnologia, ben lungi dal costituire fattore di progresso economico e sociale, si rivela essere un potente mezzo per il mantenimento del potere da parte di oligarchie reazionarie ed un fattore essenziale del depauperamento dell’ambiente a favore di pochi ceti privilegiati e delle multinazionali.

Ma ancora più gravi dovevano essere i riflessi della strategia dell’Eur per le distorsioni che essa ha portato nella visione del ruolo del sindacato. Le organizzazioni sindacali venivano assumendo sempre più marcatamente una funzione di supporto delle istituzioni intese quali strutture al di sopra delle parti, ed anzi finendo per divenire esse stesse istituzioni dello Stato; tutto ciò, in sintonia con quello che è stato definito il “sindacato dei collegi”, cioè con la presenza sempre più massiccia di uomini provenienti dalle file dal sindacalismo, e dai sindacati stessi designati, nelle strutture amministrative dello Stato; tale presenza è valutabile in circa 28.000 sindacalisti e questa cifra è indicativa di quanto profondamente si sia venuta consolidando l’integrazione fra Stato e sindacato.

 

II.13. Contenuti rivendicativi della strategia sindacale

Di fronte ai problemi posti dalla crisi economica del paese, il sindacato, primo tra gli altri la Cgil, va verso una politica salariale caratterizzata da una struttura del salario uniforme “che assicuri la trasparenza e l’onnicomprensività, che si basi su un numero uguale di mensilità e su voci retributive definite e similari”. Questo indirizzo di politica generale viene giustificato nel quadro di una linea politica tendente all’uniformazione delle categorie, ed all’eliminazione quindi di privilegi, per la costituzione di un tessuto di classe il più possibile omogeneo. Questa politica viene parzialmente individuata nella trasformazione dell’istituto degli aumenti periodici di anzianità “in modo da ridurre progressivamente il peso dell’anzianità  sul salario complessivo a livello di una percentuale  attorno al 20-25% e raggiungibile in un periodo di circa 10 anni per anzianità di lavoro”. Questa misura nasconde in realtà la tendenza comune ai paesi capitalistici di andare verso aumenti salariali non automatici, ma legati alla produttività del lavoro. Tuttavia “la modifica della struttura del salario così definita e le misure di conglobamento della contingenza pregressa e la graduale vanificazione dello stipendio base devono essere effettuati in modo da consentire una ricostruzione del ventaglio parametrale affinché il salario di fatto sia corrispondente ai valori professionali[20]. Si realizza così un’inversione di tendenza che punta ad allargare la forbice retributiva a seconda del rendimento sul lavoro e del grado di professionalità. Si rivaluta così il ruolo professionale all’interno del pubblico impiego anche se attenuato dalla ventilata istituzione delle fasce funzionali, vero cardine di modificazione della struttura del settore per un migliore funzionamento dell’apparato burocratico dello Stato e verso la creazione di livelli retributivi con fasce di mansioni ampie rispetto alle retribuzioni più basse e rigidamente definite rispetto a quelle più alte.

In pratica mentre si uniformavano gli stipendi dei lavoratori del pubblico impiego permettendo la mobilità massima e l’intercambiabilità nelle funzioni, si staccavano le fasce dirigenti elevate a livelli retributivi extracontrattuali (ad esempio, parametro 825 per dirigenti, professori universitari di ruolo, etc.).

Ma il vero attacco alla struttura del salario, al fine di eliminarne gli “aspetti perversi”, avviene a proposito delle indennità di anzianità, quiescenza e buonuscita. “Tale istituto risulta profondamente modificato nella sua funzione delle conquiste in materia pensionistica e dall’esigenza di pervenire a trattamenti complessivi di fine lavoro perequati.

“Salvaguardando i benefici acquisiti e maturati il dibattito ha proposto di trasformare tale istituto in modo da computarlo per anzianità di lavoro su un numero di mensilità non inferiore a 10/12, definendo  nuovi criteri per la loro maturazione e possibilità di utilizzo nel corso della vita di lavoro. Sono emerse talune preoccupazioni in riferimento al carattere dell’anzianità di lavoro, in relazioni ai problemi di aggravio reale del costo del lavoro e degli strumenti di gestione del fondo necessario[21]. Tuttavia anche i sindacati non hanno chiari i modi con cui trasformare ed utilizzare le quote di anzianità eccedenti e comunque non si voleva, in questa fase, scoprire completamente le carte della politica sindacale.

Le linee qui sinteticamente esposte – dopo la verifica dei tre Congressi sindacali e dell’Assemblea dell’Eur, che per altro ha visto una consultazione della base a volte scarsa, a volte inesistente, a volte volutamente distorta – sono state ribadite a conferma di quel processo di centralizzazione della definizione e della gestione delle politiche contrattuali e rivendicative già avviato con la vertenza sulla scala mobile. Per quanto riguarda poi alcuni dei temi centrali, si sono avute puntualizzazioni e conferme. Infatti sulla mobilità si è ribadita con forza l’accettazione della legge n. 675/76 sulla riconversione industriale; ciò voleva dire andare a gestire in posizione subordinata le scelte padronali, la mobilità dei lavoratori ed il loro eventuale, quanto improbabile, reimpiego. Per il costo del lavoro è stato per anni riconfermato lo scaglionamento e l’autocontenimento delle richieste salariali, sulla scorta della ormai famigerata affermazione di Lama che “[...] il salario non è una variabile indipendente ed il suo livello attuale è troppo elevato rispetto alla produttività[22]. Pertanto era necessaria la massima centralizzazione delle politiche rivendicative, il blocco della contrattazione aziendale e dell’autonomia contrattuale delle categorie, al di là delle ammissione di principio sulla sacralità di questo diritto dei lavoratori.

Una tale politica poteva passare, come abbiamo visto, solo attraverso una radicale riforma del salario sulla base dei criteri che abbiamo prima sommariamente esposto e sostanzialmente tendenti ad incidere sui cosiddetti automatismi e quindi sugli scatti di anzianità, a vantaggio di criteri retributivi basati sulla professionalità e sulla produttività[23]. D’altra parte già l’anno precedente i sindacati avevano iniziato a perseguire questa linea di cedimenti in cambio di vaghe promesse di ripresa degli investimenti e di nuova occupazione. Con l’accordo sul blocco della contingenza sulle liquidazioni, giustificato con la necessità di creare la liquidità occorrente alle aziende per nuovi “investimenti produttivi”, si iniziava un regalo senza reali contropartite al padronato che non avrebbe mai dato gli effetti propagandati. A distanza di cinque anni, in assenza della seppur minima ripresa dell’occupazione, il sindacato ha tenuto ancora fede a quell’accordo, contribuendo a vanificarne il tentativo di cancellazione in una situazione in cui esso rivelava tutta la sua assurdità.

Il risultato fu che, mentre si puntava alla perequazione degli automatismi ed al salario annuo, in realtà si allargava il ventaglio parametrale, si riduceva il salario indiretto senza allargare quello diretto, indebolendo così la posizione di quei lavoratori impiegati in aziende deboli dove la contrattazione di fabbrica non permetteva di supplire alle gravi sperequazioni. Avveniva così che obiettivi apparentemente corretti, quali quelli della riduzione delle sperequazioni tra le categorie, dell’attenuazione dei sistemi di automatismo, del recupero dell’egualitarismo venivano funzionalizzati ad una politica di attacco alla rigidità della forza lavoro, ad una politica di subordinazione del salario al profitto.

Va rilevato infine che elemento costante del dibattito dei tre Congressi e dell’Assemblea dell’Eur era stato il problema della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Da più parti (Confindustria ed alcuni ambienti sindacali) una partecipazione veniva proposta col doppio fine di ammortizzare quote di salario attraverso l’emissione di quote di partecipazione azionaria e di coinvolgere il lavoratore nella cogestione dell’azienda attraverso un progetto di graduale trasformazione del sindacato stesso in Italia. Questo progetto per passare aveva bisogno di una profonda e radicale ristrutturazione organizzativa del sindacato, il cui schema, per quanto riguarda la Cgil, venne tracciato nei lavori della prima commissione del Congresso Generale a Roma il 7 dicembre del 1977.

 

II.14. Obiettivi della ristrutturazione organizzativa del sindacato

Il progetto, messo a punto da V. Zuccherini e R. Scheda, prevedeva “[...] un processo di vasta e profonda trasformazione delle strutture e del funzionamento del sindacato”, al fine di mettere in atto “[...] nuovi orientamenti di sviluppo, capaci di affrontare – attraverso linee di programmazione partecipata – i mali cronici della nostra economia e della nostra società a partire dall’occupazione e dal Mezzogiorno”. Si trattava di “[...] saper realizzare nei vari momenti una giusta saldatura, una compenetrazione fra azione nei luoghi di lavoro, azione categoriale e intercategoriale, azione per i piani di settore e azione nel territorio [...] al fine di fare fronte alle spinte spontanee del categorialismo e alle chiusure corporative”.

I punti fondamentali di attacco per tale processo di trasformazione organizzativa sono costituiti dalle Cgil regionali e dalle strutture unitarie di zona. In corrispondenza con il fatto che le regioni costituiscono uno dei cardini di una diversa politica economica programmata è necessario che le Cgil regionali (e possibilmente le federazioni regionali Cisl e Uil) [...] assumano una funzione di direzione delle politiche sindacali nella regione acquisendo strumenti, funzionamenti e poteri corrispondenti a tale scopo”.

Dopo aver ribadito la necessità di andare ad un effettivo funzionamento dei Consigli di Zona si riteneva necessario puntualizzare: “Vanno superate tendenze vanificanti che nella pratica mirano a riservare alle organizzazioni di settore l’azione nel posto di lavoro e la contrattazione e alle strutture di zona le cosiddette tematiche sociali, recuperando invece anche l’iniziativa nella fabbrica per i suoi problemi complessivi nella politica del territorio e rivitalizzando in tale quadro la stessa funzione dei Consigli di Fabbrica”. La zona doveva divenire così lo strumento di direzione della stessa lotta in fabbrica e “[...] uno strumento di unità delle categorie, di aggregazione tra occupati e disoccupati, lavoratori precari, studenti e altri strati sociali”. Il puntare sulle zone faceva sì che “[...] il ruolo e di conseguenza l’apparato delle Ccdl siano aggiornati, ridimensionati, rapportati principalmente a compiti di coordinamento”.

Di pari passo con un ridimensionamento delle Ccdl si impone una revisione degli attuali sindacati provinciali concentrando anche in tal caso le funzioni primarie di direzione nelle organizzazioni regionali di categoria e nelle strutture di zona. In sostanza le attuali strutture camerali vanno riviste e suddivise per quartiere evitando aggregazioni mastodontiche[24].

Cosa in realtà nascondesse questa propensione sviscerata al decentramento, questo amore improvviso per il sempre avversato Consiglio di Zona, questa scoperta della realtà regionale lo rivelò lo stesso Scheda nell’intervista rilasciata a “Il Mondo” del 19.IV.1978, nel corso della quale egli affermava che, poiché “[...] nel sindacato si è accentuata la tendenza a spostare l’asse della propria azione dalle politiche salariali e contrattuali a quelle che più in generale riguardano il cambiamento della società, adesso cerchiamo di adeguare l’organizzazione a questa realtà”. Tuttavia Scheda ammetteva che molte cose erano ancora da definire, per cui si era dato mandato alle strutture regionali di presentare propri piani operativi. Ciò che invece era chiaro era il funzionamento dei Consigli di Zona, chi avrebbe potuto parteciparvi e chi li avrebbe diretti. Affermava Scheda: “non credo sia possibile fare dei Cdz aperti a tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato. I Consigli funzioneranno sul doppio binario di rappresentanza delle categorie e del territorio, in modo appunto che la direzione rispecchi la realtà economica e sociale della zona. Sarà anche una occasione decisiva di raccordo con i Consigli di Fabbrica, l’occasione per un loro arricchimento perché escano dalla rigida realtà dell’azienda”. Per far funzionare tutto ciò sarebbero stati utilizzati i sindacalisti esistenti che provenivano dalle Camere del Lavoro ed altri ne sarebbero stati presi dalle fabbriche, perché “[...] dobbiamo tirarli fuori [dalle fabbriche] e impegnarli nelle zone[25].

Se a questo si aggiunge che, parallelamente, nelle fabbriche dalla nomina del Consiglio di Fabbrica  su scheda bianca si stava passando alla trasformazione di questo strumento in Ras (Rappresentanza Aziendale Sindacale) eletta dai soli iscritti al sindacato e nominata proporzionalmente al numero di iscritti alle varie Confederazioni, il panorama è completo. La realtà è che gli strumenti di democrazia operaia, nati nelle grandi lotte del 1968-1969, risultavano incompatibili strutturalmente con una linea politica come quella che si veniva configurando nelle organizzazioni sindacali, che mirava alla riduzione in assoluto della conflittualità extracontrattuale, alla fine delle vertenze aziendali che avessero implicazioni con il salario, in altre parole, al contenimento dei salari e della conflittualità. Perciò, quale migliore occasione per cercare di distruggerli che agire in nome e dietro esigenze, per altro giuste, di coordinamento ed ampliamento delle lotte?

Se si tiene conto della contemporanea distruzione dei sindacati di categoria, si intravede il disegno politico che, dietro il trasferimento dei poteri alle zone ed alle regioni, si preparava. Si ebbero, d’altra parte, dei tentativi di risposta da parte della classe ed al suo interno dalle avanguardie. Una prima prova fu nella riunione di Roma del 19 aprile, che doveva segnare un primo momento di verifica del processo in atto.

Emerse in modo chiaro la critica delle categorie all’inesistenza di un anello intermedio fra zone ed istanze regionali, che permettesse di mantenere i contatti con la base. Si ribadì che “[...] è giusto che la Confederazione come tale sviluppi il suo ruolo a livello territoriale attraverso i Consigli di Zona, ma non ci sembra un salto di qualità l’eliminazione delle strutture di zona delle categorie. Di fatto ci allontanano dai lavoratori”. (Intervento di Mario Quattrucci, segretario nazionale tessili). Fausto Reggiani, segretario dei chimici, rincarò la dose, facendo notare che “[...] l’importanza che le categorie hanno assunto non si può negare da un giorno all’altro”. Ancora più dura fu la Flm: “La sintesi fra la funzione contrattuale e quella politica del sindacato si opera facendo partecipare i Consigli di Fabbrica a tutta la vita dell’organizzazione, all’intervento politico a tutti i livelli. O l’asse della ristrutturazione è questo o si costringeranno i Consigli ad una dimensione asfittica, a chiudersi nella fabbrica con contraccolpi ancora più gravi di quelli subiti finora.”

Nonostante le notevoli perplessità presenti nella Cgil, questo sindacato procederà nel perseguimento dei suoi obiettivi, anche se le sue posizioni dovranno trovare una mediazione con quelle della Cisl al Convegno di Montesilvano di Pescara del 1979 sulle strutture organizzative del sindacato[26].

Ma il 1978-1979 furono anche gli anni dell’esplosione di dure lotte in alcuni settori del Pubblico Impiego (ospedalieri, controllori di volo, precari della scuola). Fu l’ultima ventata di autonomia di settori di classe che chiuse veramente un ciclo di lotte, e l’ultima speranza dei gruppi rivoluzionari, che elaborarono subito una teoria sulla proletarizzazione dei ceti medi e sulla centralità del Pubblico Impiego nel processo di valorizzazione delle merci quale produttore di servizi. In realtà le lotte, molto determinate e che assunsero forti toni antisindacali, restarono isolate ed andarono incontro a pesanti sconfitte[27]. Il sindacato, in un primo momento tagliato fuori, recuperò in seguito sulle ceneri del movimento. Il mito del settore guida ed avanguardia aveva fatto nuove vittime e nuova terra bruciata, come già due anni prima nelle lotte studentesche. Il fuoco covava sotto la cenere, ma nei settori tradizionali della classe operaia, troppo prematuramente dati in via di estinzione, grazie ai non morti strumenti di democrazia di base.

Tale esplosione di lotte nel Pubblico Impiego nasceva come reazione ad una forte compressione salariale, compressione presente in tutte le categorie; ma mentre quelle operaie cominciavano a pagare intensamente il peso della ristrutturazione con licenziamenti collettivi e Cig, nel Pubblico Impiego era presente ancora una fascia consistente di nuovi assunti, frutto della precedente espansione dei servizi. Non si riuscì a legare la lotta categoriale ad obiettivi più  generali ed i riformisti ebbero buon gioco ad isolarla agli occhi di una classe operaia sulla difensiva.

I sindacati confederali preparavano già la strada della sopravvivenza e del recupero. Con la legge-quadro sul Pubblico Impiego puntavano a garantirsi un ruolo istituzionale in settori dove è presente una forte tradizione di sindacalismo autonomo e dove la svendita di obiettivi anche minimali rischiava e rischia tuttora di creare il vuoto nelle file del sindacalismo confederale[28]. Dall’altro lato la parola d’ordine della professionalità puntava a dividere i lavoratori, frantumando l’unità che si era creata nel precedente ciclo di lotte, ed a riaggregare al sindacato gli strati superiori; essa trovava fertile terreno nelle fughe corporative alla difesa del proprio potere di acquisto individuale, in un periodo in cui la lotta e gli obiettivi contrattuali tradizionali erano tutt0altro che paganti sotto quest’aspetto[29].

 

II.15. Dalla strategia dell’Eur al fondo... di solidarietà

Con la chiusura della trattativa per i contratti del 1979, la linea dell’Eur ottiene un’ulteriore pratica applicazione. Ne costituiscono un chiaro esempio gli accordi contrattuali per i grandi settori manifatturieri; accanto alla fumosa “prima parte dei contratti” (ovvero il diritto all’informazione con l’obiettivo di contrattare gli investimenti) che sostanzialmente non aggiunse niente di nuovo a quanto realizzato nei precedenti accordi del 1976, si verificava, nelle richieste salariali, una battuta di arresto che costituiva il presupposto per l’abbandono dell’egualitarismo.

È in questi contratti che la “necessaria riconsiderazione della professionalità” comincia a  trovare una pratica applicazione, con aumenti differenziati attuati in maniera più o meno camuffata.

Sempre in questi contratti una delle conquiste più sbandierate, e cioè la riduzione d’orario per certe lavorazioni di alcuni settori manifatturieri, non troverà un’applicazione pratica – se non episodica – per le forti resistenze del capitale pubblico e privato. È da notare che proprio una delle clausole contrattuali, frutto della linea produttivistica del sindacato, e cioè quella della mobilità esterna, si ritorcerà contro le lotte dei lavoratori e contro lo stesso sindacato nella vertenza alla Fiat dell’anno successivo.

Nella stessa logica si attua il Convegno di Montesilvano del novembre del 1979, le cui decisioni, prodotto di un sottile equilibrio di mediazioni, naufragheranno nell’impatto con la brutalità del reale, che metterà a nudo la sostanza di posizioni non mediabili.

L’intrinseca debolezza della proposta era nella pretesa di ristrutturare il sindacato in modo che esso fosse “[...] soggetto attivo per portare avanti efficaci misure di decentramento e di trasformazione della macchina statale[30]; il fallimento di questo progetto ha però lasciato in piedi tutta una serie di strutture (che dovevano progressivamente svuotare le strutture di base) che sono frutto della fusione delle proposte delle varie Confederazioni; esse languono per mancanza di quadri, di fondi e di motivazioni, il che, sommandosi alla mancanza di una strategia precisa della Federazione Unitaria, ne ha teso ad aggravare la crisi organizzativa.

Su questa linea di trasformazione del sindacato in “soggetto attivo” che persegue un progetto gestionale di questa società e che, cercando di venire incontro alle contrastanti esigenze in essa presenti, finisca non solo per non fare più gli interessi dei lavoratori, ma per fare di fatto quelli della controparte, il vertice sindacale decide di fare un ulteriore passo in avanti con la proposta, nel luglio del 1980, del prelievo dello 0,50% sul salario per istituire un “Fondo di solidarietà per i lavoratori del Mezzogiorno”; in questo caso la pronta risposta dei lavoratori fa fallire momentaneamente il progetto, mettendo a nudo le divergenze confederali che si basano non tanto sull’istituzione del Fondo, quanto sulla sua gestione.

Ma è nella ripresa dopo la pausa estiva che tutte le debolezze e le contraddizioni del sindacato (a cominciare dalla mancanza di una corretta analisi sulla fase di ristrutturazione della realtà produttiva italiana ed internazionale) si sommano, favorendo la più grave sconfitta dei lavoratori dalla fine degli anni sessanta, nella vertenza che si sviluppa alla Fiat tra il settembre e l’ottobre.

Non è stata certamente questa la prima sconfitta dei lavoratori italiani, attaccati dal padronato impegnato nella ristrutturazione dei vari settori produttivi; ma il caso della Fiat è particolarmente rilevante perché le dimensioni e ramificazioni di questa azienda ne fanno l’industria leader in Italia, non solo sul piano economico, ma anche su quello della politica del lavoro.

La lotta alla Fiat è stata inoltre tanto più complessa in quanto con essa si sono intrecciate manovre politiche dei partiti in un momento quanto mai delicato; è proprio per questo che il Pci ha preso la guida delle lotte, volendo dimostrare l’ingovernabilità dei conflitti sociali senza il suo soccorso.

Ma le scelte del capitalismo italiano nei confronti del Pci si andavano chiarendo; esse falciavano l’erba sotto i piedi alla politica di unità nazionale ed i contraccolpi di ciò dovevano giungere anche nella Federazione Unitaria, che aveva elaborato un suo ruolo proprio a supporto di questa politica.

Con le lotte alla Fiat, quindi, si chiude nei fatti un periodo, perché viene vanificata la strategia dell’Eur sia nei suoi presupposti politici, sia nei risultati concreti, anche se questa consapevolezza tarderà a farsi strada soprattutto  nei vertici del sindacato, che continueranno a portarla avanti ottusamente.

Tutto questo, naturalmente, attraverso numerose contraddizioni; se il mancato svolgimento della prevista Assemblea dei quadri e dei delegati, già denominata l’Eur 2, segna una battuta di arresto[31], il Convegno di Montecatini del marzo del 1981 procede sulla strada a suo tempo tracciata, soprattutto per le decisioni che riguardano il problema della professionalità, vista come ricomposizione gerarchica del lavoro  nella fabbrica e nella società in generale.

Nei Congressi confederali, che si svolgono nel 1981, questa linea viene ancor più precisata. Se prendiamo in esame quello della Cgil[32], che è poi quello che più ci interessa, vediamo che si ha ancora una volta l’accettazione sostanziale della politica delle “compatibilità”, che si concretizza nell’accettazione di una trattativa sul costo del lavoro, che implica l’attribuzione a questo, finendo per sposare le tesi padronali, delle ragioni della crescita dell’inflazione.

Ancora più grave appare la situazione se si prende in esame la politica della Cgil e la sua posizione sui rinnovi contrattuali, a cardine dei quali viene posta, in modo netto, la differenziazione dei salari, con abbandono definitivo dell’egualitarismo, visto come valore negativo, il rifiuto quindi degli automatismi e dall’appiattimento salariale, da conseguirsi con l’esaltazione della professionalità. È mediante nessi continui tra professionalità e produttività che si cerca di disegnare una nuova organizzazione del lavoro, con discorsi quanto mai vaghi, che lasciano spazio alla controparte per inserire il suo progetto di organizzazione del lavoro e la sua visione di produttività.

La precisazione definitiva di questa linea avviene durante la consultazione sui “dieci punti”, nel gennaio del 1982, che segna il tratto d’unione tra i Congressi e la preparazione delle piattaforme contrattuali.

Se sul “Fondo di solidarietà” si fa una nuova ancorché temporanea battuta d’arresto per l’opposizione netta dei lavoratori, con lo stravolgimento e la manipolazione dei risultati delle assemblee da parte dei vertici sindacali, viene fatta passare la logica delle compatibilità con il tetto del 16% per le richieste di aumenti salariali.

Le stesse indicazioni del Consiglio Generale della Federazione Unitaria, che si era riunito a Firenze per valutare l’andamento della contrattazione, vengono disattese; il tetto del 16% per il 1982 (13% nel 1983 e 10% nel 1984) viene rispettato di fatto nelle richieste contrattuali, nonostante che questo limite venga superato dall’inflazione reale e la sua accettazione fosse subordinata a delle contropartite da parte del Governo, contropartite rivelatesi subito inesistenti.

Questo nuovo colpo al potere d’acquisto dei salari rappresenta un altro passo decisivo sulla strada della ristrutturazione capitalistica, così come sarà sancito dalle successive piattaforme contrattuali.

La linea intrapresa dai vertici sindacali va avanti e trova ulteriori applicazioni, nonostante le crescenti opposizioni dei lavoratori. Ne è un esempio evidente la trattativa sul costo del lavoro e sulla scala mobile del gennaio 1983, in cui, di fronte alla più vasta mobilitazione della classe operaia degli ultimi anni in risposta all’attacco padronale congiunto a quello del Governo Fanfani, il sindacato non trova di meglio da fare che giungere ad un accordo peggiorativo della già pessima base di partenza (rifiutata per altro dalle assemblee di base) delle trattative; più del 20% di rallentamento della contingenza contro la proposta iniziale del sindacato del 10%. Si svende e si cerca di liquidare in questo modo l’enorme ed inaspettato potenziale di lotta del movimento operaio, che si è dimostrato tutt’altro che battuto. Da notare che, beffa tra le beffe, nell’accordo rispunta il “Fondo di solidarietà” respinto per ben tre volte dai lavoratori durante le consultazioni nelle fabbriche.

Tutto questo deriva ancora una volta dalla subalternità del sindacato dalla logica del capitalismo, perché da sempre le lotte per il controllo dei mercati hanno teso ad inserire la classe operaia nella logica delle compatibilità, per poi portarla a favore della guerra, in barba ad ogni internazionalismo.

 

II.16. Verso un nuovo ciclo di lotte?

Dopo la firma dell’accordo del 22 gennaio 1983, nonostante l’insoddisfazione della base chiaramente espressa soprattutto in alcune grosse aziende, e grazie alla manipolazione stessa dei dati assembleari favorita da un’interpretazione a dir poco truffaldina dei pronunciamenti emendativi, la compattezza dei vertici sindacali riuscì a non far saldare un fronte compatto di protesta.

Il sindacato si avviò così ad una delle stagioni di rinnovi contrattuali più stanche del dopoguerra: pochi scioperi, poco sentiti (il 1983 risulta essere l’anno in cui la conflittualità ha raggiunto un minimo storico nonostante i rinnovi in corso nelle maggiori categorie industriali) anche in virtù della scarsa affezione dei lavoratori per delle piattaforme contrattuali decisamente prive di veri contenuti rivendicativi. D’altra parte il padronato era attestato su di una linea di rigido rifiuto di qualsiasi richiesta, confortato in ciò dalla lunga serie di vittorie riportate negli anni precedenti. Ne uscirono contratti con benefici economici al di sotto di ogni pessimistica previsione e per di più sbilanciati verso la ricostituzione di una più elevata forbice parametrale in ossequio alla linea del riconoscimento della professionalità.

La elezioni del 26 giugno segnarono una grossa sconfitta per la Dc, mentre il Pci perdeva poco terreno ed il Psi non raggiungeva i traguardi per cui aveva puntato ad anticipare la fine della legislatura. Ma nonostante che la campagna del Psi fosse stata centrata contro la politica del rigore a senso unico propugnata dalla Dc e dal Pri, toccherà proprio ad esso portare avanti l’attacco più massiccio ai redditi dei lavoratori per conto di un padronato ormai convinto di poter osare tutto e di essere giunto al punto di ottenere la vittoria definitiva. Come ai tempi del centro sinistra il Governo Craxi doveva servire a spezzare l fronte dei lavoratori, contando sul forte peso condizionante che le componenti socialiste avevano dentro la Federazione Unitaria ed all’interno stesso della Cgil. Per questo a meno di un anno dall’accordo sul costo del lavoro, questo fu rimesso in discussione per un ulteriore taglio della contingenza, nonostante che a fronte di un aumento dell’inflazione di oltre il 15% (contro il 13% previsto) i salari fossero rimasti ben al di sotto.

Il sindacato si presentò alla trattativa con un documento in cui si dichiarava disponibile a nuovi tagli salariali in cambio di contropartite sempre promesse e mai ottenute, documento che non veniva sottoposto alla verifica tra i lavoratori perché se ne temeva la reazione. Ma in effetti ciò che non era successo l’anno prima si veniva verificando: i lavoratori cominciavano a trovare forme organizzative autonome per dare corpo alla protesta, rivitalizzando i Consigli di Fabbrica e ridando un ruolo ad essi di elaborazione politica e di gestione delle lotte. La Cgil era l’unica delle tre Confederazioni a comprendere che stavolta l’agitazione avrebbe preso corpo anche malgrado i sindacati e decidendo di cavalcare la tigre abbandonava la trattativa mentre Cisl e Uil firmavano un accordo in cui non erano presenti neppure le solite vecchie promesse. La componente socialista della Cgil si dissociava, ma non otteneva lo sperato effetto di veto sulla mobilità politica della Confederazione.

Di fronte al rifiuto della Cgil di firmare l’accordo, il Governo decideva di decretare sulla materia, ma le conseguenze non erano calcolabili. Il Pci che per anni aveva fatto un’opposizione “costruttiva” veniva spinto dalla propria emarginazione politica sanzionata dal decreto a scegliere la via di un’aspra lotta ostruzionistica, mentre si apriva nel paese una fase di lotte estremamente ampia, che rimetteva in discussione tutta la linea strategica del sindacato dal 1975 e soprattutto poneva le basi di una nuova democrazia sindacale. La scommessa dei vertici sindacali (Cgil compresa) era quella di ricondurre il movimento all’interno di sicuri binari, ma d’altra parte questo movimento era il frutto di una crescente insoddisfazione operaia verso la gestione sindacale. Oggi, all’indomani della manifestazione di Roma del 24 marzo, è difficile dire se la linea di “rientro soffice” prospettata da Lama abbia la possibilità di passare nell’immediato; ciò che è certo è che i fatti ultimi sedimentano coscienza di voler decidere e forme organizzative autonome dei lavoratori, per cui non è velleitario pensare di trovarsi alla vigilia di un nuovo ciclo di lotte.

 

II.17. Elementi di strategia sindacale

Avevamo detto nelle premesse che l’organizzazione sindacale, pur essendo nata come esigenza delle masse, nella lotta e nello scontro con il capitale si trasforma e diviene spesso strumento – come del resto la lotta operaia – di razionalizzazione dello sfruttamento capitalistico. Il problema è perciò quello di avere costantemente dinanzi punti di riferimento sui quali misurare la finalizzazione delle lotte e la loro collocazione in una strategia rivoluzionaria.

Strumento essenziale per realizzare ciò è la centralità operaia, a proposito della quale va detto che riconosciamo come presupposto fondamentale per la costruzione di una società senza classi, in cui sia abolito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, lo scontro necessario ed inevitabile tra la classe dominante e quella subalterna. In questo contesto gli operai della fabbrica (per il tipo di produzione che attuano, per lo stesso processo di accumulazione del capitale, per il tipo di vita al di fuori della loro attività) sono, non solo il cardine fondamentale del nostro progetto rivoluzionario, ma anche gli elementi la cui coscienza di classe ha più facilità di essere formata e sviluppata, mentre per gli altri strati il passaggio verso la proletarizzazione richiede una maggiore componente soggettiva.

Ma se tutto questo è vero, ci rifiutiamo di pensare alla “centralità operaia” in termini leninisti; in quel caso si giungerebbe inevitabilmente ad una rivoluzione politica che, essendo solo tale, condannerebbe necessariamente la parte più importante del cambiamento rivoluzionario, che è la questione sociale.

Per questo ci sembra corretto insistere sulla “centralità operaia”, in cui (al di là dei dati evidenti di cui parlavamo riguardo agli operai) si sviluppi l’unità di tutto il proletariato e sia bandita qualsiasi prevalenza di “dittatura” degli operai sugli altri proletari e viceversa: alle divisioni dei padroni dobbiamo opporre proprio l’unità e l’autonomia di tutto il proletariato affidando alla classe operaia il compito di lottare in prima persona per questa unificazione.

Ribadita la “centralità operaia”, occorre vedere  come la classe in lotta diviene soggetto politico e, sulla base di elementi qualificanti delle proprie lotte, impone un uso politico dell’organizzazione sindacale. Il sindacato, come abbiamo più volte detto, pur essendo la diretta conseguenza di un bisogno di classe, non è di per sé né rivoluzionario né riformista. Le sue scelte sono orientabili a seconda che rimangano fermi alcuni punti di riferimento che sono l’autonomia, la democrazia interna e l’azione diretta.

La pratica di questi obiettivi permette ed è funzionale al recupero dell’organizzazione sindacale, quale è quella attuale, a quelle caratteristiche di classe suaccennate. Partendo dalla considerazione che essa è ancora oggi, malgrado cedimenti e carenze, almeno nella coscienza del proletariato l’organizzazione storica e di massa, attraverso la quale i lavoratori lottano per la soddisfazione dei loro bisogni materiali. Questo recupero comporta ovviamente una sua totale ristrutturazione organizzativa che la renda realmente autogestita. Il bisogno di costituire un fronte di lotta comune è sentito in modo pressante dalla classe, al punto che spesso le collocazioni ideologiche dei singoli iscritti vengono subordinate al raggiungimento dei fini che l’organizzazione si propone.

Mentre il riformismo tenta di dare all’organizzazione di massa e di conseguenza al sindacato dei fini immediati che vanno verso la soddisfazione dei bisogni in un quadro di compatibilità col capitalismo, la pratica dell’autonomia, della democrazia operaia e dell’azione diretta è il solo strumento attraverso il quale costruire nel sindacato un fronte comune contro il capitalismo, l’imperialismo, lo sfruttamento e lo Stato.

Soprattutto oggi quando, di fronte alla difficoltà di far passare ipotesi riformiste di contenimento salariale delle lotte, si distrugge il concetto di autonomia, soffocando la democrazia interna, negando l’azione diretta e cercando di isolare tutti coloro che sostengono questi principi, principi che si fanno strada nella coscienza dei lavoratori, diviene suicida sostenere l’autoisolamento dei rivoluzionari, attraverso l’uscita dal sindacato e la costituzione di un’opposizione esterna che si configuri come sindacato di classe o rivoluzionario.

Va capito infatti fino in fondo che la scelta unitaria che il proletariato fa nella pratica di unità di classe si ribalta sull’unità sindacale come esigenza prioritaria.

D’altra parte è proprio a partire dall’unità di base, che il proletariato vuole e deve sviluppare, che si può costruire il passaggio dal sindacato a direzione riformista al sindacato di massa autogestito. Non è certo con l’esempio dei giusti metodi di lotta e delle giuste rivendicazioni che si può illuministicamente pensare che il proletariato esca dal sindacato riformista per aderire a quello rivoluzionario. È proprio invece a partire dalle contraddizioni tra le esigenze dei lavoratori e la linea subalterna dei vertici riformisti che si può sviluppare unitariamente alla base la costituzione di una linea alternativa, matrice di un nuovo sindacato che nasca dalle istanze di democrazia diretta, coscienti del fatto che i riformisti stessi creeranno (e stanno già creando) divisioni e rotture al momento che si renderanno conto di star perdendo il controllo della combattività operaia. Sta alle avanguardie rivoluzionarie fare in modo che questa scissione, che i riformisti hanno sempre storicamente perseguito, si attui al momento in cui essi saranno il più isolati possibile dalla classe.

D’altronde, come abbiamo visto ripercorrendo lo sviluppo storico e le lotte del sindacato in Italia nel dopoguerra, i riformisti hanno avvertito questa esigenza di unità del proletariato ed hanno cercato di darle una risposta, in termini congeniali alla propria strategia di controllo dell’autonomia di base, di cui vale la pena ricordare i tempi e le fasi.

 

II.18. Unità, rapporti di forza ed autonomia

Come abbiamo detto, dopo la rottura perdurata per buona parte degli anni cinquanta, una serie di fattori economico-politici, sia nazionali che internazionali, determinarono un timido riavvicinamento delle centrali sindacali.

Significativo in questo senso il fatto che nel 1959 le Federazioni dei metalmeccanici si presentassero già unite nella vertenza nazionale della categoria. L’unità d’azione era stata ricercata principalmente dalla Fim; era il primo frutto della formazione sindacale dossettiana che, benché ispirata all’interclassismo, fornì notevoli spunti critici. Questa è una delle indicazioni che, anche se la Cisl era nata ed era rimasta legata a gruppi di potere ed alla Dc, la sua dipendenza da questo partito era su di un piano diverso del binomio Pci-Cgil.

Dice Lama: “A questo proposito la Cisl era in partenza più esitante della Uil sull’unità d’azione; affermava però, a differenza della Uil, la validità di un progetto di unità organica ed anche la sua realizzabilità a determinate condizioni. Le premesse di valore in fondo erano per la Cisl le premesse per l’unità organica e non per l’unità d’azione. Da un lato c’era sì il marciare divisi per colpire uniti, ma dall’altro c’era un discorso globale sulla filosofia del sindacato, anche sulla sua unità. La Uil, invece, più pragmatica, diceva che l’unità non si poteva fare in quelle condizioni, anzi la sola unità che si poteva fare è quella di coloro che la pensano allo stesso modo nelle loro radici ideologiche e quindi l’unità dei socialisti nel sindacato, sindacato di tutti i socialisti.”[33]

Anche questa volta la manovra fu respinta dagli stessi socialisti della Cgil, nonostante l’avvenuta riunificazione Psi-Psdi.

La Cgil da parte sua cominciava ad assumersi certi impegni sui punti che erano diversamente interpretati dalla Cisl e dalla Uil: nel 1967 i sindacalisti Cgil eletti nelle liste del Pci e del Psi in Parlamento si astennero nel voto sul piano quinquennale, a differenza del Pci che votò contro. Era un primo passo nel confronto sui temi economici e sui punti che poi verranno accettati in questi ultimi anni (vedi allontanamento progressivo della Cgil dalla Fsm e la sua successiva adesione alla Ces).

Alla fine degli anni sessanta vengono a maturazione numerosi processi e contraddizioni anche esterni al movimento sindacale: come detto in altre parti, i sindacati, che procedevano cautamente su di una strada unitaria di accordi al vertice, si trovano di fronte all’esplosione delle lotte operaie. Lotte nuove, che investono l’organizzazione capitalistica del lavoro, che richiedono nuove forme organizzative: così nelle assemblee vengono a sfumarsi differenze e divergenze degli iscritti sindacali, mentre i vertici sono costretti a rincorrere le lotte autonome.

È in questa situazione che, sotto la spinta della base e dell’esigenza di un rinnovamento strutturale, i vertici prendono atto delle lotte unitarie che partono dalle fabbriche ed investono il sociale. Alla luce della stagione dei Congressi del 1969 emerge quanto segue: nella Cgil passano le tesi sull’unità e sull’autonomia, anche se quest’ultimo tema si presentò assai spinoso per le resistenze opposte dai vecchi quadri, timorosi di spezzare “la cinghia” che legava l’organizzazione al Pci.

Nella Cisl prevale la tesi dell’unità, anche se in maniera non del tutto chiara: ed infatti la minoranza, attestata su posizioni decise, rifiutò in un primo momento di far parte della Segreteria. Per la Cisl il problema dell’autonomia si presentava meno drammatico perché già da tempo, soprattutto grazie alla Fim ed alle correnti più avanzate delle Acli, aveva dei rapporti diretti con la Dc quantomeno non stretti.

La Uil, che a differenza delle altre due centrali aveva delle correnti interne su posizioni a volte molto distanti e che procuravano divisioni profonde, vide un dibattito con un certo equilibrio delle rispettive tesi e di ciò era emblematica espressione la Segreteria di Viglianesi, frutto di notevoli compromessi e mediazioni[34].

Il dibattito sull’autonomia era incentrato nelle tre organizzazioni soprattutto sulla incompatibilità delle cariche nei partiti e nei sindacati; di ciò risentiva evidentemente la Cgil e spesso questo argomento era usato strumentalmente dai vertici della Cisl e della Uil.

Il dibattito su questi temi continuò a svilupparsi sul problema dei delegati e delle strutture unitarie di base, e ciò a causa dell’incalzare dell’autunno caldo. Già nel marzo del 1970 la prima Conferenza unitaria dei metalmeccanici, tenutasi a Genova, indica nei delegati e nei Consigli di Fabbrica i nuovi organismi sindacali unitari; nei mesi successivi però i metalmeccanici arrivarono a riconoscere in questi organismi la struttura rappresentativa fondamentale, giudicando totalmente superate le esperienze delle sezioni sindacali e delle Commissioni interne, per approdare ad una visione dei Consigli di Fabbrica come unica rappresentanza aziendale, formata dai delegati eletti da tutti i lavoratori. Nella Cgil e nella Cisl queste posizioni non furono accolte, anche se per motivi diversi. La Cgil individuava nei Consigli di Fabbrica il nuovo organismo sindacale di base, mentre la Cisl avrebbe voluto trasferire ai Consigli i compiti della Commissione Interna, con l’affiancamento di sezioni sindacali formate da soli iscritti. Nella Uil invece questo dibattito era estremamente arretrato: l’unica presa di posizione costante era il richiamo alla garanzia delle minoranze nelle elezioni dei delegati, rifiutando nei fatti qualsiasi pratica unitaria.

Ritornando al dibattito generale sull’unità, dopo i Congressi del 1969 si arriva, attraverso vari  passaggi, alla riunione dei Consigli Generali Cgil-Cisl-Uil di Firenze del 3 novembre 1971, in cui vengono decisi dalle tre organizzazioni entro il 1972 i Congressi di scioglimento delle singole Confederazioni e la celebrazione del Congresso di unità organica.

Subito dopo, in concomitanza con la formazione del Governo di Centro destra di Andreotti, iniziava l’involuzione del processo unitario di cui la Federazione Unitaria ed il Patto Federativo del luglio 1972 furono l’unico sbocco possibile a tempi brevi. I partiti politici che manovrano i sindacati si erano espressi già da tempo su questo problema: primi di tutti il Psi ed il Pci, che lo avevano fatto in termini estremamente favorevoli. Ma la trattativa, sempre per il Pci, doveva rimanere a livello di vertice, per non rompere con la Cisl e la Uil.

Il Pri ed il Psdi si erano invece contraddistinti per sabotare l’unità organica, mentre la Dc si comportava in maniera ambigua, per l’avversità a qualsiasi accordo con il Pci, pur in presenza di correnti favorevoli ad una collaborazione, specialmente in campo sindacale.

La caduta del Governo Andreotti e la crisi economica che cominciava ad intravedersi, aprì la strada alla “questione comunista” che da allora sarà sempre più presente e decisiva nelle scelte sindacali e nel dibattito unitario. La proposta di compromesso storico non fu solo oggetto di dibattito politico: il Pci, tramite la Cgil, ha sempre più cercato di ribaltarla in campo sindacale, sfruttando la persistente richiesta di unità da parte dei lavoratori.

La crisi che investì l’Italia dette sempre più fiato alle trombe dell’unità, vista come accordo dei vertici: come poteva infatti uscire il paese dalla crisi, ci si chiedeva, se non coll’accordo politico tra i partiti “democratici”? E come poteva quest’accordo non vedere ancora più strettamente legate le organizzazioni sindacali, che avrebbero dovuto imporre il patto sociale e far digerire ai lavoratori i sacrifici?

Fu quindi su quanto detto sopra e sulla necessità di ristrutturazione che teneva conto del cambiamento della società e del bisogno di nuovi campi di sfruttamento, dell’adeguamento dell’Italia al ruolo assegnatole nei rapporti internazionali, che si incentrò il dibattito e le prospettive circa l’unità e l’autonomia. Nella Cisl e nella Uil, col mutamento del quadro politico, si arrivò ad un cambiamento rispetto alle posizioni sin qui viste. La maggioranza della Cisl venne infatti conquistata da Macario, espressione di una maggiore spinta unitaria e nella Uil l’accordo dei socialdemocratici con i socialisti mise in netta minoranza l’ala destra rappresentata dai repubblicani.

Questo non volle dire comunque l’unità organica e numerosi episodi ce lo confermano; vedi gli attacchi di Benvenuto alla Cgil e più recentemente alla stessa Federazione Unitaria, le divergenze di posizione nella stessa Cgil tra la maggioranza e la sinistra rappresentata fino a qualche tempo fa, cioè fino al momento della sua candidatura a Segretario Generale, da Trentin, ed infine la convergenza su molti punti fra le attuali maggioranze di Cisl e Uil.

Da tutto ciò si deduce che la risposta data dal sindacato al problema unitario, dal punto di vista degli interessi di classe, era evidentemente di taglio verticistico e negativo, ma soprattutto intrinsecamente debole. Negli ultimi contratti le differenze tra le categorie e le divisioni tra i lavoratori si sono andate accentuando e questa non è che l’accelerazione di una tendenza in atto dalle passate tornate contrattuali[35].

Si è teso a spegnere la spinta all’egualitarismo nei salari, la stessa mobilità e ristrutturazione accettata dai vertici sindacali punta a sconvolgere l’organizzazione unitaria di base dei gruppi omogenei e dei reparti, mentre la rivalutazione della professionalità che ha caratterizzato tutte le piattaforme ha introdotto ulteriori e spesso artificiosi elementi di divisione tra i lavoratori.

Tuttavia l’attacco più grave all’unità di classe, in fabbrica come nel sindacato, è venuta dai riformisti attraverso un’azione che percorreva all’interno le Confederazioni sindacali, per far passare, a livello sia politico che organizzativo, le scelte cogestionarie derivanti la linea dell’Eur: così da un lato si sono attaccati in fabbrica gli strumenti di democrazia operaia, svuotandoli attraverso la loro tendenziale trasformazione in Ras, dall’altro negando loro qualsiasi decisionalità.

Questo lungo cammino di devitalizzazione dei Consigli di Fabbrica si è infranto con le recenti lotte sul decreto governativo, che hanno da un lato rimesso in discussione l’intera strategia sindacale e dall’altro rilanciato prepotentemente il ruolo centrale di queste strutture, mettendo definitivamente in crisi la concezione dell’unità come patto verticistico e come vincolo ad ogni espressione unitaria di base.

La discriminazione reale perciò oggi non sta nell’appartenenza ad un sindacato più o meno rivoluzionario, ad un gruppo di fabbrica più o meno radicale, ma nell’operare nella direzione di conservare e rafforzare gli strumenti di democrazia operaia nati nelle lotte del 1968-1969, generalizzandoli in contrapposizione alla pratica riformista, tuttora esistente nonostante le vibrate dichiarazioni in contrario, di svuotamento di questi strumenti.

 

Note:

[1] P. BIANCONI, La Cgl sconosciuta, Sapere, Milano 1973; B. BECCAGLI, La ricostruzione del sindacalismo italiano 1943-1950, in S.J. WOOLF (a cura di), Italia 1943-1950: la ricostruzione, Laterza, Bari 1975, pp. 319 e segg.
[2] Si veda nota (9).
[3] C. PERNA, Breve storia del sindacato, De Donato, Bari 1978, pp. 101-108. 
[4] G. POGGI, La chiesa nella politica italiana dal 1945 al 1950, in S.J. WOOLF, op.cit., pp.256 e segg.; F. MAGRI, Dal movimento sindacale cristiano al sindacalismo democratico, La Fiaccola, Milano 1957. 
[5] I. Viglianesi, Origini e costituzione della Uil, in B. Bezza (a cura di), Lavoratori e movimento sindacale in Italia, Morano Editore, Milano 1972, pp. 197 e segg.; V. Agostinone, Una testimonianza: sindacati americani e italiani al tempo della scissione, in Aa.Vv., Italia e America dalla grande guerra ad oggi, Marsilio, Padova 1976, pp. 223-240. 
[6] Il partito nella fabbrica, in “Classe Operaia”, dic. 1964, pp. 18 e segg. 
[7] La Cgil nel secondo dopoguerra, in “Classe Operaia”, mag. 1964, p. 16. 
[8] Ucat-Ocl, Ai compagni su: professionalità mito sindacale, Cp, Firenze 1982, pp. 4-6. 
[9] Mozione sulle linee di indirizzo della politica salariale, in Documenti ufficiali dal 1950 al 1958, Intersind, Roma 1959. 
[10] E. Pugno, G. Garavini, Gli anni duri alla Fiat, Einaudi, Torino 1975. 
[11] Dieci anni di attività contrattuale (1958-1968), Intersind, Roma 1968. 
[12] Ibidem
[13] Ucat-Ocl, Ai compagni su ... cit., 6-8. 
[14] V. Foa, Sindacati e lotte operaie 1943-1973, Loescher, Torino 1975, p. 118. 
[15] G. Romagnoli, Consigli di fabbrica e democrazia sindacale, Mazzotta, Milano 1976; A. Forbice, A. Chiaberge, Il sindacato dei Consigli, Bertani, Verona 1974. 
[16] G. Cimbalo, S. Craparo, G. Di Lembo, G. Leoni, P. Masciotra, M. Paganini, Ai compagni su: capitalismo ristrutturazione e lotta di classe, Cp, Firenze 1975, pp. 24 e segg. 
[17] Gruppo Comunista Anarchico di Firenze, Economia e politica della “crisi”: un contributo, in “Per il contropotere”, n.u., Viterbo, p. 7. 
[18] Cfr. Piattaforma Eur, in “Rassegna sindacale”, genn. 1978, Federazione Cgil-Cisl-Uil, Comitato Direttivo Unitario, Roma 13-14/I/1978; Federazione Cgil-Cisl-Uil, Assemblea Nazionale dei Consigli Generali e dei Delegati, Roma 13-14/II/1978. 
[19] Per un’analisi più ampia e soprattutto contemporanea della “crisi” della fine degli anni settanta, cfr. “Informatore di Parte” e “Formazione e Informazione”, numero speciale su: Situazione economica e politica internazionale e collocazione dell’Italia, Firenze-Lucca, febb. 1980. 
[20] Piattaforma Eur ... cit. 
[21] Ibidem
[22] Intervista a L. Lama, in “La Repubblica”, 24/1/1978, p.3. 
[23] Federazione Cgil-Cisl-Uil, Assemblea nazionale ... cit. 
[24] Comitato Direttivo Cgil sui problemi di organizzazione e dell’unità sindacale, Roma, 5-6/VI/1978, pp. 27-39, ed in particolare la relazione introduttiva di R. Scheda. 
[25] R. Scheda, Come riorganizzo la Cgil, in “Il Mondo” del 19/IV/1978 (intervista a cura di L. Scheggi). 
[26] Cfr. paragrafo III.4.. e Quando il sindacato cerca di farsi Stato, in “Informatore di parte”, n. 10, nov. 1981, pp. 8-13. 
[27] Per una nostra valutazione sulle lotte del Pubblico Impiego di quegli anni cfr. Unità di classe e ruolo delle avanguardie nelle recenti lotte, in “Formazione e Informazione”, n. 1 dic. 1979, pp. 5-6. 
[28] Sulla legge-quadro più diffusamente cfr. Mettiamo ordine nel Pubblico Impiego, in “Informatore di parte”, n. 3, lug. 1979, pp. 7-12. 
[29] Ucat-Ocl, Ai compagni su ... cit. 
[30] Cgil-Cisl-Uil, Azione del sindacato e riforma delle strutture organizzative, Convegno di Montesilvano di Pescara, 5-7/XI/1979. 
[31] L’Eur 1 e ½, in “Informatore di parte”, n. 8, feb. 1981, pp. 7-16. 
[32] Commissione Sindacale Ucat, Cgil a Congresso, Firenze-Lucca, sett. 1981. 
[33] La dichiarazione citata è ora riportata in V. Foa, Sindacati e lotte... cit., p.78. 
[34] C. Perna, Breve storia... cit., pp.249-256. 
[35] Il contratto dei metalmeccanici, in “Informatore di parte”, n.12, giu. 1982, pp. 17-22. Chimici: al peggio non c’è mai un limite, in “Informatore di parte”, n.13, ott. 1982, pp. 32-35.


III. Per un strategia di intervento dei comunisti anarchici

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